Approfondimenti
I miei nonni paterni si chiamavano Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo…
Storia di una famiglia salentina entrambi nati nel rione “Ariacorte” di Marittima
I miei nonni paterni si chiamavano, rispettivamente, Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo.
Erano nati, entrambi, nel rione “Ariacorte” di Marittima, secondo i registri di stato civile dell’epoca in via Acquaviva, a distanza di sette anni l’uno dall’altra, precisamente, lui nel 1879 e lei nel 1886, dalle coppie di coniugi Generoso Silvestro/Eva e Domenico/Cosima. Accanto a Cosimo, in famiglia, esisteva la sorella Salvatora, insieme con Consiglia, invece, il fratello Luigi.
Esatta parità, perciò, circa il numero di componenti dei due nuclei, fra i quali non è dato di sapere se intercorressero nodi di parentela: verosimilmente, no, almeno di genere stretto, mentre non sono da escludere rapporti di grado lontano, nell’ambito del centinaio abbondante di Boccadamo all’epoca viventi a Marittima.
Sicuramente, i miei ascendenti in discorso dovevano conoscersi sin da bambini. Generoso faceva di mestiere il contadino, Domenico, da parte sua, il pescatore, in tale attività coadiuvato, una volta divenuto grandicello, dal figlio Luigi e, anche, per determinate incombenze sulla terraferma, dalla figlia Consiglia. Analogamente, Cosimo fu condotto a seguire le orme paterne nei lavori in campagna, attività che perpetuò durante l’intera esistenza, ovviamente fino a quando si mantenne abile.
A parte gli anzidetti dettagli operativi/occupazionali, ebbero a porsi, Generoso e Domenico, alla stregua di vere e proprie pietre miliari e di preziosi indicatori. Nel senso, che gli appellativi impostigli all’atto del battesimo giungevano puntualmente a comparire e a risuonare non solo con diretto riferimento alle loro persone, ma pure, indirettamente, ai fini dell’identificazione e della chiamata in causa, da parte della comunità paesana, dei rispettivi discendenti.
In tal guisa, le definizioni di Cosimo e Tora ‘u (di) Generosu in seno al primo nucleo famigliare e di Consiglia e Luigi ‘u (di) Minicone (questo accrescitivo dialettale, giacche Domenico era un uomo molto alto, precisamente, un omone) in seno al secondo. Analogamente, le denominazioni aggiuntive, ‘u Generosu e ‘u Minicone seguitavano, e ancora adesso, diffusamente seguitano, vieppiù, ad accompagnare i nomi propri originali delle generazioni succedutesi nel tempo, figli, nipoti e pronipoti.
Lui ebbe un’altra fidanzata, ma non andò buon fine
Vigendo gli ultimi calendari del XIX secolo, Cosimo già giovanotto e Consiglia adolescente e giovinetta, la conoscenza e, poi, la frequentazione fra i due si accrebbero. Per la verità, lui ebbe per prima fidanzata (zita, in dialetto) un’altra ragazza dell’Ariacorte, Marta, ma detto legame non si consolidò definitivamente, proprio, forse, perché Cosimo provava maggior piacere e interesse nel concentrare gli sguardi sulla personcina di Consiglia, nonostante quest’ultima non si appalesasse affatto dolce di sale o accondiscendente o adesiva con facilità.
Dai suoi racconti o aneddoti, è tratta la scenetta del giovane Cosimo, intento, insieme con il padre, a zappare in un fondo agricolo limitrofo all’insenatura “Acquaviva”, denominato “Oscule” (bosco) e di Consiglia che, in quel mentre, saliva a piedi dalla rada, recando sul capo una cassetta di specialità ittiche appena pescate e sbarcate dal padre e dal fratello, per portarle a Marittima e venderle a qualche famiglia abbiente.
Spontanea l’iniziativa verbale di Cosimo: “Dai, Consiglia, lasciaci due/ tre pesci, così ce li arrostiamo sulla brace e potremo accompagnare le nostre friselle, a colazione”. E, però, spontanea e pure decisa fu la reazione, della ragazza, di non dare minimamente ascolto e di tirare dritto. Il nonno trovò occasione, nell’arco di decenni, di rispolverare ripetutamente questo episodio, non senza rinfacciarlo scherzosamente alla controparte protagonista.
