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I miei nonni paterni si chiamavano Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo…

Storia di una famiglia salentina entrambi nati nel rione “Ariacorte” di Marittima

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I miei nonni paterni si chiamavano, rispettivamente, Cosimo Boccadamo e Consiglia Boccadamo.


Erano nati, entrambi, nel rione “Ariacorte” di Marittima, secondo i registri di stato civile dell’epoca in via Acquaviva, a distanza di sette anni l’uno dall’altra, precisamente, lui nel 1879 e lei nel 1886, dalle coppie di coniugi Generoso Silvestro/Eva e Domenico/Cosima. Accanto a Cosimo, in famiglia, esisteva la sorella Salvatora, insieme con Consiglia, invece, il fratello Luigi.


Esatta parità, perciò, circa il numero di componenti dei due nuclei, fra i quali non è dato di sapere se intercorressero nodi di parentela: verosimilmente, no, almeno di genere stretto, mentre non sono da escludere rapporti di grado lontano, nell’ambito del centinaio abbondante di Boccadamo all’epoca viventi a Marittima.


Sicuramente, i miei ascendenti in discorso dovevano conoscersi sin da bambini. Generoso faceva di mestiere il contadino, Domenico, da parte sua, il pescatore, in tale attività coadiuvato, una volta divenuto grandicello, dal figlio Luigi e, anche, per determinate incombenze sulla terraferma, dalla figlia Consiglia. Analogamente, Cosimo fu condotto a seguire le orme paterne nei lavori in campagna, attività che perpetuò durante l’intera esistenza, ovviamente fino a quando si mantenne abile.


A parte gli anzidetti dettagli operativi/occupazionali, ebbero a porsi, Generoso e Domenico, alla stregua di vere e proprie pietre miliari e di preziosi indicatori. Nel senso, che gli appellativi impostigli all’atto del battesimo giungevano puntualmente a comparire e a risuonare non solo con diretto riferimento alle loro persone, ma pure, indirettamente, ai fini dell’identificazione e della chiamata in causa, da parte della comunità paesana, dei rispettivi discendenti.


In tal guisa, le definizioni di Cosimo e Tora ‘u (di) Generosu in seno al primo nucleo famigliare e di Consiglia e Luigi ‘u (di) Minicone (questo accrescitivo dialettale, giacche Domenico era un uomo molto alto, precisamente, un omone) in seno al secondo. Analogamente, le denominazioni aggiuntive, ‘u Generosu e ‘u Minicone seguitavano, e ancora adesso, diffusamente seguitano, vieppiù, ad accompagnare i nomi propri originali delle generazioni succedutesi nel tempo, figli, nipoti e pronipoti.


Lui ebbe un’altra fidanzata, ma non andò buon fine


Vigendo gli ultimi calendari del XIX secolo, Cosimo già giovanotto e Consiglia adolescente e giovinetta, la conoscenza e, poi, la frequentazione fra i due si accrebbero. Per la verità, lui ebbe per prima fidanzata (zita, in dialetto) un’altra ragazza dell’Ariacorte, Marta, ma detto legame non si consolidò definitivamente, proprio, forse, perché Cosimo provava maggior piacere e interesse nel concentrare gli sguardi sulla personcina di Consiglia, nonostante quest’ultima non si appalesasse affatto dolce di sale o accondiscendente o adesiva con facilità.


Dai suoi racconti o aneddoti, è tratta la scenetta del giovane Cosimo, intento, insieme con il padre, a zappare in un fondo agricolo limitrofo all’insenatura “Acquaviva”, denominato “Oscule” (bosco) e di Consiglia che, in quel mentre, saliva a piedi dalla rada, recando sul capo una cassetta di specialità ittiche appena pescate e sbarcate dal padre e dal fratello, per portarle a Marittima e venderle a qualche famiglia abbiente.


Spontanea l’iniziativa verbale di Cosimo: “Dai, Consiglia, lasciaci due/ tre pesci, così ce li arrostiamo sulla brace e potremo accompagnare le nostre friselle, a colazione”. E, però, spontanea e pure decisa fu la reazione, della ragazza, di non dare minimamente ascolto e di tirare dritto. Il nonno trovò occasione, nell’arco di decenni, di rispolverare ripetutamente questo episodio, non senza rinfacciarlo scherzosamente alla controparte protagonista.


