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Approfondimenti

Finte pajare: il sindaco fa il punto

“Anziché ristrutturare, hanno iniziato a costruire. Invece di rimettere in sesto i terrazzamenti, li hanno distrutti per recuperare pietre da utilizzare nella realizzazione di nuove pajare”

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C’è chi le distrugge e chi se le inventa. Sono uno dei più genuini simboli della storia recente del Salento. Costruzioni agricole che popolano le nostre campagne e che, in alcuni casi, dopo qualche anno di abbandono tornano a vivere sotto una nuova luce. Sono le pajare, traccia indelebile del passato, bellezza inimitabile e, agli occhi dei salentini, inconfondibile. Per quelli poco allenati dei turisti, forse, un po’ meno. Dev’essere quello che hanno a pensato a Torino, in una società di informatica, quando gli è venuto in mente di partire alla volta di Tiggiano per investire un milione di euro in…tutt’altro campo.


Son venuti qui pensando di trovarci indietro di 30 anni e di poter fare quello che volevano. E ci è mancato poco che ce la facessero per davvero”. Commenta così la truffa delle pajare il sindaco di Tiggiano Ippazio Morciano. Armato di aerofotogrammetria, ci accoglie nel suo studio e ci aiuta a far luce sulla storia del presunto resort che, poco a poco, stava sorgendo di nascosto sui terrazzamenti a ridosso della scogliera tiggianese. “Di resort parlano i giornali, nessun documento né della Procura né di altri enti fa un simile riferimento”, ci tiene a precisare, ma poi ammette: “Tutto però lascia immaginare che l’obiettivo finale fosse quello”.


Siamo in pieno Parco naturale Costa Otranto-Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase, qualche centinaio di metri a sud di Torre Nasparo, in una zona tanto meravigliosa quanto incontaminata, almeno fino a ieri. È il 2008 quando gli investitori piemontesi indirizzano i loro conti correnti verso il Salento. “Hanno comprato vari terreni in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, da diversi proprietari, mettendo insieme un’area di circa 5 ettari sul costone tra la litoranea e la scogliera del demanio”. Non potendo costruire in un’area tutelata, “hanno presentato al Comune di Tiggiano, alla precedente amministrazione (ndr. con Martella sindaco) un progetto di pulitura della zona e di recupero dei terrazzamenti, consistente in una sorta di ristrutturazione dei muretti a secco e di pulizia dei percorsi”, racconta il primo cittadino. “Mi parlavano di un progetto di recupero volto a creare dei centri di ricerca collegati alla loro azienda e pienamente in armonia col territorio. Insomma, un fiore all’occhiello per Tiggiano, sponsorizzato anche dal progettista, un docente universitario che aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione col Comune garantendo degli stage a dei ragazzi del posto. Poi, anziché ristrutturare, hanno iniziato a costruire. Invece di rimettere in sesto i terrazzamenti, li hanno distrutti per recuperare pietre da utilizzare nella realizzazione di nuove pajare. Hanno, verrebbe da dire, presentato un progetto all’inverso”.


IMG_0984Ebbene sì, ottenuta dalla precedente amministrazione l’autorizzazione per il recupero della zona e forti dell’ok ad avviare i lavori, hanno iniziato la loro opera, quasi raddoppiando (arbitrariamente) il numero di costruzioni rurali esistenti. Ma prima, hanno provveduto ad accatastare, nel 2009, la quindicina di pajare che già insistevano sulla zona. Approfittando della vecchia normativa, differente da quella attuale che richiede la documentazione fotografica della struttura da registrare, gli investitori torinesi hanno fatto accatastare anche altre pajare inventate. All’epoca, del tutto inesistenti.


“Molti si chiedono dove fosse il Comune di Tiggiano in tutto ciò”, aggiunge il sindaco, “ma non sanno che i trulli sono stati accatastati come unità collabenti, quindi come ruderi, e non come unità immobiliari. In questo caso l’obbligo per gli Uffici comunali è di semplice notifica, non di controllo sul territorio”.


IMG_0998IMG_0998Cosi, tra il 2010 ed il 2012, sono state tirate su dal nulla altre 14 pajare, senza alcuna autorizzazione e, in più, (è bene ripeterlo) in pieno Parco Otranto-Santa Maria di Leuca. A onor del vero, alcuni dei trulli realizzati ex novo sono delle vere e proprie d’arte. Forse non solo un turista, ma anche noi del posto, non avremmo saputo distinguerli da quelli originali. Invecchiati ad arte con il cemento e costruiti letteralmente intorno ad alberi (come da foto) per mascherarne la fresca creazione, non sono stati ultimati. Non per mancanza di tempo o di denaro, ma per poter presentare poi un nuovo piano di recupero al Comune, come si trattasse, appunto, di semplici ruderi da ristrutturare.