Non più “zitu” di Marta, Cosimo si fidanzò “in casa” con Consiglia, la quale, tuttavia, data anche la fresca età, specialmente nei primi tempi del loro sodalizio sulla carta, non dimostrava di attribuire soverchia importanza e assiduità al nesso meramente sentimentale e di vicinanza e contatto con il partner, preferendo seguitare a frequentare le sue amiche del rione e attendendo, unitamente a loro, ai rituali giochi di quei periodi.
“Consiglia, ancora in giro sei? Perché non torni a casa e facciamo l’amore?” (Ovviamente nel significato e col correlato contenuto di fine 1800), la esortava la sera Cosimo, e lei a replicare: “Guarda, prima, devo finire questa partita a campana con le mie compagne”.
Giunse il giorno delle Nozze
Sia come sia, giunse il giorno delle nozze e, dalla casa della sposa, si mosse il tradizionale corteo, attraverso l’Ariacorte, per dirigersi verso la parrocchia. Se non che, sempre a quanto resomi in racconto, nell’atto di transitare davanti all’abitazione di Marta, la ex zita di nonno Cosimo, per rabbia e ripicca, pensò di disotturare lo scarico di una grande vasca lapidea, in dialetto pila, presente nel proprio cortile e ricolma di acque sporche (sciotte), residuo di un grosso bucato, lasciando defluire il non trasparente e non olezzante liquido, a modo di cascatella, sulla strada in quel momento percorsa dal corteo nuziale e dalla processione di parenti e invitati, con indosso eleganti abiti da festa.
Completamente diversi di carattere, sotto l’aspetto intellettivo, nelle tendenze e preferenze, Cosimo e Consiglia vissero lungamente e intensamente, in ogni senso, generando una numerosissima prole; in aggiunta ai sei figli sopravvissuti, Silvio, Eva, Maria, Vitale, Lucia e Rocco, considerato, del resto, che, un secolo fa, erano frequentissimi i casi di mortalità infantile, furono in realtà fautori, perlomeno, di altrettante nascite.
Donna forte, dotata di una spiccata memoria (teneva perfettamente a mente, ricordo io, le date di arrivo al mondo, matrimonio e morte di tutta la parentela e non solo), la nonna non intendeva essere da meno nel confronto col consorte, il quale, magari, si lamentava di rientrare a casa, la sera, esausto per la fatica nei campi, sicché, di sovente, lo attendeva a bella posta sull’uscio tenendo in braccio uno dei figlioletti, piangente: “Tieni, prendilo un po’ tu, ha passato in questo modo l’intero giorno, facendomi disperare”.
Al che, l’uomo, così nella sua narrazione a noi nipotini e anche ad altre persone, celiava che fosse lei a regalare ai pargoli qualche pizzicotto, ovviamente foriero di strilla e lacrime. A parte qualche piccola sceneggiata della specie, chi, sostanzialmente, comandava in casa, era la nonna Consiglia soprannominata ‘u Minicone; naturale riflesso, in seguito, fu quel nomignolo aggiuntivo famigliare e non l’altro inerente al nonno Cosimo, ossia dire ‘u Generoso, a cadere e perpetuarsi sia in capo ai loro figli, sia sui discendenti dei medesimi, sia, infine, in termini estesi, nell’ambito della comunità di Marittima.
Consiglia, dunque autorevole, forte e in gamba, fisico e portamento ben eretto sino all’età avanzata malgrado le sopra accennate innumerevoli gravidanze/maternità, stimata e rispettata dai parenti e dai compaesani, a partire dal fratello Luigi che, in segno di attaccamento e di omaggio, volle chiamare Consiglio il suo unico figlio maschio che, oltre a fare il contadino, il frantoiano, il nachiro, capo dei frantoiani, si sarebbe dedicato anche alla pesca, come il padre e il nonno Domenico.
Piccola rimembranza risalente alla mia remota fanciullezza, nel cortile della attigua abitazione di zio Luigi e di zia Amalia (sua moglie), salitasene al cielo, guarda caso, nel giorno dell’Ascensione del 1950, campeggiava un grosso manufatto/parallelepipedo in pietra viva, non molto largo ma alto e cavo all’interno, detto in dialetto “stompu”, utilizzato per versarvi cereali, sia grano che orzo, di propria produzione, e frantumarli mediante la mazza, lunga e robusto attrezzo in legno terminante in forma ovoidale, cereali che sarebbero stati successivamente cotti e consumati a tavola come minestra.
