Approfondimenti
Il Salento un mattone sopra l’altro
Presente e futuro dell’edilizia salentina: il forum
Come cambia il mondo dell’edilizia salentina? Quanto i nostri Comuni sono pronti ad affrontare le novità telematiche, il regolamento edilizio unico, l’estensione di responsabilità ai tecnici della nuova Scia? Le risposte a queste ed altre domande nel nostro forum con i presidenti degli ordini provinciali degli Architetti (Rocco De Matteis), degli Ingegneri (Daniele De Fabrizio) e dei Geometri (Eugenio Rizzo).
Informatizzazione
Il mondo cambia anche per l’edilizia: la legge prevede l’invio telematico (anche se ancora non sono previste sanzioni in caso contrario) dei progetti e delle relative documentazioni. Ma i nostri Comuni sono attrezzati?
Rocco De Matteis (Architetti): “Il DPR 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia) dispone, con l’aggiunta nel 2011 del comma 4-bis all’articolo 5, che gli Sportelli Unici per l’Edilizia e per le Attività Produttive siano tenuti a ricevere le pratiche a loro destinate per via telematica. Si tratta quindi di procedure strutturate all’interno della disciplina delle attività edilizie. È del tutto evidente la bontà della digitalizzazione che può ridurre i tempi e i costi burocratici delle procedure edilizie oltre ad assicurare certezza degli adempimenti per cittadini e imprese nella garanzia della trasparenza dell’azione pubblica. Fuori dagli obblighi normativi questi aspetti devono essere colti e fatti propri non solo dalle amministrazioni e dai propri uffici ma anche dai professionisti che devono fare uno sforzo in più per assecondare l’aggiornamento tecnologico della propria attività”.
Daniele De Fabrizio (Ingegneri): “In merito alle nuove procedure per la trasmissione dei progetti e, in genere, per invio di documenti e/o per richiedere certificazioni o documenti, se da un lato la normativa nazionale è al passo con i tempi e con le nuove necessità, dall’altro, la stessa normativa non dà ai Comuni gli strumenti per poter rispondere alle esigenze dei cittadini e adempiere compiutamente alle disposizioni legislative. Basta vedere l’organico degli uffici tecnici e le professionalità presenti, nella quasi totalità dei nostri Comuni sempre al di sotto delle effettive necessità”.
Eugenio Rizzo (Geometri): “Noi geometri in un certo senso siamo stati i pionieri della trasmissione telematica, poiché i primi elaborati oggetto di trasmissione telematica furono gli atti di aggiornamento catastatale “ modello DOCFA” che già dal 2002 inviavamo all’allora ufficio del Catasto, ora Agenzia dell’Entrate. I Comuni salentini purtroppo sono ancora in forte ritardo riguardo alla trasmissione telematica delle pratiche edilizie ai SUE. Di fatto i Comuni già attivi in tal senso mi risulta siano Cavallino e Gallipoli, mentre Lecce al momento è ancora in una fase sperimentale alla quale anche noi geometri stiamo contribuendo”.
Regolamento Tipo
Si va verso il regolamento edilizio tipo, con un glossario per tutti e declinazioni a livello regionale, provinciale e comunale. Cosa cambierà per i tecnici? E per i cittadini?
De Fabrizio: “Il Governo ha finalmente approvato il Regolamento Edilizio Tipo che si compone di una serie di definizioni, finalmente univoche (sembrerà strano ma i regolamenti vigenti nei nostri comuni, ad oggi, danno differenti definizioni di superfici coperte, di volumi, di altezze ecc.). La Regione ha già predisposto una legge di recepimento del suddetto regolamento tipo e, in una riunione con l’Assessore regionale all’urbanistica, gli Ordini degli Ingegneri della Puglia hanno chiesto l’istituzione di un tavolo tecnico per la redazione di un Regolamento Edilizio Unico per la Puglia. Siamo in attesa”.
Rizzo: “Il regolamento edilizio tipo, non potrà che agevolare il lavoro di noi tecnici, oggi alle prese con una serie di regolamenti vigenti nei vari Comuni, spesso con consistenti diversità fra loro. La condizione sine qua non, deve essere quella che sia stilato in modo chiaro e non lasci spazio alle interpretazioni dei vari dirigenti comunali”.