Non più “zitu” di Marta, Cosimo si fidanzò “in casa” con Consiglia, la quale, tuttavia, data anche la fresca età, specialmente nei primi tempi del loro sodalizio sulla carta, non dimostrava di attribuire soverchia importanza e assiduità al nesso meramente sentimentale e di vicinanza e contatto con il partner, preferendo seguitare a frequentare le sue amiche del rione e attendendo, unitamente a loro, ai rituali giochi di quei periodi.


“Consiglia, ancora in giro sei? Perché non torni a casa e facciamo l’amore?” (Ovviamente nel significato e col correlato contenuto di fine 1800), la esortava la sera Cosimo, e lei a replicare: “Guarda, prima, devo finire questa partita a campana con le mie compagne”.


Giunse il giorno delle Nozze


Sia come sia, giunse il giorno delle nozze e, dalla casa della sposa, si mosse il tradizionale corteo, attraverso l’Ariacorte, per dirigersi verso la parrocchia. Se non che, sempre a quanto resomi in racconto, nell’atto di transitare davanti all’abitazione di Marta, la ex zita di nonno Cosimo, per rabbia e ripicca, pensò  di disotturare lo scarico di una grande vasca lapidea, in dialetto pila, presente nel proprio cortile e ricolma di acque sporche (sciotte), residuo di un grosso bucato, lasciando defluire il non trasparente  e non olezzante liquido, a modo di cascatella, sulla strada in quel momento percorsa dal corteo nuziale e dalla processione di parenti e invitati, con indosso eleganti abiti da festa.


Completamente diversi di carattere, sotto l’aspetto intellettivo, nelle tendenze e preferenze, Cosimo e Consiglia vissero lungamente e intensamente, in ogni senso, generando una numerosissima prole; in aggiunta ai sei figli sopravvissuti, Silvio, Eva, Maria, Vitale, Lucia e Rocco, considerato, del resto, che, un secolo fa, erano frequentissimi i casi di mortalità infantile, furono in realtà fautori, perlomeno, di altrettante nascite.


Donna forte, dotata di una spiccata memoria (teneva perfettamente a mente, ricordo io, le date di arrivo al mondo, matrimonio e morte di tutta la parentela e non solo), la nonna non intendeva essere da meno nel confronto col consorte, il quale, magari, si lamentava di rientrare a casa, la sera, esausto per la fatica nei campi, sicché, di sovente, lo attendeva a bella posta sull’uscio tenendo in braccio uno dei figlioletti, piangente: “Tieni, prendilo un po’ tu, ha passato in questo modo l’intero giorno, facendomi disperare”.


Al che, l’uomo, così nella sua narrazione a noi nipotini e anche ad altre persone, celiava che fosse lei a regalare ai pargoli qualche pizzicotto, ovviamente foriero di strilla e lacrime. A parte qualche piccola sceneggiata della specie, chi, sostanzialmente, comandava in casa, era la nonna Consiglia soprannominata ‘u Miniconenaturale riflesso, in seguito, fu quel nomignolo aggiuntivo famigliare e non l’altro inerente al nonno Cosimo, ossia dire ‘u Generoso, a cadere e perpetuarsi sia in capo ai loro figli, sia sui discendenti dei medesimi, sia, infine, in termini estesi, nell’ambito della comunità di Marittima.


Consiglia, dunque autorevole, forte e in gamba, fisico e portamento ben eretto sino all’età avanzata malgrado le sopra accennate innumerevoli gravidanze/maternità, stimata e rispettata dai parenti e dai compaesani, a partire dal fratello Luigi che, in segno di attaccamento e di omaggio, volle chiamare Consiglio il suo unico figlio maschio che, oltre a fare il contadino, il frantoiano, il nachiro, capo dei frantoiani, si sarebbe dedicato anche alla pesca, come il padre e il nonno Domenico.


Piccola rimembranza risalente alla mia remota fanciullezza, nel cortile della attigua abitazione di zio Luigi e di zia Amalia (sua moglie), salitasene al cielo, guarda caso, nel giorno dell’Ascensione del 1950, campeggiava un grosso manufatto/parallelepipedo in pietra viva, non molto largo ma alto e cavo all’interno, detto in dialetto “stompu”, utilizzato per versarvi cereali, sia grano che orzo, di propria produzione, e frantumarli mediante la mazza, lunga e robusto attrezzo in legno terminante in forma ovoidale, cereali che sarebbero stati successivamente cotti e consumati a tavola come minestra.