Mio padre Silvio fu il primo sposarsi
Ambedue i miei nonni paterni in discorso, essendo mio padre Silvio il loro primogenito e il primo, in ordine temporale, a sposarsi, avevano un intenso e più consolidato legame giusto con la mia diretta famiglia, volevano, in particolare, un bene dell’anima a mia madre Immacolata e noi ragazzini, spesso, ci trattenevamo, nel pomeriggio o alla sera, nella loro vicina abitazione, d’inverno scaldandoci, insieme con il nonno, all’interno del focalire (camino) e, talvolta, consumavamo la cena frugalissima, una minestra posta a tavola in un unico grande piatto, in compagnia, appunto, dei nonni e degli zii e zie.
Come pure, verso la prima la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano questi ultimi, ancora giovani, che correvano a casa nostra, di notte, nell’avvisaglia del passaggio di aerei militari nemici, con potenziale rischio di bombardamenti, caricandosi in spalla noi piccoli nipoti e conducendoci al buio nel vicino appezzamento agricolo di Monticelli, per attendere che il pericolo fosse superato.
Pur trovandomi in così stretta vicinanza e frequentazione con loro, raramente mi è capitato di assistere a dissapori o litigi fra i nonni Cosimo e Consiglia, tranne che in un’isolata occasione. Correva il 1953, ci trovavamo nella stagione fredda, di lì a poco, la prima domenica di marzo, si sarebbe svolta, a Marittima, la rituale fiera/mercato della Madonna di Costantinopoli, una sera, nonno Cosimo con la pipa in bocca, io e un mio fratello, ce ne stavamo seduti, al solito, nel focalire e nonna Consiglia, lì vicino, era intenta a filare, col fuso, batuffoli di lana accanto alla figlia Lucia e al di lei fidanzato Peppino.
In un dato momento, l’anziana donna si mise a dire: “Fra poco, si terrà la fiera e quest’anno, in vista del matrimonio di Vitale (altro figlio), ci toccherà fare una serie di acquisti”. Passando poi a un lunghissimo elenco di oggetti, magari tutti necessari e utili.
Il nonno ascoltava e, forse, man mano, conteggiava approssimativamente il costo richiesto da tali compere, col rischio anche di dover indebitarsi; a nota non ancora completamente esaurita, fu un attimo, non potendone più, egli interruppe bruscamente la moglie con un solenne, autoritario e ultimativo invito, ad alta voce, a piantarla.
Risultato, la nonna proruppe in un pianto dirotto, in ciò imitata anche dalla zia Lucia. Riguardo ai matrimoni dei figli, qualche anno prima, esattamente nel 1948, era stato celebrato quello di zia Maria, andata sposa a zio Vittorio, marittimese trasferitosi per lavoro a Francavilla Fontana nel brindisino, dove, per ciò, la coppia era andata a mettere su casa.
La nonna Consiglia, senza nulla togliere all’intensità del suo trasporto materno verso gli altri discendenti, dimostrava ed aveva una certa predilezione per Maria e Vittorio; probabilmente, mi vien da pensare, perché era stata vicina alla figlia durante i lunghi anni di assenza del suo fidanzato per vicende di guerra e di prigionia e, in aggiunta, perché, da sposati, i due erano andati ad abitare lontano da Marittima.
Mio nonno andava a piedi fino a Brindisi
A conferma di ciò, la nonna, che mai si era prima allontanata dal paesello, a differenza del marito che di viaggi ne aveva compiuti (in tradotta sino a Belluno, per partecipare alla Grande Guerra, a piedi, non possedendo una bicicletta e non potendosi permettere di pagare il biglietto del treno, sino a Brindisi, due volte l’anno, per lavorare negli stabilimenti vinicoli e nei frantoi, a Napoli, infine, nel 1935 o 1936 per accompagnare il figlio Silvio partente volontario per l’Africa Orientale), iniziò a far su e giù da Francavilla Fontana, anche trattenendosi lì per brevi periodi, non solo in occasione della nascita di due nipoti ma pure in altri momenti dell’anno, immancabilmente intorno a metà settembre, nella ricorrenza della festa della Protettrice di quella cittadina, la Madonna Fontana.