De Matteis: “All’interno di un quadro di semplificazione ed uniformazione delle norme e degli adempimenti, il regolamento tipo rappresenta una importante novità perché cerca di stabilire “definizioni uniformi e disposizioni sovraordinate in materia edilizia”. Uno sforzo per creare un unico glossario di riferimento su tutta la Penisola e porre rimedio a quel linguaggio incerto e spesso contraddittorio che contraddistingue gli interventi di trasformazione del territorio. Se più che parlare 8.000 dialetti si parlasse un’unica lingua pur con accenti diversi… La chiarezza e unicità della norma (cos’è un volume, una superficie coperta, un vano tecnico, una veranda, un portico, ecc.) mette il professionista e il cittadino al riparo da interpretazioni soggettive e discriminanti”.
La nuova Scia
Il decreto legislativo 222 del 2016 estende il campo di applicazione della nuova Scia (Segnalazione certificata di inizio di attività), stabilendo il silenzio assenso e comunicazione e definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti. Al Comune resta solo la funzione di controllo e, se da una parte si semplifica il compito ai cittadini, dall’altra si estendono le competenze dei tecnici che diventano “asseveratori” con ancora più responsabilità. Giusto così?
Rizzo: “Ormai l’indirizzo del legislatore è chiaro: noi professionisti saremo sempre più tecnici asseveratori, con tutte le conseguenti responsabilità a nostro carico, e i vari enti avranno solo funzione di vigilanza e controllo sul nostro lavoro. Tale indirizzo certamente ci gratifica e ci dà responsabilità, ma contestualmente ci obbliga a un impegnativo e per noi oneroso aggiornamento professionale continuo, a fronte di compensi mai certi a causa dell’abolizione delle tariffe minime. Il collegio dei geometri di Lecce ha in fase di organizzazione una serie di seminari di approfondimento su tutte le tematiche urbanistico edilizie e igienico sanitarie, oggetto di asseverazione da parte dei tecnici”.
De Matteis: “Anche per la Scia unica vale quanto detto per il regolamento tipo per quanto riguarda la straordinaria utilità di moduli standardizzati su tutto il territorio nazionale. A questo si aggiungono ulteriori vantaggi, come l’avvio del procedimento amministrativo: ha una data precisa e, a meno di omissioni da parte dei richiedenti, contiene tutte le informazioni e i documenti necessari al procedimento per cui l’Amministrazione può richiedere integrazioni solo nel caso non vi sia corrispondenza tra il contenuto della segnalazione o della comunicazione e quanto pubblicato sul sito istituzionale. Si stabilisce, poi, il principio secondo cui “l’amministrazione chiede una volta sola”. In tutti i casi in cui sono necessarie altre Scia, comunicazioni, attestazioni, asseverazioni, l’interessato trasmette un’unica Scia e l’Amministrazione la trasmette immediatamente alle altre amministrazioni per i pareri di loro competenza. Sì vi è una maggiore responsabilizzazione del tecnico questi, però, potrà rivendicare il diritto di agire all’interno di un riferimento normativo e di disposizioni chiare e formali (penso a un certificato di destinazione urbanistica che inequivocabilmente, sul piano urbanistico e normativo, determini le tipologie di intervento). Maggiore responsabilità dei tecnici, quindi, ma all’interno di un quadro di maggiori certezze”.
De Fabrizio: “Non è giusto che in un quadro normativo confuso e schizofrenico e dove nulla è certo, si richieda al tecnico libero professionista di assumere responsabilità sulla conformità a norme e leggi poco o per niente chiare. Il silenzio assenso è un istituto che non condivido in quanto costituisce la soluzione di comodo per superare le inadempienze degli Enti preposti ad esprimere un parere. Ritengo che debba essere imposto il dovere a chi controlla di esprimere il previsto parere e ad essere chiamato alle proprie responsabilità in caso contrario. Senza nascondersi dietro scuse che, nella maggioranza dei casi, sono di comodo”.
Troppi vincoli
Tanti Enti, burocrazia elefantiaca, troppi vincoli e iter sempre più difficili: quanto siete d’accordo con questa affermazione?
De Fabrizio: “Oggi il regime vincolistico è irragionevole e, soprattutto, non porta alcun vantaggio né al paesaggio, né all’ambente e tanto meno alla qualità architettonica. Noi viviamo in un inquinamento estetico senza precedenti. Un esempio: se osserviamo uno dei bei palazzi delle nostre città, costruito negli anni ‘50 e ‘60 ne apprezziamo la semplicità delle forme, le pregevoli attenzioni agli elementi architettonici caratteristici e il rispetto dell’ambiente in cui è stato edificato; eppure quell’immobile è stato sottoposto ad un solo parere, quello dell’allora commissione edilizia comunale. I nostri progetti di oggi sono sottoposti all’approvazione di diversi Enti, preposti, ognuno, a tutelate un solo vincolo, eppure non mi sembra che la qualità ingegneristica ed architettonica sia superiore a quella precedente”.
