Attualità
Io, Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz
Nel maggio del ’44 Nedo Fiano, ebreo italiano, arrivò con suo padre sulla banchina di Auschwitz. Tutta la sua famiglia fu deportata e sterminata
«Cio’ che ha connotato tutta la mia vita è stata la mia deportazione nei campi di sterminio nazisti. Con me ad Auschwitz finì tutta la mia famiglia, vennero sterminati tutti. A diciotto anni sono rimasto orfano e quest’esperienza così devastante ha fatto di me un uomo diverso, un testimone per tutta la vita». Nedo Fiano al momento della promulgazione delle leggi razziali viveva a Firenze. Venne arrestato da italiani il 6 febbraio del 1944, fu rinchiuso nel carcere di Firenze, da lì condotto al campo di Fossoli. Deportato ad Auschwitz il 16 maggio del 1944, matricola A 5405, liberato a Buchenvald.
Mi puo’ descrivere la comunità ebraica di Firenze, prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali?
«La presenza della famiglia Fiano a Firenze risale al 1400. La comunità ebraica fiorentina contava circa 1500 persone, 39mila in tutta Italia. Eravamo più italiani degli italiani, la maggior parte degli ebrei italiani erano ben integrati, seppur con una loro specificità. Quella di Firenze era una comunità composita: commercianti, insegnanti, industriali tutte le categorie della media borghesia. Mia mamma aveva una deliziosa pensioncina, con sette camere da letto. Una pensione dove venivano dirigenti e anche turisti. Facevamo una vita normalissima. Non c’era razzismo. Ogni tanto ci scappava la scazzottata, l’ebreaccio, ma insomma era normale. A Firenze a quel tempo i ragazzi ci dicevano Cucchina Lanai, cercando di riprodurre la parola ebraica adonai, che significa Dio. Insomma scaramucce, niente di più».
Tutto cambiò nel 1938, con la promulgazione e l’entrata in vigore delle leggi razziali. Cosa accadde a Nedo Fiano?
«Io venni cacciato da scuola perché ebreo. Ero un ragazzo, molto legato alla sua classe, ai suoi compagni. Ne avevo 32, di cui conservo ancora la fotografia. A 13 anni mi sembrò di essere davanti ad un baratro. Quando venni cacciato da scuola non c’era da affrontare i soldati armati, mi sarebbe bastata una stretta di mano e una consolazione “Nedo non ti preoccupare giocheremo ancora insieme, noi siamo gli amici di sempre, non ti preoccupare non piangere“. Questo non è avvenuto. Li ho rincontrati nel 1996 su mia iniziativa, ho detto loro che volevo vederli tutti. C’è forse un’attenuante per molti di loro: il fatto che i genitori gli avevano detto di evitarmi perché ebreo, per non avere guai. Pero’ finita la guerra qualcuno doveva venire a dirmi qualche cosa. Niente prima, niente durante, niente dopo».
Che cosa è successo in quell’incontro?
«Mi chiesero di dire qualche cosa. Io mi ero preparato un discorso, non lo faccio mai. Ma non l’ho letto. Li ho guardati e mi sono messo a piangere. “Quello che io dovrei dire non lo dico, vedo che siamo più o meno tutti arrivati, mi siete mancati molto“. Non li ho messi sotto accusa, il più sincero degli amici mi disse “non credere è costata anche a noi“».
Dopo la cacciata da scuola cosa fece?