Analogamente, la vigilia della già ricordata fiera della Madonna di Costantinopoli a Marittima, quando zio Vittorio, che collaborava con un commerciante all’ingrosso ma anche ambulante di tessuti, si accingeva a venire nel nostro paese per allestirvi la baracca di esposizione e vendita, la nonna si prodigava in mille preparativi per non far mancare, a lui al suo “principale” (datore di lavoro) una cena speciale.
Sempre in tema di sposalizi, a nonna Consiglia, toccò purtroppo di essere protagonista/vittima di un episodio, se non propriamente drammatico, certamente non lieto; la mattina del giorno stabilito per le nozze della figlia Lucia (1953), a mezzo di una scala di legno, l’anziana donna sì portò su una scansia (ripostiglio), ricavata alla sommità di una parete di casa, per prelevare un oggetto o qualcosa che serviva.
Sfortunatamente, la poveretta ebbe a scivolare, non ricordo se sul ripostiglio o sulla scala, precipitando rovinosamente sul pavimento, con notevoli ammaccamenti fisici, per fortuna, almeno, senza necessità di ricovero in ospedale.
Di primo acchito, si pensò di rimandare lo sposalizio, poi prevalsero le riflessioni sui preparativi già fatti e sulle relative spese e, quindi, fu egualmente festa, sebbene pervasa da un rigurgito di tristezza e da qualche lacrima specialmente nel sentire della sposa, zia Lucia, con la nonna, dolorante, costretta nel suo letto.
Consiglia sopravvisse all’incidente, si riprese bene e resto con i suoi cari, sino al raggiungimento, nel 1974, dell’apprezzabile età di ottantotto anni.
Nonno Cosimo campò fino a 102 anni
Traguardo, invero, non confrontabile con quello che ebbe l’avventura di raggiungere la sua metà, nonno Cosimo, il quale campò fino al 1982, ossia a dire oltre centodue primavere, accudito, nell’ultimo lungo periodo, dalle figlie e dalle nuore.
Notazione leggera, la sera delle esequie di nonna Consiglia, familiari e parenti stretti riuniti in casa nostra per consumare la cena, nella circostanza preparata, secondo l’usanza, da una famiglia del paese amica o legata da vincoli di parentela, “bisunia” in dialetto, rammento che, in una pausa del pasto, una mia sorella pensò di chiedere all’avo: “Nonno, visto che tu hai molti anni più di lei, non ti dispiace che, per prima, sia mancata la nonna? Non avresti preferito che si rispettasse l’anzianità, compiendo tu, adesso, i tuoi giorni al posto suo?”.
Il vecchio uomo restò qualche istante in silenzio, per poi rispondere: “Nipote mia, sia sempre fatta la volontà di Dio, ma la vicenda d’oggi sta bene così com’è andata”.
Mi piace terminare questa semplice e, insieme, sentita rievocazione in ricordo dei miei ascendenti per via paterna, soffermandomi su due ultimi particolari relativi a nonna Consiglia. Ella era fortemente affezionata a un gatto, rimastole accanto per lunghissimi anni e che alla fine era divenuto enorme, guai a chi lo toccasse o non lo trattasse bene.
Inoltre, amava, anche in questo caso gelosamente, i fiori, il piccolo cortile di casa sua si presentava sempre arricchito da molte varietà semplici ma variopinte, dalle zinnie agli astri cinesi, ai garofani, alle rose e alle calle, queste ultime svettanti in un angolo di terriccio adiacente all’imboccatura di una cisterna per la raccolta d’acqua piovana, a lato di una parete muraria interamente ricoperta da un rampicante sempreverde e per lunghi periodi fiorito in una gradevole tonalità lilla.
Rocco Boccadamo
Approfondimenti
Marina, 36 anni, per Sant’Egidio a Bangui, Centroafrica: “Vicina agli ultimi della terra”
“A 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro, ma poi…
L’INTERVISTA ESCLUSIVA
di Luigi Zito
A quale scintilla primitiva si affida l’animo umano quando la fiamma d’amore si accende, si sviluppa, si infiamma e riluce sino a risplendere luminosamente?
E qual è la moneta che ripaga la gratificazione che plasma il nostro cuore, che lo trasforma da cima a fondo, e che lo muove a donarsi agli altri?