De Matteis: “Più che i vincoli, preoccupa il non definito, la mancanza di regole e responsabilità certe. Non si avvia nessun procedimento se tale procedimento non può essere avviato. è necessario costruire Questo scenario a vantaggio di tutti (quel costo della burocrazia di cui parlavo prima non è irrilevante e lo paghiamo tutti)”.
Rizzo: “Certamente negli ultimi anni vi è stata la semplificazione delle procedure, ma ciò è avvenuto solo ed esclusivamente scaricando su noi tecnici tutte le responsabilità e non mediante una reale semplificazione. Sono richiesti, ancora oggi, troppi pareri preliminari che allungano i tempi ed aumentano i costi”.
Più restauri
Sembra essere fiorente il comparto dei recuperi delle costruzioni in campagna e nei centri storici con benefici per la manodopera legata al restauro. È questa la nuova tendenza?
De Fabrizio: “Come nella proposta avanzata alla Regione dal nostro ordine sarebbe opportuno vietare (entro certi limiti) il consumo di suolo per nuove edificazioni ed intervenire esclusivamente sul costruito, demolendo gli immobili vetusti che hanno caratterizzato l’edilizia degli ultimi cinquant’anni, garantendo delle premialità, a chi ricostruisce, in termini di, oneri concessori, volumetrici, di sgravi fiscali e aliquote IVA (in proposito non si comprende perché solo il costo del mattone è assoggettato ad una aliquota IVA pari al 22% senza possibilità di IVA ridotta come per gli elementi degli impianti)”.
Rizzo: “Non si può che essere d’accordo con il progetto di difesa del territorio e il consumo O del suolo, ma, la dove gli strumenti urbanistici attuativi lo consentono o dove ci sia il solo recupero dell’esistente, le procedure e i pareri dovrebbero essere rivisti e snelliti. La tendenza dei nuovi urbanisti è il consumo O del territorio e il nuovo PUG di Lecce “che noi geometri abbiamo gradito” ne è la prova. Il recupero dei corpi masserizi e dei centri storici rappresenta il futuro dell’edilizia, ma resta un mercato di nicchia a causa dei notevoli costi di recupero e della mancanza di reali politiche d’incentivazione. Un mercato che andrebbe curato con maggiore attenzione è quello della riqualificazione Energetica degli edifici, che con un pacchetto d’incentivi con detraibilità immediata o comunque a breve termine potrebbe certamente essere un vero volano per l’edilizia.
De Matteis: “Dovendo sintetizzare con le parole i caratteri distintivi di questa epoca si direbbe zero consumo di suolo, rigenerazione, riuso, riqualificazione. Per fare questo, che pare un dettato storico del tutto condivisibile, bisogna che un po’ tutti ci attrezziamo e affiniamo la tecnica del trasformare, del riassemblare. Insomma bisogna forse ricominciare a capire, e se ci viene preclusa la possibilità di creare, dobbiamo tenere viva l’aspirazione alla creatività”.
a cura di Giuseppe Cerfeda
Approfondimenti
Il fallimento della democrazia
Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…
di Hervé Cavallera
Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.
I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.
Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.
Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.
Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.
L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).
Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.
Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.
Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.
È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.
Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.
Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.
Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).
Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.
Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.
In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.
Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.
Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.
Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.
D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.
Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.
Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.
Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.
Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.
Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.
In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.
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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne
Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.
In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.
Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini.
“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!
Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.
“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.
Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.
Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.
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Islam, l’altra metà della fede
Musulmani in Salento, Pochi luoghi di culto per una fede relegata ancora alle zone d’ombra ed all’autogestione. L’imam di Lecce: «Coltiviamo la convivialità delle differenze». E poi: «Chi sceglie di vivere in Salento sa che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria e separarsi per sempre dai propri cari, a causa dell’assenza di uno spazio cimiteriale islamico»
di Lorenzo Zito
Non esiste un dato esatto in grado di dirci quanti siano i musulmani in provincia di Lecce; tuttavia, la comunità islamica salentina è in crescita.
L’ultimo censimento risale al 2014, ma resta non del tutto attendibile: all’epoca, furono conteggiati i cittadini provenienti da Paesi islamici e soggiornanti Salento.
