Attualità
Autonomia differenziata, i dubbi del presente
Si prospetta un’Italia delle Regioni dove si accentuerebbero le criticità e le differenze tra Nord e Sud

di Hervé Cavallera
Il disegno di legge, approvato in Senato il 23 gennaio, sull’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, resa possibile dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione (che afferma che possono essere attribuite alle Regioni, su loro richiesta, forme e condizioni particolari di autonomia) ha sollevato una valanga di interventi su ogni mezzo di informazione spaccando veramente l’opinione pubblica del Paese.
Pur dovendo essere comunque garantiti dal governo nazionale i “Livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), il timore è una frattura all’interno dello Stato, favorendo un ulteriore aumento delle disparità sociali e territoriali tra le Regioni italiane.
Per dirla in poche parole, si affermerebbe non più l’Italia unita, bensì l’Italia delle Regioni, accentuando le criticità già esistenti, in particolare quelle tra Nord e Sud.
La sanità, l’economia, l’istruzione, tra le tante attività, verrebbero così gestite a seconda delle Regioni con le conseguenti differenziazioni e ricadute.
È chiaro che questo comporterebbe la fine della uniformità nazionale con Regioni di serie A, B, C, aggravando le ataviche debolezze del Mezzogiorno d’Italia.
Di qui non poche già le voci di presidenti di Regioni del Sud che si preparano alla richiesta di un referendum nazionale intorno alla legge, qualora sia definitivamente approvata.
PRO E CONTRO
Di fatto, si tratta di un disegno di legge che più di tanto non può lasciarci indifferenti ed è opportuno esaminare i pro e i contro.
Questi ultimi scaturiscono dal timore, come si è già evidenziato, che alcune Regioni trarrebbero più vantaggi di altre, anche perché partirebbero da situazioni economiche e sanitarie più favorevoli.
Al che si potrebbe rispondere che proprio queste preoccupazioni testimoniano che già esistono delle differenziazioni tra Regioni e che una maggiore autonomia regionale potrebbe invece stimolare una positiva concorrenza che gioverebbe, di conseguenza, ad una crescita nazionale pur nelle differenziazioni, premiando – come si suol dire – i capaci e i meritevoli.
Del resto, l’ormai secolare “questione meridionale” non è stata risolta dallo statalismo e dalla “Cassa per il Mezzogiorno” (sorta nel 1950) e, al presente, la fuga dei giovani meridionali verso il nord della Penisola o altre parti del mondo è consistente e molto preoccupante.
Il tutto si potrebbe, pertanto, così riassumere.
Attualmente esistono già delle differenziazioni di fatto in campo economico, sociale e culturale tra le diverse Regioni della Penisola.
RICCHI E POVERI
Differenziazioni le cui origini vanno individuate prima dell’unità d’Italia e che continuano a persistere dal 1861 ad oggi. Secondo il rilevamento del reddito pro capite (ossia del livello di ricchezza per abitante prodotto da un territorio), le Regioni più ricche d’Italia sono la Lombardia, il Trentino, la Liguria, la Valle d’Aosta; le meno ricche sono Calabria, Sicilia, Puglia.
Ora, di là dall’entrare nei dettagli delle varie classifiche, è chiaro che le Regioni del Nord hanno un reddito superiore a quelle del Sud. Ciò non vuol dire che la ricchezza generi di per sé la felicità o l’intelligenza; conferma semplicemente un divario esistente.
Si potrebbe quindi sostenere – anche in considerazione dell’articolo 5 della Costituzione che così recita: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» – che una accorta promozione di autonomie regionali potrebbe favorire uno spirito di concorrenza e quindi una crescita generalizzata di tutte le Regioni.
È chiaro che si tratta di una “possibilità” che va adeguatamente soppesata.
Come è pure chiaro che un sistema di “competizione” o, meglio, di stimolo tra Regioni potrebbe essere comprensibile in settori come quello economico.