«In quell’occasione mia madre, che nel frattempo a causa delle leggi razziali aveva dovuto chiudere la pensione, è stata grande, mi disse che la vita era fatta anche di queste cose, che erano le prove della vita. Da lì a poco la comunità ebraica si organizzò e venne istituita una piccolissima scuola, dove le classi avevano cinque, sei ragazzi al massimo e da sbarazzino e monello come ero, diventai un secchione. Il 50 per cento dei nostri insegnanti erano professori universitari cacciati a loro volta a causa delle leggi razziali. Nei giorni scorsi ho scoperto che la famosa scienziata Margherita Hack è stata allieva della professoressa Calabresi, che era stata mia insegnante in quel periodo. Da quella scuola improvvisata sono venuti fuori ambasciatori, banchieri, personaggi di altissimo livello. Studiavamo come pazzi, poi con quegli insegnanti straordinari. Ogni anno avevamo gli esami perché la nostra scuola non era riconosciuta. Il primo anno il preside della scuola dove eravamo andati a fare gli esami di fine anno aveva messo una bacheca per gli alunni ebrei e una per gli ariani. Noi ebrei avevamo tutti gli otto decimi, il massimo della media, e gli altri no. L’anno dopo, quando siamo tornati a fare l’esame per la seconda volta, il preside ci mise tutti insieme, per non far vedere che eravamo migliori degli ariani. Noi avevamo capito la motivazione della scuola, perché si doveva studiare».
In che periodo venne deportato ad Auschwitz?
«Fui catturato insieme a mio padre e nel maggio del 1944 deportato con lui ad Auschwitz. Arrivammo a destinazione il 23 maggio. Quando io e papà siamo arrivati, appena scesi dal convoglio, siamo passati subito dalla selezione: da una parte la camera gas e il forno, dall’altra il campo. Noi non siamo andati nella parte del forno. Papà era un uomo splendido, sembrava un ambasciatore. Aveva 54 anni, ma lui ha dichiarato di averne dieci di meno per potersi salvare. Siamo entrati nella quarantena, che era comunque un luogo di morte, le razioni erano dimezzate rispetto al campo, durava circa tre settimane e quando i prigionieri uscivano erano ridotti malissimo. Mi ricordo che siamo entrati in una baracca, dove era il momento della distribuzione della zuppa. Ad Auschwitz non c’erano né forchette, né coltelli, né cucchiai. Dovevamo mangiare mettendo la testa dentro nella ciotola, come del resto non c’era la carta igienica e la mattina ci si doveva pulire con le mani».
Cosa accadde dopo la quarantena?
«Quando fummo dentro la baracca entrò subito dopo un sergente maggiore delle SS, il quale disse: “achtung”, tutti scattarono in piedi, era un ordine. Incominciò a guardarci. Io so cos’è uno sguardo nazista, uno sguardo vitreo, freddo. I nazisti ci guardavano come fossimo stati degli scarafaggi. E come per gli scarafaggi, nessuno prova ritegno a schiacciarli, così era per noi. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche interprete. “Chi parla tedesco?” chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio quando pensavo che questo esame fosse finito, ho sentito una spinta sulla schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità d’interprete. Mi sono trovato davanti alla SS, che continuava a fissarmi con lo stesso sguardo. A un certo punto mi chiese “dove sei nato? “. Io risposi “in Italia”, senza guardarlo, con gli occhi verso un punto infinito. “Sì ma dove?”, insistette lui. ” A Firenze“. Non finii neppure di pronunciare Florence, che mi disse: “caro amico, la tua città è bellissima“. Dopo un monologo di dieci minuti mi ha selezionato per il corpo interpreti. Eravamo dei privilegiati, e se io sono qui a parlare forse è anche per questo. Gli interpreti lavoravano sulla banchina d’arrivo della stazione di Auschwitz -Birkenau».
Suo nonno era stato deportato con voi?
«No. So che è difficile da credere, perché mio nonno morì nel ’36 quando io avevo 11 anni. Però ne sono sicuro: lui mi sospinse. E’ a lui che devo la mia sopravvivenza. Mio nonno paterno parlava tre lingue, tra cui anche il tedesco. Era cieco, un gran affabulatore. Lui mi parlava di Salgari, quando in genere a quel tempo i ragazzi si occupavano del Libro cuore, o al massimo diPinocchio. Io ero un bambino di otto anni, frequentavo la terza elementare. Un giorno mi disse: “Nedo tu devi imparare il tedesco e ricordati che le lingue rappresentano le chiavi per aprire le vie del mondo “. In quei tre quattro anni di insegnamento mi ha aperto la via alla vita».