Mio padre Silvio fu il primo sposarsi


Ambedue i miei nonni paterni in discorso, essendo mio padre Silvio il loro primogenito e il primo, in ordine temporale, a sposarsi, avevano un intenso e più consolidato legame giusto con la mia diretta famiglia, volevano, in particolare, un bene dell’anima a mia madre Immacolata e noi ragazzini, spesso, ci trattenevamo, nel pomeriggio o alla sera, nella loro vicina abitazione, d’inverno scaldandoci, insieme con il nonno, all’interno del focalire (camino) e, talvolta, consumavamo la cena frugalissima, una minestra posta a tavola in un unico grande piatto, in compagnia, appunto, dei nonni e degli zii e zie.

Come pure, verso la prima la fine della Seconda Guerra Mondiale, erano questi ultimi, ancora giovani, che correvano a casa nostra, di notte, nell’avvisaglia del passaggio di aerei militari nemici, con potenziale rischio di bombardamenti, caricandosi in spalla noi piccoli nipoti e conducendoci al buio nel vicino appezzamento agricolo di Monticelli, per attendere che il pericolo fosse superato.


Pur trovandomi in così stretta vicinanza e frequentazione con loro, raramente mi è capitato di assistere a dissapori o litigi fra i nonni Cosimo e Consiglia, tranne che in un’isolata occasione. Correva il 1953, ci trovavamo nella stagione fredda, di lì a poco, la prima domenica di marzo, si sarebbe svolta, a Marittima, la rituale fiera/mercato della Madonna di Costantinopoli, una sera, nonno Cosimo con la pipa in bocca, io e un mio fratello, ce ne stavamo seduti, al solito, nel focalire e nonna Consiglia, lì vicino, era intenta a filare, col fuso, batuffoli di lana accanto alla figlia Lucia e al di lei fidanzato Peppino.


In un dato momento, l’anziana donna si mise a dire: “Fra poco, si terrà la fiera e quest’anno, in vista del matrimonio di Vitale (altro figlio), ci toccherà fare una serie di acquisti”. Passando poi a un lunghissimo elenco di oggetti, magari tutti necessari e utili.


Il nonno ascoltava e, forse, man mano, conteggiava approssimativamente il costo richiesto da tali compere, col rischio anche di dover indebitarsi; a nota non ancora completamente esaurita, fu un attimo, non potendone più, egli interruppe bruscamente la moglie con un solenne, autoritario e ultimativo invito, ad alta voce, a piantarla.


Risultato, la nonna proruppe in un pianto dirotto, in ciò imitata anche dalla zia Lucia. Riguardo ai matrimoni dei figli, qualche anno prima, esattamente nel 1948, era stato celebrato quello di zia Maria, andata sposa a zio Vittorio, marittimese trasferitosi per lavoro a Francavilla Fontana nel brindisino, dove, per ciò, la coppia era andata a mettere su casa.


La nonna Consiglia, senza nulla togliere all’intensità del suo trasporto materno verso gli altri discendenti, dimostrava ed aveva una certa predilezione per Maria e Vittorio; probabilmente, mi vien da pensare, perché era stata vicina alla figlia durante i lunghi anni di assenza del suo fidanzato per vicende di guerra e di prigionia e, in aggiunta, perché, da sposati, i due erano andati ad abitare lontano da Marittima.


Mio nonno andava a piedi fino a Brindisi


A conferma di ciò, la nonna, che mai si era prima allontanata dal paesello, a differenza del marito che di viaggi  ne aveva compiuti (in tradotta sino a Belluno, per partecipare alla Grande Guerra, a piedi, non possedendo una bicicletta e non potendosi permettere di pagare il biglietto del treno, sino a Brindisi, due volte l’anno, per lavorare negli stabilimenti vinicoli e nei frantoi, a Napoli, infine, nel 1935 o 1936 per accompagnare il figlio Silvio partente volontario per l’Africa Orientale), iniziò a far su e giù da Francavilla Fontana, anche trattenendosi  lì per brevi periodi, non solo in occasione della nascita di due nipoti ma pure in altri momenti dell’anno, immancabilmente intorno a metà settembre, nella ricorrenza della festa della Protettrice di quella cittadina, la Madonna Fontana.


Analogamente, la vigilia della già ricordata fiera della Madonna di Costantinopoli a Marittima, quando zio Vittorio, che collaborava con un commerciante all’ingrosso ma anche ambulante di tessuti, si accingeva a venire nel nostro paese per allestirvi la baracca di esposizione e vendita, la nonna si prodigava in mille preparativi per non far mancare, a lui al suo “principale” (datore di lavoro) una cena speciale.