Non credo sia solo una mia curiosità, è un affanno che accompagna la vita, che frequentemente ci pone davanti a simili dilemmi. È un tarlo capire cosa muove il sole e le stelle: cosa spinge una giovane donna a lasciare la zona comfort della sua vita per aprirsi al mondo, donarsi e aiutare chi è in difficoltà ed ha più bisogno?
Ancor più se, per farsi piccola per diventare grande, ha scelto di farlo a migliaia e migliaia di chilometri da casa.
È il caso di Marina Ciardo, 36 anni, di Tricase, che da anni vive a Bangui, Repubblica Centroafricana ed è Capo Progetto per l’Associazione Sant’Egidio.
Marina, di buon grado, ha amabilmente risposto a mie precise sollecitazioni.
«VOLEVO CAMBIARE IL MONDO»
«“Cosa vuoi fare dopo la scuola?”. Questa era la fatidica domanda che parenti, amici e insegnati mi ripetevano verso la fine del quinto anno delle superiori. Forse il lavoro che svolgo oggi è proprio la risposta a quella domanda che allora mi trovava impreparata. Non ci avevo mai pensato prima, ma su una cosa ero certa: volevo viaggiare, conoscere nuove culture e usanze diverse dalla mia, cercare di capire quello che, probabilmente, mi è ancora inspiegabile, divertirmi e, soprattutto, provare a cambiare il mondo! Si perché a 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Così, sfogliando una guida delle facoltà universitarie, ho scoperto il corso di laurea in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale a Parma.
E allora mi sono detta: “Ma si, dai! proviamoci”, d’altronde potrebbe unire due strade: quella dell’economia, già intrapresa alle superiori (e che tanti dei miei affetti mi spingevano a proseguire, perché così trovi subito lavoro), e quella della cooperazione internazionale, un mondo inesplorato ma affascinante».
«LA MIA AFRICA»
Come sei arrivata in Africa, a Bangui?
«Non faccio altro che ripetermi, se oggi sono qui, in Africa, é anche grazie al mio professore di Storia ed economia dei Paesi in via di sviluppo, che ci ha sempre spronato a fare un’esperienza nel campo della cooperazione, precisando anche che il lavoro del cooperante non è per tutti: o lo ami o lo subisci. Concludendo poi con un’amara postilla: “Molti dei miei studenti sono giunti alla laurea magistrale ma, di fatto, non hanno mai intrapreso quella strada”.
Incoraggiata e sostenuta dalla mia famiglia, durante l’estate del secondo anno universitario ho deciso di fare una esperienza diretta, sono entrata in contatto con l’Ong Coope – Cooperazione Paesi Emergenti -, e ho vissuto un mese straordinario in un piccolo villaggio a sud della Tanzania, Msindo.
Allora, ho realizzato chiaramente: «Questo è ciò che voglio fare! Conoscere una realtà così diversa dalla mia, vedere la gioia delle persone che, nonostante la consapevolezza delle difficoltà giornaliere, continuano a lottare, sorridendo, con impegno, voglia di farcela, aggrappati alla vita come mai avevo visto fare prima. Dando una mano, facendo piccole cose, ho vissuto momenti e emozioni che stravolgono. Questo mi ha fatto sentire utile. A volte è bastato anche solo aver aggiustato una staccionata in una scuola».
Finita quell’esperienza, cosa è successo?
«Sono rientrata in Italia e ho assaporato per la prima volta il mal d’Africa di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare. Così ho continuato il percorso universitario prima a Parma e poi a Torino. Una volta specializzata in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale, ho assolto il servizio civile in Madagascar, poi il primo lavoro con la Ong Emergency (in repubblica Centroafricana e nel Kurdistan iracheno), successivamente con il Cuamm (Medici con l’Africa) nel Sud Sudan e, infine, da quasi 6 anni, nuovamente nella repubblica Centroafricana con la Comunità di Sant’Egidio».
Come opera la comunità di Sant’Egidio?
«Principalmente in due settori: il primo riguarda la salute, attraverso il programma Dream: cura le malattie croniche come l’epilessia, il diabete, l’ipertensione, l’HIV, l’asma e malattie renali leggere; il secondo è rappresentato dal programma Pace e Riconciliazione che, in modo costante e discreto promuove la pace.