Voi avevate consapevolezza di quello che vi aspettava ad Auschwitz?
«I convogli ferroviari, i trasporti che portavano gli ebrei allo sterminio si chiamavano “trasporti notte e nebbia”. Pensate a questa definizione poetico letteraria, la definizione più precisa e puntuale e anche la più drammatica. Che cosa puoi immaginare di un tale convoglio? Niente. Un trasporto che non sai dove va. Sulla banchina di Auschwitz abbiamo visto arrivare per mesi ebrei greci, polacchi, ungheresi, italiani. Io ero sulla banchina quando con un convoglio è arrivata anche mia nonna. Era sorda, si guardava in giro senza riuscire a capire dove fosse finita. Io l’ho riconosciuta subito e sono andato ad abbracciarla, cosa peraltro rischiosissima e sono svenuto dall’emozione. I miei compagni allora mi hanno preso e mi hanno messo da una parte, coprendomi con delle foglie. Mi sono ripreso quattro minuti dopo, mia nonna era già finita nella camera a gas».
Che spiegazione si dà per quanto è accaduto. C’è chi ha detto che dopo Auschwitz è cambiato persino il concetto e l’idea di Dio?
«Molti, come me, non riescono a spiegare questa cosa. Per quello che è accaduto agli ebrei in questa ultima guerra, con la shoah c’è da chiedersi, con tutta franchezza, se è possibile che un Dio buono, onnipotente, onnipresente lasci ammazzare sei milioni di persone, anche se fossero stati sei milioni di delinquenti, che poi non erano. Mio nipote aveva solo 18 mesi, che colpe aveva? Io me la sono spiegata in questo modo. Per me il grande miracolo su questa terra è la nascita, la procreazione. L’uomo cresce con un’intelligenza, una coscienza. Iddio, questa entità, è all’origine della nascita, poi l’uomo se la vede da sé, non possiamo credere che Dio intervenga nelle cose dell’uomo, perché allora dovremmo ammettere che su alcune interviene e su altre no. L’uomo è responsabile delle sue scelte, l’uomo ha il libero arbitrio. L’uomo ha la capacità e il potere di fare il bene e il male».
Quindi l’uomo rimane il principale responsabile.
«Certo. Se io penso che i tremilacinquecento uomini, che costituivano la guarnigione di Auschwitz, scrivevano a casa lettere affettuose alle mogli, mandavano ai propri figli fotografie, scrivevano parole buone, devo pensare anche che è presente questa dualità , e che è sempre in agguato. L’uomo è il responsabile, non Iddio. L’umanità è responsabile della Shoah, come dello stermino dei Curdi e degli Armeni. L’uomo è responsabile. Io ho lavorato sulla banchina della stazione di arrivo ad Auschwitz fino all’ottobre del 1944, guardavo Josef Mengele, simile ad un attore americano, vestito sempre elegante, come ad un galà, che avvicinava ai bambini dava loro carezze e caramelle, quando vedeva due gemellini se li portava via per i suoi esperimenti. Era un uomo. Noi eravamo dei candidati alla morte e lui sceglieva».
Quando ha iniziato a testimoniare la sua esperienza? Molti sopravvissuti ai campi di sterminio hanno avuto difficoltà.