Sempre in tema di sposalizi, a nonna Consiglia, toccò purtroppo di essere protagonista/vittima di un episodio, se non propriamente drammatico, certamente non lieto; la mattina del giorno stabilito per le nozze della figlia Lucia (1953), a mezzo di una scala di legno, l’anziana donna sì portò su una scansia (ripostiglio), ricavata alla sommità di una parete di casa, per prelevare un oggetto o qualcosa che serviva.


Sfortunatamente, la poveretta ebbe a scivolare, non ricordo se sul ripostiglio o sulla scala, precipitando rovinosamente sul pavimento, con notevoli ammaccamenti fisici, per fortuna, almeno, senza necessità di ricovero in ospedale.


Di primo acchito, si pensò di rimandare lo sposalizio, poi prevalsero le riflessioni sui preparativi già fatti e sulle relative spese e, quindi, fu egualmente festa, sebbene pervasa da un rigurgito di tristezza e da qualche lacrima specialmente nel sentire della sposa, zia Lucia, con la nonna, dolorante, costretta nel suo letto.


Consiglia sopravvisse all’incidente, si riprese bene e resto con i suoi cari, sino al raggiungimento, nel 1974, dell’apprezzabile età di ottantotto anni.


Nonno Cosimo campò fino a 102 anni


Traguardo, invero, non confrontabile con quello che ebbe l’avventura di raggiungere la sua metà, nonno Cosimo, il quale campò fino al 1982, ossia a dire oltre centodue primavere, accudito, nell’ultimo lungo periodo, dalle figlie e dalle nuore.


Notazione leggera, la sera delle esequie di nonna Consiglia, familiari e parenti stretti riuniti in casa nostra per consumare la cena, nella circostanza preparata, secondo l’usanza, da una famiglia del paese amica o legata da vincoli di parentela,bisunia” in dialetto, rammento che, in una pausa del pasto, una mia sorella pensò di chiedere all’avo: “Nonno, visto che tu hai molti anni più di lei, non ti dispiace che, per prima, sia mancata la nonna? Non avresti preferito che si rispettasse l’anzianità, compiendo tu, adesso, i tuoi giorni al posto suo?”.


Il vecchio uomo restò qualche istante in silenzio, per poi rispondere: “Nipote mia, sia sempre fatta la volontà di Dio, ma la vicenda d’oggi sta bene così com’è andata”.


Mi piace terminare questa semplice e, insieme, sentita rievocazione in ricordo dei miei ascendenti per via paterna, soffermandomi su due ultimi particolari relativi a nonna Consiglia. Ella era fortemente affezionata a un gatto, rimastole accanto per lunghissimi anni e che alla fine era divenuto enorme, guai a chi lo toccasse o non lo trattasse bene.


Inoltre, amava, anche in questo caso gelosamente, i fiori, il piccolo cortile di casa sua si presentava sempre arricchito da molte varietà semplici ma variopinte, dalle zinnie agli astri cinesi, ai garofani, alle rose e alle calle, queste ultime svettanti in un angolo di terriccio adiacente all’imboccatura di una cisterna per la raccolta d’acqua piovana, a lato di una parete muraria interamente ricoperta da un rampicante sempreverde e per lunghi periodi fiorito in una gradevole tonalità lilla.


Rocco Boccadamo


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Pompeo Maritati, “Quando i numeri si innamorano (e io ci casco)”

Oggi che sono in pensione, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo, ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”…

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L’idea di questo libro nasce in un luogo che, a prima vista, sembrerebbe il meno romantico del mondo: una sala corsi di una grande banca italiana, illuminata da neon impietosi, con pile di dispense, calcolatrici scientifiche e tazzine di caffè che avevano visto giorni migliori.

Era verso la fine degli anni 90, e io, in giacca e cravatta, stavo tenendo un corso di matematica finanziaria a un gruppo di operatori bancari. L’argomento del giorno? Il calcolo delle rate di mutuo con il sistema cosiddetto “alla francese”.

Un nome che evoca baguette, bistrot e chanson d’amour, ma che in realtà nasconde una formula che farebbe piangere anche un ingegnere.