È ben noto il ruolo di mediatore della Comunità di Sant’Egidio tra le parti in conflitto in RCA. La firma dell’Accordo Politico per la Pace, il 19 giugno 2017 a Roma, tra il governo centrafricano e 13 gruppi politico-militari è stato un momento cruciale nella storia del Paese. Questo accordo ha avviato, di fatto, il processo di dialogo e disarmo, che ha avuto un secondo e altrettanto importante momento con la firma degli Accordi di Khartoum nel febbraio 2019».
Qual è il tasso di povertà dove ti trovi? Di cosa c’è più bisogno? La situazione politico-economica, carestie? Guerre?
«Situata nel cuore dell’Africa, la Repubblica Centroafricana (RCA) è, dopo la Somalia e il Sud Sudan, è il paese più povero al mondo.
Nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano è 191° su 193 paesi presi in esame; il 60%, dei circa sei milioni di abitanti, vive con meno di un dollaro al giorno.
Si registra, purtroppo, uno tra i più alti tassi di mortalità materno-infantile e la popolazione ha in media un’aspettativa di vita piuttosto bassa (intorno ai 54 anni). Nonostante la posizione strategica e le risorse naturali presenti sul territorio, il Paese affronta da decenni una profonda instabilità politica che ha minato lo sviluppo economico e sociale.
Sono innumerevoli i colpi di Stato, le rivolte e i conflitti armati. Negli ultimi anni il Governo centrale ha avuto un controllo limitato sul territorio, soprattutto nelle regioni settentrionali e orientali, dove sono presenti gruppi ribelli e milizie locali. Non mancano le interferenze straniere che si manifestano con la presenza di milizie mercenarie, protagoniste talvolta discontri armati e violazioni dei diritti umani.
È un Paese che vive principalmente grazie ad agricoltura, estrazione di diamanti e oro e industria del legname. La crescita economica è ostacolata da mancanza di infrastrutture, insicurezza e instabilità politica. Questi elementi, combinati con una povertà estrema e la carenza di servizi essenziali, hanno generato una grave crisi umanitaria. Le donne e i bambini i più vulnerabili, esposti come sono a violenze, malnutrizione e mancanza di istruzione. Sono cresciuta molto con ogni organizzazione, sia a livello personale che professionale, ma la lunga permanenza a Bangui, mi ha permesso di contribuire alla formazione dei giovani locali, che desiderano migliorare la situazione del loro Paese».
IMPOTENZA E DOLORE
«Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata»
Ci racconti un aneddoto, un avvenimento, che ti ha toccata particolarmente?
«Sono stati anni impegnativi, difficili, che hanno permesso la nascita di amicizie profonde, anche con pazienti per me speciali, che oggi non ci sono più. Il senso di impotenza e il dolore per la loro perdita ti svuota, ti consuma, ti fa credere di non poter andare avanti. Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata. Forse è proprio questa la sfida ma credo che tutto questo mi stia forgiando. Essere testimone, lottare, nel bene e nel male, provoca una forza mista a rabbia che spinge ogni giorno a dare il meglio, anche se a volte non è abbastanza.
A Bangui sono arrivata nel gennaio del 2020, con la prospettiva di starci un anno o poco più, invece, a quasi 6 anni dal mio arrivo, mi ritrovo qui a scrivere questa mia storia e, forse, tracciare anche un bilancio.
Quando parlo con i nuovi colleghi (qui c’è un turnover molto intenso, la permanenza media è da 6 mesi a un paio d’anni), inevitabile che chiedano: “Da quanto tempo sei qui?”. E alla mia risposta, “Quasi 6 anni”, mi incalzano: “Perché?!”.
Non so spiegarlo in poche parole: conservo un “album di emozioni” e da brava amministratrice ho difficoltà a tradurlo in parole. Il fantastico team dell’associazione é un ingrediente fondamentale per questa ricetta di resistenza/resilienza».
TRA MALATTIE E COPRIFUOCO
Covid e altre malattie, come le affrontate?
«Nel 2020 abbiamo trascorso il periodo del covid e il mio primo periodo con questa nuova realtà lavorativa. Non abbiamo sofferto come in Italia, le restrizioni erano blande, c’era solo la paura di essere contagiati e stare male, e allora sì che sarebbe stato un problema, vista l’assenza di ospedali specializzati.