«Quando si dice che uno è sopravvissuto ad Auschwitz per testimoniare, si dice una balla. Chi è sopravvissuto, lo ha fatto per istinto. Non è stato facile testimoniare ciò che è stato. Se si andava solo quindici anni fa in una scuola e si chiedeva ad un preside di parlare dell’esperienza di Auschwitz la risposta tipica era “ma non rientra nei programmi”, “sa non vorrei turbare i ragazzi…”. Insomma nelle scuole non si entrava. Poche erano quelle disposte ad ascoltarci, ed era grazie a pochi illuminati. Il fenomeno delle testimonianze dei sopravvissuti ai campi di sterminio si è avuto all’inizio degli anni Novanta, quando c’è stata una vera apertura delle scuole. La gente della nostra generazione ha un senso di colpa perché tutto quello che è accaduto non sarebbe accaduto se ci fosse stata la solidarietà e la mancanza di questa è stato ciò che ha alimentato la strage. Per capire bisogna parlare del 1938 e delle leggi razziali. Il paese di Dante, di Michelangelo e di Leonardo, ha prodotto anche gli scienziati che hanno avallato la menzogna della razza, affermando che esisteva una razza ariana, e gli ebrei, non essendo ariani, era giusto che venissero estromessi dalla vita civile, dalla società, nonché avviati allo sterminio. Quello era il tempo in cui il signor Levi direttore di banca veniva cacciato e i colleghi, anziché indignarsi, si fregavano le mani perché si liberava un posto. E così successe nelle università, nelle scuole, nelle aziende. Questo è il punto, in Italia non c’è stato un movimento di opposizione alle leggi razziali, come ad esempio in Olanda dove hanno fatto anche degli scioperi».
Oggi si assiste ad un rigurgito antisemita e ad un revisionismo storico esasperato, a cosa è dovuto?
«È dovuto principalmente alla destra, che legittima certe posizioni. Io direi che la shoah è stata molto metabolizzata e purtroppo nel modo peggiore. Se io penso che un paese come questo, che tra l’altro ha avuto un forno crematorio, quello di Trieste, la Risiera di San Sabba, oltre a vari campi di concentramento da Merano a Fossoli, ha faticato non poco per ottenere un giorno dedicato alla Memoria, ho detto tutto. Sul revisionismo possiamo solo dire che per sei milioni di morti massacrati in quel modo non ci puo’ essere né una giustificazione storica, né ideologica, pertanto l’unica difesa, l’estrema ratio è la negazione. E’ un processo pericoloso che intacca la conoscenza. La recente edizione di una famosa enciclopedia riporta alla voce Auschwitz questa definizione: “Luogo di detenzione dove vennero internati gli ebrei per tutta la guerra”. 2milioni e mezzo di morti finiti così. Se questo è il risultato, ci vorrebbe una seconda resistenza, ma non siamo capaci di farla».
Michele Mancino
Attualità
“Vita mia”: il film di Winspeare al Torino Film Festival
Il film è stato girato in Salento tra Depressa, Sternatia, Tricase e Santa Maria Di Leuca
La Fondazione Apulia Film Commission e la Regione Puglia saranno presenti alla 43ª edizione del Torino Film Festival con “Vita Mia” di Edoardo Winspeare.
Il nuovo film del regista di Depressa di Tricase, girato in Salento tra Depressa, Sternatia, Tricase e Santa Maria di Leuca, sarà programmato nella sezione Zibaldone mercoledì 26 novembre alle 18,15 (Sala due Cinema Romano- Galleria Subalpina).
Protagonisti della vicenda sono: Dominique Sanda, Celeste Casciaro, Ninni Bruschetta, Ignazio Oliva, Karolina Porcari, Johanna Orsini, Francesca Ziggiotti, Dora Sztarenki, Josef Scholler, con la partecipazione di Stefan Liechtenstein e Christian Liechtenstein.
Il film racconta, attraverso la vita di Didi, il Novecento come una crepa luminosa.
Nobile ungherese in un’Europa attraversata dal fuoco della Storia, Didi assiste da bambina all’arrivo dei nazisti, poi al comunismo, quindi all’esilio.
In Francia cuce per sopravvivere alla Maison Dior, prima di sposare un aristocratico italiano e approdare nel silenzio dorato, ma fragile, del Salento. Il film la ritrae anziana, malata, ancora fiera.