“Hanno bussato alle porte del Comune nel 2013 con la fretta di chi deve intervenire per salvare il salvabile. Hanno provato ad accelerare i tempi per ottenere la nostra autorizzazione, forti del parere favorevole degli altri enti competenti: soprintendenza, Corpo Forestale, ed Ente Parco”.

Il sindaco fa un passo indietro e spiega come già in precedenza gli Uffici comunali avessero sentito…puzza di bruciato: “Nell’estate 2012, in seguito all’incendio che bruciò quasi 30 ettari di macchia mediterranea, da Marina Serra alla marina di Corsano, gli imprenditori piemontesi fecero richiesta per realizzare delle vasche antincendio sui loro terreni. A insospettirci fu il fatto che l’area di loro proprietà era stata solo sfiorata dall’incendio. Per questo oggi, col senno di poi, viene facile immaginare che ne avrebbero fatto delle piscine. E da qui nasce l’ipotesi resort, seppur mai confermata. Fortuna (nella sfortuna) volle comunque che”, continua il primo cittadino, “un’altra disgrazia ambientale, la morìa dei lecci, iniziò a sfoltire la boscaglia che di fatto nascondeva tanto i lavori quanto le nuove pajare”.


Infatti più in là, nel marzo 2013, quando davanti al parere favorevole degli enti preposti il Comune di Tiggiano stava temporeggiando annusando qualcosa di sospetto nelle pajare da “salvare” tempestivamente, è intervenuta la polizia provinciale. “Ci ha chiesto l’acquisizione della pratica del primo permesso, quello rilasciato nel 2008. E nel frattempo ha sorvolato l’area con dei droni. Due giorni dopo, davanti all’evidenza emersa dal raffronto tra aerofotogrammetria e nuove immagini dei droni, quei 5 ettari sono stati sequestrati”.


Notizia di oggi è che, mentre sarebbe iniziato uno scaricabarile tra i possibili indagati, la società torinese avrebbe già riconosciuto i propri errori e spinto per una sorta di patteggiamento con un ripristino dei luoghi a sue spese (come li ripristinano non si sa, visto che già prima nessuno aveva ben chiaro come fossero). Il resto è storia futura. Ora rimane da capire di chi siano le colpe. Resta da comprendere come sia possibile che enti posti a tutela del territorio rilascino determinati nullaosta con la leggerezza di bere un bicchier d’acqua. Resta da capire chi fosse l’aggancio e quali i punti di riferimento sul posto per una società piemontese magicamente in grado di muoversi in un angolo di Salento così nascosto e inesplorato. Vanno messi insieme i pezzi e nominati i responsabili di questo teatrino dell’emancipato nord e del Mezzogiorno indietro di 30 anni.


IMG_1275Di incontrovertibile resta la truffa, architettata a tavolino, ai danni dello Stato e della comunità intera, oltre al palese danno al territorio, resosi al contempo vittima e complice con la sua conformazione. Perché se per anni nessuno ha messo il naso in quel cantiere, è anche grazie alla sua ubicazione. “Dalla strada non si vede nulla, ma anche da dentro la vegetazione la fa da padrona”, spiega il sindaco. Non a caso le nuove pajare si concentrano tutte nell’area in cui la boscaglia si fa più fitta. Ma nonostante ciò, come in ogni storia di paese che si rispetti, non può mancare un tentativo di collegamento personale tra il primo cittadino ed il misfatto di turno. “Qualcuno dice che dovevo accorgermene di persona, perché ho una piccola casa a mare, a circa 600 metri da quella zona. Ma non sanno che lì, con tutto quel verde, c’è davvero poco da vedere, anche da due passi”.


Noi a ridosso di quella boscaglia ci siamo stati. Abbiamo intravisto qualche tetto spuntare tra i tanti alberi e nulla più. E alla fine, anche noi, come il sindaco in precedenza, ci siamo chiesti come facessero a scendere laggiù. Ma non ce ne siamo stupiti. Lui, con un sorriso, ce l’aveva anticipato: “Addai…è roba de Tarzan”.


Lorenzo Zito


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Il fallimento della democrazia

Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…

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di Hervé Cavallera

Il prof. Hervé Cavallera

Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.

I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.

Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.

Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.

Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.

L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).

Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.

Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.

Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.

È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.

Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.

Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.

Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).

Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.

Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.

In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.

Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.

Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.

Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.

D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.

Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.

Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.

Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.

Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.

Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.

In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.

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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne

Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

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In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini. 

“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!

Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.

“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.

Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.

Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.