Eravamo immersi in coefficienti, tassi d’interesse, progressioni geometriche e quel misterioso “ammortamento” che, più che un piano di rimborso, sembrava una lenta agonia numerica. E proprio mentre stavo spiegando la logica dietro la distribuzione degli interessi nel tempo, uno degli uditori – un tipo sveglio, con l’aria di chi aveva già capito tutto, ma voleva vedere se anche io lo avevo capito se ne uscì con una frase che mi colpì come una freccia di Cupido: “È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Silenzio. Sorrisi. Qualche risatina. Io, ovviamente, feci il classico gesto da docente navigato: annuii con un mezzo sorriso, come a dire “bella battuta, ma torniamo seri”. E così fu. Riprendemmo la lezione, tornai a parlare di rate, di formule, di Excel. Ma quella sera, solo in albergo, mentre il minibar mi offriva una bottiglietta d’acqua a prezzo da champagne e la TV trasmetteva repliche di quiz dimenticati, quella frase tornò a bussare alla mia mente.

“È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Ma certo! Perché no? Perché non pensare che dietro le formule ci siano storie? Storie di attrazione, di repulsione, di corteggiamenti matematici, di triangoli amorosi (non solo geometrici), di numeri che si cercano, si sfuggono, si fondono. Un’idea folle, certo.

Accostare l’innamoramento, quel sentimento poetico, irrazionale, profondo, all’aridità dei numeri, che per definizione sono freddi, impersonali, astratti. Ma forse proprio per questo l’idea mi sembrava irresistibile.

Così iniziai a scrivere. A spizzichi e bocconi, tra una riunione e una trasferta, tra un bilancio e un report. Annotavo storielle, dialoghi, immagini. Immaginavo lo Zero e l’Uno in crisi di coppia, il Due che cerca equilibrio, il Pi greco che seduce tutti ma non si concede a nessuno. Poi, come spesso accade, la vita prese il sopravvento.

Gli impegni si moltiplicarono, le cartelle si accumularono, e quei fogli finirono in fondo a un cassetto. Lì rimasero, silenziosi, per anni. Fino a oggi.

Oggi che sono in pensione, e che ho tempo per ascoltare le idee che bussano piano, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo. Ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”

E così è nato questo libro. Un libro che non pretende di insegnare matematica, ma di farla sorridere. Un libro che non vuole dimostrare teoremi, ma raccontare storie. Un libro che, se tutto va bene, vi farà guardare i numeri con occhi nuovi.

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Luglio 1931: “Quando a Tricase, sul Quadrano, c’erano le Colonie”

Una storia intrigante di un secolo fa: nasce su uno sperone roccioso, su uno dei più bei scorci di Tricase Porto. Da opificio per tabacchine a colonia, durante il fascismo; da casa al mare a discoteca nei anni 70…

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di Ercole Morciano

La costruzione conosciuta col nome di “colonie” nasce a Tricase-Porto, sul promontorio del “Quadrano”, tra fine Ottocento e primi del Novecento, come magazzino per la prima lavorazione del tabacco in foglie per conto della ditta greca Hartog & C., proveniente da Salonicco, come quella dei f.lli Allatini.

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi. 

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.

Proprio da Tricase, dove le tabacchine erano le meno pagate della provincia e oberate dal cottimo, nel 1905 partì la protesta che infiammò tutta la Terra d’Otranto con uno sciopero che portò ad un lieve miglioramento delle paghe e all’abolizione del famigerato cottimo. 


Le tabacchine di Tricase erano “toste” e il loro vessillo scarlatto, recuperato per merito del consigliere comunale socialista Luigi Cavalieri, è ora esposto nella sala consiliare di palazzo Gallone.Tutte le donne del popolo di Tricase erano all’epoca coraggiose e determinate: nel 1917, in piena prima guerra mondiale, sfidarono le dure leggi di guerra che punivano gli assembramenti e scesero in piazza per reclamare pane, pace, lavoro e il rientro dal fronte dei loro uomini, figli-mariti-fratelli-fidanzati.

Le ditte greche Allatini e Hartog, verosimilmente in seguito agli scioperi di cui sopra, decisero di vendere i loro stabilimenti tricasini mettendo fine ad un periodo che, pur foriero di benefici, si caratterizzava per la durezza con cui le lavoratrici venivano trattate e per lo sfruttamento cui erano sottoposte. 

Quello dei F.lli Allatini fu acquistato nel 1909 dal neonato consorzio cooperativo, poi Acait, di cui diventò la sede, mentre quello della ditta Hartog, in Tricase-Porto, passò in proprietà della famiglia del direttore dell’Acait, dott. Filippo Nardi.