L’arrivo di Vita, giovane pugliese chiamata ad assisterla, innesca un incontro inatteso: due mondi lontani – l’aristocrazia impoverita e la cultura popolare – che imparano a riconoscersi. Tra fatiche quotidiane, pudori e piccoli conflitti, nasce un legame capace di sospendere barriere sociali e politiche.
Il viaggio di Didi in Ungheria, intrapreso per seguire la causa di beatificazione del padre, riapre le ferite profonde della Storia: la Shoah, le colpe sopravvissute, le memorie che reclamano ascolto. Il ritorno nei luoghi dell’infanzia diventa una camera d’eco del “secolo breve”.
Grazie alla presenza forte e semplice di Vita, Didi trova infine un varco: l’accettazione del proprio passato e un fragile approdo alla serenità. In lei si riflettono i traumi e le rinascite di un intero secolo.
“Vita Mia” è prodotto da Stemal Entertainment e Saietta Film con Rai Cinema, il contributo di MiC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo e il contributo di Apulia Film Fund di Apulia Film Commission e Regione Puglia a valere su risorse del POR Puglia FESR-FSE 2014/2020. La distribuzione internazionale è affidata a Beta Cinema.
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Attualità
Questo non è amore
Progetto strategico della Polizia di Stato per sostenere le vittime e sensibilizzare la società, promuovendo una cultura basata sul genere. Michelle Hunziker testimonial della campagna di sensiziolizzazione
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre), prosegue l’impegno della Polizia di Stato nella campagna permanente “…questo non è amore”, realizzata dalla Direzione Centrale Anticrimine.
Le azioni realizzate dalla Polizia di Stato in tale ambito rappresentano un importante impegno istituzionale per il contrasto alla violenza di genere, nell’ottica di contribuire alla realizzazione di un cambiamento culturale più ampio che riguardi l’intera società.
Sul tema della violenza di genere c’è la consapevolezza che molte donne, anche in situazioni di pericolo, non denunciano per paura, per vergogna o per mancanza di fiducia nelle istituzioni.
L’iniziativa “…questo non è amore” intende smontare gli stereotipi e le false credenze legate alla violenza nei confronti delle donne, portando le forze dell’ordine direttamente tra la gente, nei luoghi pubblici con una presenza visibile e rassicurante, fatta di ascolto, accoglienza e informazione.
Ogni anno, le Questure organizzano numerosi eventi di sensibilizzazione sul territorio nazionale dove si registra una consistente partecipazione della cittadinanza.
Proprio grazie a questi incontri informali, è possibile rompere il silenzio e aiutare le donne a riconoscere i segnali di pericolo.
Nel corso degli incontri viene divulgato un opuscolo informativo (a livello cartaceo e digitale) che tratta in modo specifico i temi della violenza domestica e di genere garantendo una prevenzione concreta. Nell’opuscolo ricorda che uscire dalla spirale della violenza è possibile: per questo sono presenti numeri utili, indirizzi dei centri antiviolenza, strumenti normativi previsti dal legislatore, storie di donne che hanno trovato il coraggio di denunciare e molto altro ancora.
Il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, nella prefazione della brochure di quest’anno ha ricordato che «la violenza contro le donne non è mai un numero: è una vita violata, una dignità calpestata, un dolore che attraversa l’intera società. Non possiamo limitarci a contarne i casi: ogni femminicidio è una ferita che riguarda tutti, istituzioni e cittadini, e che richiede una risposta corale e responsabile».
Testimonial della nuova edizione è Michelle Hunziker che introducendo l’opuscolo ha affermato: «La tutela delle donne che si ottiene con l’applicazione delle leggi deve essere supportata da un profondo cambiamento culturale, che deve avvenire nella mente e nel cuore di tutti noi. Per questo è importante sensibilizzare, specialmente i più giovani, e accompagnare le vittime di violenza verso il raggiungimento dell’indipendenza economica. Denunciare non è un obbligo né una condanna, semmai un’opportunità. È il primo passo per essere, o tornare a essere, sicure, autonome, libere».