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Islam, l’altra metà della fede

Musulmani in Salento, Pochi luoghi di culto per una fede relegata ancora alle zone d’ombra ed all’autogestione. L’imam di Lecce: «Coltiviamo la convivialità delle differenze». E poi: «Chi sceglie di vivere in Salento sa che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria e separarsi per sempre dai propri cari, a causa dell’assenza di uno spazio cimiteriale islamico»

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di Lorenzo Zito

Non esiste un dato esatto in grado di dirci quanti siano i musulmani in provincia di Lecce; tuttavia, la comunità islamica salentina è in crescita.

L’ultimo censimento risale al 2014, ma resta non del tutto attendibile: all’epoca, furono conteggiati i cittadini provenienti da Paesi islamici e soggiornanti Salento.

Un dato non proprio ortodosso, visto che la provenienza di per sé non rappresenta un passaporto del credo. Sta di fatto che il numero, stabilito in 22mila fedeli, era già di per sé considerevole.

Ci ha parlato di questo dato Saifeddine Maaroufi, imam della comunità islamica di Lecce.

A lui ci siamo rivolti per analizzare la presenza e la vita musulmana in Salento.

Partendo da un punto di domanda: come mai se negli ultimi anni gli arrivi di stranieri sono aumentati (questo sì, lo raccontano i numeri) e molte famiglie musulmane si sono stabilizzate sul territorio, i luoghi di culto continuano ad essere pochi, insufficienti, piccoli e spesso improvvisati?

Facciamo prima un passo indietro, partendo dalla figura dell’imam di Lecce.

Signor Maaroufi, come è iniziata la sua storia in Salento?

«Sono a Lecce da 13 anni, nonostante la mia permanenza sia iniziata quasi per caso. Sono tunisino, vengo da una formazione medica ed ho studiato anche scienze religiose. Durante gli studi, in Tunisia, lavoravo in un call center. Un giorno fui mandato in Italia per fare da formatore ai nuovi operatori che avrebbero lavorato nella nuova sede dislocata di Lecce. Mentre ero qui, in Tunisia scoppiò la Rivoluzione dei Gelsomini, che mi impedì di fare rientro a casa. Da allora mi stabilizzai a Lecce. In seguito, mi ha raggiunto anche la mia famiglia e poi, da un dialogo con la comunità islamica locale, complici i miei studi in scienze religiose, nel 2011 fui scelto come guida spirituale di Lecce».

Chi non conosce la figura dell’imam la immagina un po’ come un vescovo. È corretto?

«Spesso ho riscontrato anch’io come venga fatto questo accostamento, nel tentativo di provare a comprendere meglio questo ruolo. In realtà è qualcosa di diverso, perché nell’Islam non c’è un Clero con una sua struttura gerarchica. Per questo accade che nei Paesi arabi le moschee sono sotto la tutela dello Stato, ed anche il ruolo dell’imam passa da un controllo in un certo senso istituzionale.
Nei Paesi occidentali, come l’Italia, invece, dove tutto questo manca, la scelta dell’imam spetta alla comunità ed è molto legata alle sue conoscenze in ambito religioso. Nel mio caso, poi, pesò anche il fatto che fossi in grado di parlare più lingue, un elemento importante in un territorio che raggruppa fedeli di provenienza eterogenea. Tornando al paragone con la Chiesa va specificato che, nonostante io venga spesso sollecitato a rappresentare pubblicamente la comunità musulmana di tutta Lecce e provincia, non esiste una regola che preveda un ruolo di questo tipo o delle posizioni di subordinazione nei confronti della mia figura».

Qual è la geografia dei luoghi di culto islamici in provincia di Lecce?

«Le moschee presenti in provincia, fuori dalla città di Lecce, sono quattro. Tutte prevalentemente frequentate da fedeli di origine marocchina, infatti la loro esistenza è legata proprio alla presenza di grandi nuclei marocchini che popolano ormai da decenni questi territori. La più vecchia è a Corigliano d’Otranto. Una stanza molto piccola ma che resiste al passare del tempo: è stata aperta negli anni ’80. Un’altra è a Ruffano, dove da lungo tempo si sono stabilizzate tante famiglie di commercianti, anch’essi marocchini. Poi c’è Spongano, paese dove vivono tanti fedeli musulmani impiegati nel mondo dell’edilizia. Qui l’integrazione è passata dal mondo dello sport, attraverso un lungo percorso partito negli anni ‘90 con un’associazione il cui nome, in italiano, significa “I giovani”. Ed infine la moschea di Porto Cesareo, che in questo momento si è trasferita a Veglie. Quest’ultima ha una peculiarità: essendo legata alla natura turistica del luogo, in estate accoglie tanti fedeli che arrivano sul posto per lavorare come venditori ambulanti. A Lecce invece esistono due moschee. Una è nata da poco, sia per dare risposta alla grande richiesta di luoghi di preghiera (i musulmani in città sono circa 7mila) sia per servire una zona scoperta. L’altra è quella in cui mi sono insediato io nel 2011.
Al mio arrivo eravamo in una piccola sala, in uno spazio concesso dal Comune nella zona 167/B. Nel 2014, con un’apposita colletta, abbiamo raggiunto i fondi necessari ed acquistato una palazzina a due piani nel quartiere San Pio.
La nostra moschea oggi è qui: abbiamo scelto questa zona perché è il quartiere multietnico per eccellenza di Lecce e volevamo essere il più possibile vicini alla comunità musulmana.
Abbiamo una grande sala di preghiera, una sala per le donne, dedichiamo degli spazi ai corsi di lingua araba per bambini ed apriamo le porte anche a chi professa altre fedi, per favorire la conoscenza reciproca. Durante il Ramadan, ogni sera accogliamo circa 70 fedeli che vengono a rompere il digiuno in compagnia».