Sarebbe infatti opportuno un avvaloramento delle peculiarità economiche delle diverse Regioni italiane da un punto di vista agricolo, industriale, commerciale, tecnologico. Amministrare una Regione non significa gestire l’esistente, bensì promuovere una innovazione che possa migliorare la qualità della vita.
ISTRUZIONE E SANITÀ
Non vedo positiva l’autonomia regionale per quello che riguarda l’istruzione elementare e secondaria, la quale ha il compito di assicurare, attraverso i diversi curricoli scolastici, la formazione di base del cittadino, di tutti i cittadini, oltre che quella propria di ogni scuola secondaria di secondo grado.
Quindi è necessario che tale istruzione sia la medesima in ogni parte d’Italia, fatta salva ovviamente la liceità delle varie offerte formative di cui già ogni istituto scolastico dispone.
Per quanto concerne le università (e la ricerca scientifica), già usufruiscono dell’autonomia. Relativamente alla sanità, è evidente che essa va garantita a tutti e il fatto che il servizio sanitario italiano permette il diritto alla salute a tutti gli italiani, senza discriminazioni di reddito, di genere o di anagrafe, è indubbiamente un aspetto che molti Stati vorrebbero avere e quindi è da non toccare. Purtroppo in quest’ambito si registrano differenziazioni qualitative territoriali che vengono anche generate dalla quantità dei fondi destinati alla ricerca e dalla qualità dei ricercatori.
In ogni caso una maggiore ricchezza delle Regioni potrebbe essere impiegata da governi regionali attenti ad un miglioramento dei finanziamenti per una crescita delle istituzioni della sanità e della ricerca.
Va altresì rilevato che il continuo ricorso a classifiche, valutazioni e così via, può generare da una parte (gli ultimi in classifica) sfiducia e rassegnazione e dall’altra (i primi in classifica) un aumento di costi che si ripercuote sulla qualità della vita della stessa Regione.
Infine, vivere e operare tenendo continuamente conto delle valutazioni effettuate da agenzie specializzate può indurre non alla creatività, bensì ad una calcolata ma piatta routine scambiata per efficienza.
Alla luce di quanto esposto, è chiaro che ci si trova di fronte ad una situazione che richiede un attento discernimento, senza alcuna fretta e senza alcun cedimento ad una emotività pur comprensibile o ad uno spirito di parte, poiché la valorizzazione delle diversità territoriali non deve essere a discapito dell’unità culturale e sanitaria della nazione, bensì funzionale allo sviluppo complessivo dell’Italia.
Attualità
Via alle ispezioni della cavità in zona Puzzu a Tricase

Sono iniziate stamani le ispezioni del pozzo rinvenuta nel borgo antico di Tricase, in zona Puzzu, la scorsa settimana (leggi qui)
A calarsi sono i componenti del Gruppo Speleologico Tricase. Restituiranno tutte le informazioni utili che emergeranno sulla cavità, a partire anche dall’esatta profondità, stimata in circa 25 metri al momento del ritrovamento, avvenuto durante i lavori di riqualificazione del centro storico.
Per le vie del centro cittadino intanto stamattina è rimbalzata la falsa notizia secondo cui qualcuno sarebbe caduto accidentalmente nel pozzo. Nulla di vero: trattasi appunto delle operazioni ispettive avviate nella giornata odierna.
La locale Protezione Civile ed una ambulanza sono sul posto preventivamente, pronte a intervenire in caso di necessità.
Le foto




Approfondimenti
Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli
Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.
Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.
Ma non basta.
A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.
Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.
Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.
Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.
Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.
L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.
E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.
Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.
Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.
SOCIETÀ DEI CONSUMI
È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.
L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.
Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.
Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.
Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.
LA LOGICA DEL MERCATO
Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.
E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.
La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.
E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.
Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.
COSA POSSIAMO FARE
Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.