Per questo motivo, “…questo non è amore” rappresenta un progetto strategico che mira a sostenere le vittime e alla sensibilizzazione della società, promuovendo una cultura basata sul genere.
L’attività di prevenzione svolta dalla Polizia di Stato si rivolge anche agli autori delle violenze grazie all’impegno delle Questure, dei centri antiviolenza e degli ospedali che hanno reso operativo il Protocollo Zeus.
Al momento dell’esecuzione del provvedimento di Ammonimento del Questore, l’autore delle condotte viene informato della presenza sul territorio di centri specializzati che si occupano di offrire un percorso integrato sulla consapevolezza del disvalore sociale e penale delle condotte tenute.
In molti casi l’autore delle condotte che riesce a seguire il percorso psicologico riesce a interrompere la spirale della violenza e gestire gli eventuali eventi successivi, evitando la recidiva.
Nell’ottica di favorire uno scambio costante di informazioni e competenze per un intervento integrato e multidisciplinare a tutela delle vittime, sono stati sottoscritti numerosi i protocolli di collaborazione tra la Polizia di Stato e la società civile per lo sviluppo di campagne di informazione e sensibilizzazione.
Le intese siglate prevedono l’attivazione di reti territoriali per un supporto immediato e coordinato posto a tutela non solo delle donne, ma anche dei figli esposti alla violenza subita dalle madri.
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Attualità
Ruote nella Storia a Tricase, l’eleganza della memoria
Tra storia, mare e motori, al volante di oltre cinquanta auto d’epoca, la tappa nel Salento del viaggio di ACI e ACI Storico alla scoperta dei luoghi più belli d’Italia. Il Presidente di Automobile Club Lecce Francesco Saverio Sticchi Damiani: «Questa edizione sarà ricordata a lungo». Il sindaco di Tricase Antonio De Donno: «Evento che ha portato Tricase in tutta Italia grazie anche allo spot girato da Helen Mirren e Taylor Hackford»
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Le protagoniste assolute della tappa salentina di Ruote nella Storia sono state le oltre cinquanta eleganti vetture d’epoca che, nel fine settimana scorso, hanno trasformato Tricase in un museo a cielo aperto.
Il pubblico ha potuto ammirare quasi sessant’anni di storia dell’automobile.
Esemplari rari come la Fiat Topolino del 1952 e la Ford F1 del 1950, la raffinata Lancia Aurelia B24 del 1957 insieme alle intramontabili icone degli anni Sessanta e Settanta, dalla Fiat 500 F alla Lancia Fulvia, dalla Fiat X1/9 alle Alfa Romeo Giulia Super e GT 2000.
Gli anni successivi hanno portato in strada modelli come la Citroen Charleston, la Lancia Beta Montecarlo, la Spider Alfa Romeo degli anni Novanta e la Porsche Carrera 4 911 del 2001.
L’edizione organizzata dall’Automobile Club Lecce ha proposto anche un omaggio speciale alla storica casa Lancia, alla quale è stato dedicato un riconoscimento assegnato durante la cerimonia finale dal Lancia Club Italia.
«Questa edizione di Ruote la Storia è partita con il botto, con due premi Oscar, Helen Mirren e Taylor Hackford testimonial ufficiali», ha evidenziato Francesco Saverio Sticchi Damiani, Presidente AC Lecce, «un ringraziamento particolare va alla disponibilità del Comune di Tricase, e in particolare del sindaco Antonio De Donno, che ci ha aiutato a organizzare una tappa di “Ruote nella Storia” veramente unica. Quest’anno, per quanto riguarda la prova di avviamento alla regolarità abbiamo organizzato le due specialità di regolarità a media e con i pressostati. Abbiamo avuto 53 bellissime macchine e mi sento di dire che questa edizione sarà ricordata a lungo»
L’iniziativa, che rientra nel progetto nazionale di ACI Storico e Automobile Club d’Italia, è stata realizzata con il patrocinio del Comune di Tricase ed è cofinanziata da Coesione Italia 21-27 Puglia, Unione Europea, Repubblica Italiana, Regione Puglia e Pugliapromozione.