Il 2021 c’è stato un tentativo di colpo di Stato, Bangui era stata dichiarata “Ville mort” (città morta), una città “ibernata” per un paio di settimane e sotto coprifuoco (se ti trovavano per strada non chiedevano un documento o ti facevano una multa, rischiavi di essere ammazzata), che lasciava pochissimo spazio per lo svago, gli amici, per lamentarsi del caldo, delle zanzare, della mancanza d’acqua e degli sbalzi di elettricità che rischiavano di bruciare quello che lasciavi innescato alla presa della corrente».
Ci descrivi una tua giornata tipo?
«Ci si sveglia prendendo il caffè (rigorosamente Quarta!), cercando di mettere in ordine le priorità della giornata, con la consapevolezza che, nel momento in cui metterai piede in ufficio, verrai assalita da mille imprevisti: problemi con le banche, con le macchine, lentezze inesorabili dei Ministeri e cose che si rompono: qui molte cose si rompono con una velocità incredibile.
Seguo principalmente due progetti: il Programma Dream (gestiamo una clinica e un padiglione di ospedale e curiamo circa 3mila pazienti cronici e una media di 100 nuove donne incinte al mese che accompagniamo nel percorso prenatale. Tutti i servizi sanitari sono a pagamento, mentre il nostro programma prevede gratuità e presa in carico in modo olistico del paziente).
E poi abbiamo avviato, da 3 anni, delle campagne di vaccinazione porta a porta per i bambini da 0 a 2 anni.
Per il progetto “mediazione di pace”, mi limito a seguire l’ufficio per evitare problemi di carattere amministrativo e logistico».
“Basta! Mollo tutto e torno in Italia!”, l’hai mai pensato?
«Mi succede spesso, anche più volte nello stesso giorno.
Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere e sottolineare solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro.
Mi hanno molto aiutato e sostenuto le amicizie qui a Bangui.
Avere delle persone che in un quadro nero intravedono un punto bianco e riescono a fartelo vedere e apprezzare, non è scontato.
È questa la forza che mi è stata trasmessa giorno per giorno, che mi aiuta a inquadrare l’amore per questa professione, mi fa andare avanti e ammirare questo quadro caravaggesco: sebbene prevalgano le ombre, la presenza di luce, minima ma potente (carica di quanto si è realizzato), è dominante».
COSA FARAI DA GRANDE?
Hai già deciso cosa farai in futuro?
«Bisogna sempre tenere alto il morale delle truppa: nel mentre si accavallano le emozioni, il leitmotiv mi ritorna in mente, mentre mi ritrovo a scrivere questa storia, a pochi giorni dalla mia partenza, al momento definitiva, da Bangui.
Questa è la parte relativa al lavoro, ma non c’è solo questo.
A Bangui è presente anche un gruppo locale della Comunità di Sant’Egidio, giovani centroafricani che, malgrado le difficoltà, cercano di vivere lo spirito evangelico della Comunità del Santo.
Lo fanno nella gratuità e nell’amicizia, prestano servizio ai poveri, ai bambini di strada, alla scuola di pace e alla cura degli anziani soli e senza sostegno. Mi emoziona vedere che esistono dei giovani che sperano e lavorano per un futuro diverso per il loro Paese.
Dopo quasi 10 anni di lavoro non so ancora dare una risposta alla domanda che Gabriella mi pone “ogni 2 per 3”: Cosa vuoi fare da grande?! So che voglio continuare, e mi impegnerò al 100% per fare in modo di soddisfare almeno in parte quel desiderio di “cambiare le cose” in meglio. Aiutare, vedere la gente sorridere, scoprire la bellezza delle diversità, affinchè quello che ha spinto una giovane salentina ad affrontare questo mestiere, si avveri.
Ecco la mia risposta: «Non so cosa farò da grande, ma il mio lavoro mi piace e continuerò a farlo».
COME AIUTARE
Come possiamo aiutare la tua comunità?
«Con una donazione a:
COMUNITÀ DI S. EGIDIO ACAP – ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCI – IBAN: IT36Q0200805074000060045279
Causale: Programma Dream Centrafrica»
Approfondimenti
Air Fryer: trucchi per migliorare la cottura dei cibi
Negli ultimi tempi le abitudini alimentari di tantissime famiglie sono state stravolte dall’ingresso in casa di un elettrodomestico che ha fatto grandi promesse: garantire piatti golosi come quelli fritti ma leggeri come quelli al forno. Tuttavia, padroneggiare la tecnica di una friggitrice ad aria che sfrutta un vortice di calore ad alta velocità non è immediato come sembra e i primi esperimenti possono rivelarsi non ottimali se non si conoscono le tecniche giuste.