Attualità
«La mafia salentina è sempre viva»
Intervista a Francesco Mandoi, ex magistrato salentino già Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia: «Vi spiego tutto»

di Sefora Cucci
“Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato” (Besa editrice). Questo il titolo del libro di Francesco Mandoi, ex magistrato salentino che è stato Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia, in libreria dal 25 aprile.
Da allora, il suo autore è coinvolto in un tour di presentazione e divulgazione che sta facendo il giro dell’intera Puglia, toccando moltissimi paesi, ad esempio Molfetta, Castellaneta, Cutrofiano, Manduria, Lecce, Novoli, Nardò, Trepuzzi e Ugento.
Una vita spesa al servizio dello Stato. «Il destino ha voluto che potessi fare il mestiere che amavo e grazie al mio lavoro posso dire di aver raggiunto, come sosteneva Primo Levi, “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”», dichiara il dott. Mandoi, che abbiamo intervistato.
Lei rifiuta l’etichetta di magistrato antimafia. Perchè?
«Non amo quella definizione perché la magistratura, nella sua essenza, non è mai stata né pro né contro qualcosa. La giustizia non dovrebbe essere partigiana e un magistrato non è e non deve essere un militante. Aggiungere l’aggettivo “antimafia” rischia di creare una grande confusione, perché il più delle volte viene utilizzato quasi per fini retorici, politici o mediatici. Sembra quasi indicare implicitamente che esista una categoria di magistrati “speciali” che svolgono un lavoro più nobile o significativo rispetto ad altri. Chi combatte la mafia non lo fa per vanità, ma per dovere. Etichettare qualcuno come “antimafia” non solo isola quel magistrato dal contesto più ampio della giustizia, ma sminuisce il valore del lavoro degli altri. Sono sempre più convinto che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi solitari, ma di una società consapevole e unita».
Dalla recente relazione DIA relativa al 2024 emerge che i clan storici del Salento continuano ad esercitare il controllo sul territorio. Quali armi allora?
«Ho letto con sincera preoccupazione i dati emersi i quali, non fanno altro che raffermare la mia idea che la SCU non è mai finita nel nostro territorio. Anzi, molto più correttamente dovremmo parlare di mafia salentina perché nel corso del tempo ha assunto vari nomi; perché sa, la mafia è camaleontica ed è in grado di adattarsi a qualunque scenario, mantenendo sempre gli stessi obiettivi. Alle attività tipiche (estorsione, spaccio, riciclaggio, ecc.) se ne aggiunge un’altra, altrettanto preoccupante: quella relativa al controllo delle attività turistiche».
Cosa possiamo fare?
«Denunciare e sensibilizzare. Questi non sono due verbi vuoti ma si caricano del significato che diamo loro: mettere la pulce nell’orecchio delle forze dell’ordine è possibile, purché ci sia fiducia nelle istituzioni. Dobbiamo stimolare alla collaborazione. Cosa serve? Uomini, mezzi, collaborazione, credibilità nello Stato e soprattutto recuperare la fiducia nei confronti delle Istituzioni che in questo momento storico va via via perdendosi. Occorre recuperare quella fiducia perché si sta diffondendo una cultura del ‘chi me lo fa fare?’ che è l’anticamera della cultura dell’omertà».
Le recenti riforme sulla giustizia e i disegni di legge qualificano una situazione in cui, da più parti, è stato lanciato un allarme al pericolo di lesione dello stato di diritto. Lei cosa ne pensa?
«Il pericolo è estremamente reale. Sono molto preoccupato. Il rapporto tra cittadino e Stato si deve basare sulla fiducia. Se questa viene a poco a poco minata, quanta credibilità rimane? Il rischio è di mettere in crisi lo stato di diritto perché la gente non crede. É scettica. E scetticismo si riscontra verso i recenti atti, pensiamo al decreto sicurezza, ormai legge. Al di là di possibili profili di illegittimità costituzionale, mi sembra fatto solo per ragioni demagogiche. E se si è scelta questa strada, significa che l’80% della legge serve solo a livello demagogico».
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