“Villa Nardi”, nel primo lustro degli anni ’30”, è denominato l’ex tabacchificio Hartog, costruito sullo sperone roccioso sovrastante la baia del “Quadrano” e caratterizzato da una vasta costruzione a piano terra, con vari ambienti adibiti alla lavorazione, al deposito, agli uffici e alle abitazioni.

Edificato con conci di carparo, volte a stella, vaste aree di pertinenza, su un sito tra i più panoramici di Tricase-Porto, l’ex tabacchificio, detto ufficialmente “Villa Nardi”, fu sede di colonie elio-talasso-terapiche durante il fascismo nel triennio 1932-34.

PERCHE’ LE COLONIE

Il regime fascista sosteneva il sorgere delle colonie estive per due ragioni: una di carattere socio-sanitario per prevenire e contrastare malattie dell’infanzia molto diffuse nelle classi popolari (rachitismo, tubercolosi, avitaminosi…) e l’altra di carattere propagandistico attinente l’educazione e la formazione dei cosiddetti coloni, “Balilla e Piccole Italiane”, ovviamente in gruppi separati, di forte impronta nazionalista, bellicista, con particolare riguardo al culto della personalità verso il dittatore Mussolini, in analogia con quanto avveniva già nella scuola di stato.

A Tricase-Porto vi erano state colonie elioterapiche già negli anni ’20; questa storia inizia invece nel luglio 1931 con una visita alla Colonia di Terracina, provincia di Littoria (ora Latina), dell’ispettore scolastico Raffele Valletta, presidente della Federazione della Mutualità scolastica della provincia di Lecce.

Nasce così nell’ispettore Valletta l’idea di impiantare una colonia estiva in provincia quale filiazione di quella laziale, molto lontana per mandarvi i ragazzi/e delle famiglie salentine.

Il 3 agosto 1932 egli riceve l’approvazione prefettizia che autorizza la Federazione Provinciale M.S. ad “aprire una colonia estiva per bambini/e di 7-12 anni, nella marina porto di Tricase, presso ‘Villa Nardi’ che sarà intitolata ad Achille Starace”. 

Valletta nomina direttrice l’insegnante leccese, Giovanna Astore che il 15 agosto 1932, alle 8.15, prende in carico i “coloni” dalla stazione di Lecce per “rilevare gli altri lungo le fermate della linea Lecce-Zollino-Maglie-Tricase”.

COME FUNZIONAVANO LE COLONIE

Nell’Archivio di Stato di Lecce, tra le carte riguardanti la colonia di Tricase, si conservano l’elenco dei capi del corredo necessario, l’orario delle attività e la “vittizzazione”. 

Orario: 6, sveglia; 6-7 pulizia personale; 7-7.30, primo pasto; 8-12, alla spiaggia; 12.30-13.30, secondo pasto; 13.30-16, ricreazione o riposo; 16-19, passeggiata e merenda; 19.30-20.00, terzo pasto; 20.15, silenzio. 

Ai piccoli coloni verrà somministrata: la mattina, caffè-latte, marmellata e pane; a pranzo, minestra, pietanza, frutta e pane; per merenda, pane, marmellata, od altro; a cena, pietanza, formaggio od altro, frutta e pane. 

Le carte d’archivio ci dicono che l’anno seguente la direzione passò al neo-presidente della Federazione di Lecce Michelangelo Sansonetti, che confermò il personale dell’anno precedente con i relativi incarichi.  

Risulta anche che l’assistenza medica era prestata dal dott. Alessandro Caputo, mentre quella religiosa era assicurata dal parroco di Tricase Porto, don Michele Nuccio. 

Dalla relazione finale del presidente, densa della reboante e pomposa retorica di regime, di cui si trascrivono alcuni stralci, si apprendono i particolari sulla vita della colonia: “educare i fascisti di domani come li vuole il DUCE [sic], sani, forti, disciplinati e pronti a tutto osare”; durante l’alzabandiera: “Gli occhietti [dei bambini] si levano, il braccio si alza nel saluto romano, e un nome vibra nel coro argentino; DUCE. 

Mentre una folla di passanti sosta commossa, più che incuriosita, e riverente si scopre il capo” e si ferma finché non vede di bambini rientrare in colonia “marzialmente cantando Giovinezza”. 