Un dato non proprio ortodosso, visto che la provenienza di per sé non rappresenta un passaporto del credo. Sta di fatto che il numero, stabilito in 22mila fedeli, era già di per sé considerevole.
Ci ha parlato di questo dato Saifeddine Maaroufi, imam della comunità islamica di Lecce.
A lui ci siamo rivolti per analizzare la presenza e la vita musulmana in Salento.
Partendo da un punto di domanda: come mai se negli ultimi anni gli arrivi di stranieri sono aumentati (questo sì, lo raccontano i numeri) e molte famiglie musulmane si sono stabilizzate sul territorio, i luoghi di culto continuano ad essere pochi, insufficienti, piccoli e spesso improvvisati?
Facciamo prima un passo indietro, partendo dalla figura dell’imam di Lecce.
Signor Maaroufi, come è iniziata la sua storia in Salento?
«Sono a Lecce da 13 anni, nonostante la mia permanenza sia iniziata quasi per caso. Sono tunisino, vengo da una formazione medica ed ho studiato anche scienze religiose. Durante gli studi, in Tunisia, lavoravo in un call center. Un giorno fui mandato in Italia per fare da formatore ai nuovi operatori che avrebbero lavorato nella nuova sede dislocata di Lecce. Mentre ero qui, in Tunisia scoppiò la Rivoluzione dei Gelsomini, che mi impedì di fare rientro a casa. Da allora mi stabilizzai a Lecce. In seguito, mi ha raggiunto anche la mia famiglia e poi, da un dialogo con la comunità islamica locale, complici i miei studi in scienze religiose, nel 2011 fui scelto come guida spirituale di Lecce».
Chi non conosce la figura dell’imam la immagina un po’ come un vescovo. È corretto?
«Spesso ho riscontrato anch’io come venga fatto questo accostamento, nel tentativo di provare a comprendere meglio questo ruolo. In realtà è qualcosa di diverso, perché nell’Islam non c’è un Clero con una sua struttura gerarchica. Per questo accade che nei Paesi arabi le moschee sono sotto la tutela dello Stato, ed anche il ruolo dell’imam passa da un controllo in un certo senso istituzionale.
Nei Paesi occidentali, come l’Italia, invece, dove tutto questo manca, la scelta dell’imam spetta alla comunità ed è molto legata alle sue conoscenze in ambito religioso. Nel mio caso, poi, pesò anche il fatto che fossi in grado di parlare più lingue, un elemento importante in un territorio che raggruppa fedeli di provenienza eterogenea. Tornando al paragone con la Chiesa va specificato che, nonostante io venga spesso sollecitato a rappresentare pubblicamente la comunità musulmana di tutta Lecce e provincia, non esiste una regola che preveda un ruolo di questo tipo o delle posizioni di subordinazione nei confronti della mia figura».
Qual è la geografia dei luoghi di culto islamici in provincia di Lecce?
«Le moschee presenti in provincia, fuori dalla città di Lecce, sono quattro. Tutte prevalentemente frequentate da fedeli di origine marocchina, infatti la loro esistenza è legata proprio alla presenza di grandi nuclei marocchini che popolano ormai da decenni questi territori. La più vecchia è a Corigliano d’Otranto. Una stanza molto piccola ma che resiste al passare del tempo: è stata aperta negli anni ’80. Un’altra è a Ruffano, dove da lungo tempo si sono stabilizzate tante famiglie di commercianti, anch’essi marocchini. Poi c’è Spongano, paese dove vivono tanti fedeli musulmani impiegati nel mondo dell’edilizia. Qui l’integrazione è passata dal mondo dello sport, attraverso un lungo percorso partito negli anni ‘90 con un’associazione il cui nome, in italiano, significa “I giovani”. Ed infine la moschea di Porto Cesareo, che in questo momento si è trasferita a Veglie. Quest’ultima ha una peculiarità: essendo legata alla natura turistica del luogo, in estate accoglie tanti fedeli che arrivano sul posto per lavorare come venditori ambulanti. A Lecce invece esistono due moschee. Una è nata da poco, sia per dare risposta alla grande richiesta di luoghi di preghiera (i musulmani in città sono circa 7mila) sia per servire una zona scoperta. L’altra è quella in cui mi sono insediato io nel 2011.
Al mio arrivo eravamo in una piccola sala, in uno spazio concesso dal Comune nella zona 167/B. Nel 2014, con un’apposita colletta, abbiamo raggiunto i fondi necessari ed acquistato una palazzina a due piani nel quartiere San Pio.