Spesso si dà la colpa allo strumento per una panatura che si stacca o per un interno rimasto crudo, ignorando che la causa reale è una gestione sbagliata degli spazi o dell’umidità residua sugli alimenti. Imparare a bilanciare questi elementi è l’unica via per ottenere risultati paragonabili alla cucina professionale.
Come diventare esperti
Per diventare dei veri esperti nell’utilizzo della propria friggitrice ad aria vi basterà adottare pochi semplici trucchi capaci di garantire una doratura esterna impeccabile su ogni tipo di alimento. Seguendo queste indicazioni scoprirete che la air fryer è uno strumento incredibile, soprattutto se si sceglie un modello avanzato tecnologicamente, come ad esempio quelle di Moulinex, con cui potrete spaziare liberamente in cucina, realizzando ottimi contorni di verdure grigliate e persino dolci da forno complessi senza alcuna difficoltà.
Asciugare bene gli ingredienti e dosare l’olio con intelligenza
La regola d’oro per evitare l’effetto bollito è eliminare ogni traccia di acqua dagli alimenti prima della cottura. Inserendo nel cestello prodotti ancora umidi, l’evaporazione impedirà la formazione della crosta esterna, quindi è importante tamponare accuratamente carne, pesce e ortaggi con carta assorbente fino a renderli perfettamente asciutti.
Passando ai condimenti, bisogna sfatare il mito che l’olio non possa essere utilizzato se si vuole cucinare un piatto salutare: una minima quantità è infatti essenziale per attivare la doratura e proteggere il cibo dal calore secco dell’aria. Invece di versare l’olio direttamente dalla bottiglia, l’ideale è utilizzare un nebulizzatore spray per distribuire uno strato sottile e uniforme su tutta la superficie degli ingredienti. Questo piccolo trucco, oltre a evitare il fumo causato dall’olio in eccesso, aiuta anche le spezie e il sale ad aderire meglio alla superficie dell’alimento, evitando che la forza dell’aria le stacchi dal cibo appena accendete la macchina.
Non riempire troppo il cestello e adattare le temperature
Un errore molto comune dettato dalla fretta è quello di riempire il cestello fino all’orlo, sovrapponendo il cibo. La friggitrice ad aria lavora grazie al circolo veloce dell’aria e se ostruite il passaggio ammucchiando gli ingredienti, la parte centrale rimarrà cruda o fredda. Per ottenere una cottura omogenea è sempre meglio cuocere in più riprese disponendo tutto in un unico strato senza affollare troppo lo spazio.
Inoltre, avendo una camera di cottura compatta e una ventola molto potente, la macchina genera un calore molto più aggressivo rispetto agli elettrodomestici standard. Di conseguenza, le istruzioni di cottura pensate per la cucina tradizionale vanno necessariamente adattate abbassando la temperatura di circa venti gradi e riducendo il tempo di cottura del venti per cento rispetto al forno statico. Ricordate poi l’importanza di intervenire durante il processo: estrarre il cestello a metà cottura per scuotere energicamente le patatine o girare le fettine di carne è un passaggio obbligatorio per garantire che ogni lato venga esposto al calore e si colori uniformemente.
Attenzione alla carta forno e alla pulizia costante
Molti appassionati tendono a utilizzare la carta forno per evitare di sporcare, ma se non gestita bene questa abitudine può compromettere il risultato. Coprire interamente la griglia sul fondo, infatti, blocca il flusso d’aria che arriva dal basso, impedendo al cibo di cuocere correttamente nella parte inferiore. Se volete usarla, la soluzione migliore è acquistare i fogli già forati o sagomare la carta in modo intelligente, facendo attenzione a non inserirla mai durante il preriscaldamento per evitare che finisca sulla resistenza bruciandosi.
Infine, un altro aspetto che incide sul sapore dei piatti è la pulizia dello strumento. I residui di grasso e le briciole che cadono sul fondo tendono a bruciare nelle cotture successive, generando fumo e odori sgradevoli che possono alterare il gusto di cibi delicati, motivo per cui è buona norma lavare i componenti dopo ogni singolo utilizzo. Utilizzando spugne non abrasive e detergenti delicati riuscirete a proteggere il rivestimento antiaderente del cestello, evitando che i cibi si attacchino in futuro.
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