Le parole più altisonanti le troviamo nella esaltazione della figura di Benito Mussolini: “Finita la funzione religiosa, di ritorno [dalla chiesa] in colonia, i nostri bambini, dal canto sacro all’inno Giovinezza, passano tra due fitte ali di popolo, suscitando un delirio di entusiasmo per Colui che con tanto interesse e amore attende alla sanità della stirpe… il cui nome resta scolpito nel cuore di tutti…”. 

GLI ABUSI

Non è possibile scrivere tutto per motivi di spazio, ma si apprende dalle relazioni archiviate che non mancavano gli abusi.

Per esempio, “quando veniva l’ispettore della Mutualità, Pomarici, il pranzo era a base di aragoste che non dovevano mai mancare sulla mensa e altre ne faceva comprare, a spese della direttrice, da portare a casa”.
La direttrice poi abitava in colonia con i suoi 4 figli e tutti “si trattavano molto bene in quanto che staccavano i migliori pezzi della carne acquistata per i coloni e se la preparavano secondo i loro gusti”.
E tutto questo nonostante i controlli a sorpresa, un giorno alla settimana, del presidente Sansonetti che lasciava il figlio in colonia per vigilare: ma la direttrice “approfittava della poca esperienza del giovane” tanto che un suo “conoscente venne ad abitare nella colonia in una delle stanze riserbate alla vedova Nardi [Maria Raeli], al quale veniva somministrato clandestinamente il vitto della colonia”.
FINO A QUANDO FUNZIONO’ LA COLONIA
La colonia funzionò anche nel 1934 e doveva proseguire anche nell’anno seguente perché i moduli per l’iscrizione furono inviati dal presidente Sansonetti ai comuni della provincia l’1 maggio del 1935.
Se non che, di lì a poco, il 15 maggio, si ebbe a Tricase la rivolta, con lo sciopero delle tabacchine, la morte di 5 persone, gli arresti e tutto il resto e pertanto non risulta che quell’anno la colonia si sia tenuta.
Il fabbricato delle “colonie”, nella seconda metà degli anni ’30, cambiò di proprietà perché allo scoppio della guerra mondiale, nel giugno 1940, venne requisito per fini bellici ai nuovi proprietari: Adriana Contegiacomo in Cortese e Donato Antonaci-Dell’Abate ai cui eredi, salvo le alienazioni intercorse, appartiene ancora oggi.
Purtroppo non andarono in porto i tentativi per fare dei fabbricati una struttura turistica ma si ricorda che, nella parte Contegiacomo-Cortese, dove dal dopoguerra in poi abitarono d’estate non poche famiglie tricasine, ha funzionato negli anni ’70 una discoteca (Le Palme) molto frequentata dai giovani per ballare e ascoltare musica all’aperto, in uno dei luoghi più suggestivi di Tricase.
Ringrazio di cuore il collezionista Mario Scorrano per la foto inedita e per le carte datemi in visione.
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Aumenta la produzione dell’olio nostrano, ma la qualità come è?

I numeri, però, non sempre bastano ad un’analisi esaustiva. Ecco perché abbiamo coinvolto alcune aziende del territorio per comprendere i contorni della campagna olivicola di quest’anno…

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Confermato il previsto aumento della produzione di olio a livello nazionale di circa il 30% rispetto all’annata precedente. La nuova annata sembrerebbe buona per qualità, con il novello già disponibile.

Buona qualità anche in Salento

La resa è influenzata dalla diminuzione della produzione (-30/40% in Puglia e circa il 20% in provincia di Lecce)  ma con un aumento della qualità (e anche dei prezzi). La resa media in olio da olive varia dal 13% al 20%, ma il dato complessivo della produzione è in calo rispetto alle annate precedenti, in linea con quanto previsto da Confagricoltura.

Nel panorama complessivo, bisogna considerare che l’andamento climatico sfavorevole ha inciso in modo pesante sulla produzione di olive. Nei primi giorni di aprile, infatti, una serie di gelate improvvise ha colpito molte aree olivicole, compromettendo gran parte dei bottoni fiorali (mignole) e vanificando in buona parte le potenzialità produttive. Secondo le prime valutazioni tecniche, la flessione produttiva potrebbe essere legata anche a fattori varietali.

In particolare, la cultivar FS-17 (la “Favolosa”), che inizialmente presentava una buona prospettiva di raccolto, ha subito un crollo quasi totale della produzione a causa della cascola dei fiori non ancora aperti, verificatasi subito dopo le gelate.