Come mai ci sono così poche moschee sul territorio?

«La presenza di una moschea è legata alla spontanea iniziativa dei cittadini di fede musulmana. Il contesto non sempre aiuta a compiere questo passo, soprattutto dal punto di vista burocratico. La nostra religione non è riconosciuta ufficialmente dallo stato, nonostante in Italia vi siano oltre 2 milioni di musulmani (quasi la metà italiani). Questo ha delle conseguenze pratiche che vanno, ad esempio, dal non potersi assentare dal lavoro per celebrare i giorni di festa islamici, perché non riconosciuti, al dover utilizzare canali non convenzionali per praticare le attività di culto. Accade allora che, proprio per quanto detto, le moschee sul territorio nascono dall’impegno di associazioni fondate musulmani che però, su carta, sono costrette ad avere finalità diverse da quelle reali, agendo in una sorta di zona grigia».

Le istituzioni locali aiutano? Le amministrazioni vengono incontro alla comunità islamica?

«Non sempre, o non abbastanza. Prevale l’ottica utilitaristica. Troppe volte si sente dire “quanti sono i musulmani che votano nella nostra città?”.
Senza il voto, non si ha peso civile nelle scelte e viene meno l’ascolto delle istituzioni. Anche molte amministrazioni che condividono quelle idee che vengono incontro ai bisogni della comunità islamica finiscono per non far nulla, per paura di esporsi a critiche. Per fortuna, l’apertura mentale dei salentini compensa, mantenendo questa una terra d’accoglienza».

Come vivono in Salento i cittadini stranieri musulmani?

«La “convivialità delle differenze” professata da Don Tonino Bello ha fatto breccia nel cuore dei salentini, che da decenni accolgono i fratelli musulmani che arrivano da ogni dove.
Ricordo gli anni in cui gli attentati terroristici nelle grandi città europee avevano seminato panico e islamofobia: anche allora i salentini ci sono stati vicini, perché hanno imparato a conoscere le persone. Il fatto stesso che non esistano quartieri ghetto nel nostro territorio è segno e strumento di convivialità.
Lo straniero qui è il vicino di casa o il commerciante del mercato cui ci si rivolge ogni settimana. Non è un caso se tante famiglie straniere hanno messo radici in Salento, fermando qui quel viaggio migratorio che molte volte prosegue verso il nord Europa o, ancora, spegnendo il sogno del rientro in patria».

Lontano da casa, arrivati qui in Italia, come cambia il rapporto con la fede? Si affievolisce o aumenta?

«Molto spesso cresce. È come se fosse un tratto identitario che, a maggior ragione lontano dalla propria terra, i fedeli vogliono preservare. Vedo tanti giovani avvicinarsi molto di più alla fede dopo esser arrivati in Italia. Questo è uno degli elementi che, qui in Salento, ha reso la
nostra una comunità religiosa salda».

E il rapporto con la Chiesa cattolica?

«È ottimo, c’è un bel dialogo. La Chiesa è impegnata anche nelle attività di prima accoglienza, e questo è un elemento che genera un proficuo contatto sin dall’arrivo del migrante».

Cosa manca, cosa cambieresti sul lato pratico e su quello umano?

«Su quello umano coltiverei ancora l’ascolto per incentivare ulteriormente la vicinanza tra le comunità.
Su quello pratico ci sarebbe molto da fare. Partirei sicuramente dalla possibilità di avere uno spazio cimiteriale islamico. A Lecce e provincia non ve ne sono. Il più vicino è nel Barese. È una grande mancanza che si porta dietro un grande dolore per le famiglie musulmane. Chi sceglie di vivere in Salento lo fa nella consapevolezza che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria. Questo, oltre a comportare delle spese elevate e delle procedure non semplici, significa doversi separare per sempre dalla propria famiglia che ha messo radici in questa splendida terra».

L’Islam e il Salento, l’analisi del prof. Hervé Cavallera, clicca qui

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