La nostra moschea oggi è qui: abbiamo scelto questa zona perché è il quartiere multietnico per eccellenza di Lecce e volevamo essere il più possibile vicini alla comunità musulmana.
Abbiamo una grande sala di preghiera, una sala per le donne, dedichiamo degli spazi ai corsi di lingua araba per bambini ed apriamo le porte anche a chi professa altre fedi, per favorire la conoscenza reciproca. Durante il Ramadan, ogni sera accogliamo circa 70 fedeli che vengono a rompere il digiuno in compagnia».
Come mai ci sono così poche moschee sul territorio?
«La presenza di una moschea è legata alla spontanea iniziativa dei cittadini di fede musulmana. Il contesto non sempre aiuta a compiere questo passo, soprattutto dal punto di vista burocratico. La nostra religione non è riconosciuta ufficialmente dallo stato, nonostante in Italia vi siano oltre 2 milioni di musulmani (quasi la metà italiani). Questo ha delle conseguenze pratiche che vanno, ad esempio, dal non potersi assentare dal lavoro per celebrare i giorni di festa islamici, perché non riconosciuti, al dover utilizzare canali non convenzionali per praticare le attività di culto. Accade allora che, proprio per quanto detto, le moschee sul territorio nascono dall’impegno di associazioni fondate musulmani che però, su carta, sono costrette ad avere finalità diverse da quelle reali, agendo in una sorta di zona grigia».
Le istituzioni locali aiutano? Le amministrazioni vengono incontro alla comunità islamica?
«Non sempre, o non abbastanza. Prevale l’ottica utilitaristica. Troppe volte si sente dire “quanti sono i musulmani che votano nella nostra città?”.
Senza il voto, non si ha peso civile nelle scelte e viene meno l’ascolto delle istituzioni. Anche molte amministrazioni che condividono quelle idee che vengono incontro ai bisogni della comunità islamica finiscono per non far nulla, per paura di esporsi a critiche. Per fortuna, l’apertura mentale dei salentini compensa, mantenendo questa una terra d’accoglienza».
Come vivono in Salento i cittadini stranieri musulmani?
«La “convivialità delle differenze” professata da Don Tonino Bello ha fatto breccia nel cuore dei salentini, che da decenni accolgono i fratelli musulmani che arrivano da ogni dove.
Ricordo gli anni in cui gli attentati terroristici nelle grandi città europee avevano seminato panico e islamofobia: anche allora i salentini ci sono stati vicini, perché hanno imparato a conoscere le persone. Il fatto stesso che non esistano quartieri ghetto nel nostro territorio è segno e strumento di convivialità.
Lo straniero qui è il vicino di casa o il commerciante del mercato cui ci si rivolge ogni settimana. Non è un caso se tante famiglie straniere hanno messo radici in Salento, fermando qui quel viaggio migratorio che molte volte prosegue verso il nord Europa o, ancora, spegnendo il sogno del rientro in patria».
Lontano da casa, arrivati qui in Italia, come cambia il rapporto con la fede? Si affievolisce o aumenta?
«Molto spesso cresce. È come se fosse un tratto identitario che, a maggior ragione lontano dalla propria terra, i fedeli vogliono preservare. Vedo tanti giovani avvicinarsi molto di più alla fede dopo esser arrivati in Italia. Questo è uno degli elementi che, qui in Salento, ha reso la
nostra una comunità religiosa salda».
E il rapporto con la Chiesa cattolica?
«È ottimo, c’è un bel dialogo. La Chiesa è impegnata anche nelle attività di prima accoglienza, e questo è un elemento che genera un proficuo contatto sin dall’arrivo del migrante».
Cosa manca, cosa cambieresti sul lato pratico e su quello umano?
«Su quello umano coltiverei ancora l’ascolto per incentivare ulteriormente la vicinanza tra le comunità.
Su quello pratico ci sarebbe molto da fare. Partirei sicuramente dalla possibilità di avere uno spazio cimiteriale islamico. A Lecce e provincia non ve ne sono. Il più vicino è nel Barese. È una grande mancanza che si porta dietro un grande dolore per le famiglie musulmane. Chi sceglie di vivere in Salento lo fa nella consapevolezza che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria. Questo, oltre a comportare delle spese elevate e delle procedure non semplici, significa doversi separare per sempre dalla propria famiglia che ha messo radici in questa splendida terra».
L’Islam e il Salento, l’analisi del prof. Hervé Cavallera, clicca qui
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