I numeri, però, non sempre bastano ad un’analisi esaustiva. Ecco perché abbiamo coinvolto alcune aziende del territorio per comprendere i contorni della campagna olivicola di quest’anno.

Giacomo Palese, amministratore de L’Olivicola di Presicce–Acquarica, precisa: «La nostra è un’azienda produttrice di olive da mensa e stiamo riscontrando un’ottima qualità». Riguardo alle differenze, «le ritroviamo in termini di quantità, quest’anno abbiamo meno frutto». Gli operatori del settore salentini hanno dovuto fare i conti con le conseguenze della Xylella che «ha avuto un impatto significativo sulla nostra azienda, ha rappresentato una svolta difficile e ha messo a dura prova la sostenibilità economica, obbligandoci a ripensare completamente il modello di business. Abbiamo dovuto reinventarci e diversificare la produzione. Non potendo più contare sulle nostre olive abbiamo iniziato ad acquistare da altri produttori, mossa che ci ha permesso di mantenere una produzione continua e ci ha anche spinto a esplorare nuove strade. Un cambiamento rilevante e significativo è stata l’introduzione di nuovi prodotti come i sott’oli che in passato non trattavamo. Tale diversificazione ci ha aperto nuovi canali di mercato, diversi da quelli che conoscevamo, e ha comportato costi aggiuntivi e la necessità di finanziare nuove attività: importanti investimenti, la necessità di accedere a nuovi finanziamenti esterni e un maggiore impegno nella gestione del credito, parliamo di un accesso al credito più mirato per finanziare questi investimenti iniziali. Un percorso impegnativo che ci ha permesso di trattare prodotti che diversamente forse non avremmo trattato. Sebbene le sfide siano state tante, siamo riusciti a trovare opportunità che, a lungo termine, potrebbero rivelarsi vantaggiose per la sostenibilità economica dell’azienda. Oggi, dopo anni, siamo tornati alla lavorazione delle olive grazie ai vari reimpianti effettuati. Abbiamo reimpiantato olive leccino, perché lavorando olive da tavola riteniamo che tale cultivar sia un ottimo prodotto da mensa. Nonostante le difficoltà», conclude Palese, «questo percorso di trasformazione ci ha reso più resilienti e pronti ad affrontare sfide future».

Anche Pierangelo Tommasi di Olio Biologico Moruse di Calimera, conferma «un prodotto dalla qualità eccellente anche perché siamo stati risparmiati dall’attacco della “Mosca”». Le differenze rispetto all’anno scorso «sono notevoli ma le piante crescono di anno in anno e iniziano a produrre un po’ di più. Parliamo, però, di numeri minimi rispetto a dieci anni fa: da allora la sostenibilità economica è completamente cambiata. Prima si poteva vivere di agricoltura, adesso sono soprattutto spese. Nella speranzosa attesa di tornare ad avere i profitti di una decina di anni fa».

Nel frattempo, anche nella azienda di Calimera hanno «impiantato le varietà di Leccino e Favolosa, per la precisione 80% della prima e 20% della seconda». Colta al volo l’occasione per variegare la produzione: «Già da 4-5 anni stiamo curando una cultura di avocado. Per ora solo un piccolo appezzamento ma stiamo provvedendo ad estendere la produzione su un altro ettaro e mezzo».

Quintino Palma del Frantoio Palma di Cursi ricorda che «la raccolta 2025 è stata colpita da una gelata durante il periodo della fioritura, provocando un calo nella produzione che resta, comunque, sufficiente per un raccolto di buona qualità».

Rispetto all’ annata scorsa Palma rileva «un leggero calo di produzione sufficiente, però, a garantire il prodotto fino alla prossima campagna olearia».

Poi aggiunge: «Al momento abbiamo quasi completato i reimpianti mettendo a dimora varietà Favolosa, Leccina e Leccio del Corno (avevamo già olivi di Leccino di circa 30 anni). Purtroppo, la Xylella ha causato un crollo della redditività dell’azienda. Anche se sono stati erogati degli aiuti per i reimpianti, bisogna considerare che occorrono diversi anni prima che le piante raggiungano un target accettabile di produzione, di conseguenza siamo ancora in piena crisi. Fortunatamente», conclude Palma, «l’azienda si occupa anche di effettuare reimpianti olivicoli “chiavi in mano” per sopperire al calo di reddito post Xylella».

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