Alla riuscita della manifestazione hanno contribuito anche SARA Assicurazioni, CIA (Confederazione Italiana Agricoltori) Salento, GAL Capo di Santa Maria di Leuca.
Il primo momento della manifestazione si è svolto di sabato pomeriggio nel centro di Tricase, con l’accoglienza all’interno di Palazzo Gallone, dove i presenti hanno potuto osservare un’antica carrozza ottocentesca della famiglia Antonaci dell’Abate, affiancata da una selezione di auto d’epoca esposte anche in piazza Pisanelli.
Nelle sale del GAL Capo di Leuca è stata allestita una mostra documentaria del Museo di Storia Patria di Tricase, dedicata al rapporto tra la comunità e la cultura dei motori.
La serata si è poi conclusa con un incontro divulgativo dedicato al tema della mobilità responsabile e del turismo legato al motorismo storico.
«“Ruote nella Storia” è un evento che non si limita a celebrare il motorismo storico, ma diventa una narrazione collettiva del territorio, della Puglia più autentica», ha evidenziato il sindaco di Tricase Antonio De Donno, «qui a Tricase, nel più bel salotto del Salento, ha sancito un legame indissolubile fra la città e chi ha cura di gioielli del passato che tramandano valori di passioni, lavoro e maestria italiani. Grazie alla famiglia Sticchi Damiani, a Francesco e al presidente Angelo, che rappresentano un pezzo di storia dell’automotive nazionale ed internazionale. Un evento che ha portato Tricase in tutta Italia grazie allo spot girato per la promozione nazionale da Helen Mirren e Taylor Hackford, che non finiremo mai di ringraziare».
- L’Alfa Romeo Giulia tra i muretti a secco
- La chiesa di San Domenico fa da sfondo a Ruote nella Storia
- Un momento della manifestazione svoltasi a Tricase
La domenica si è aperta presto in piazza Pisanelli, dove le vetture hanno fatto il loro ingresso per il raduno ufficiale.
I partecipanti hanno condiviso una colazione con degustazione del tradizionale pasticciotto, offerta dal Comune, prima di iniziare una passeggiata guidata nel centro storico
Successivamente la carovana ha attraversato il territorio in un percorso panoramico che ha toccato Andrano, Marina Serra e Tricase Porto, un paesaggio incantevole fatto di ulivi secolari, muretti a secco e masserie, fino a raggiungere la Quercia Vallonea, uno dei simboli naturalistici più imponenti del Salento.
L’itinerario ha ospitato due prove di avviamento alla regolarità: la prova a media denominata Vallonea, e la prova cronometrata Marina Serra.
Vincitore assoluto il leccese Flavio Greco, insieme a Maria Carla Fornari dominatore anche della prova a media a bordo della Fiat X 1/9 del 1973 di proprietà; sul podio anche Giuseppe Peschiulli, di Casarano, con Rossella Borgia su un’Alfa Romeo Giulia Spider del 1973 leader anche nella prova a tubi, e il barese Raffaele Tiberino con Luciana Pagliara su Alfa Romeo GT 2000 del 1973.
Il pranzo conviviale al ristorante Bellavista ha chiuso la manifestazione, con la consegna dei premi alle vetture più meritevoli e del Premio Speciale Lancia, assegnato alla Fulvia berlina del 1971 di Giovanni Tasco.
La targa del Lancia Club Italia ufficiale è stata consegnata da Pietro Iaquinta alla Beta Coupé del 1980 di Giuseppe Piscopo.
Una giuria di esperti ha conferito il premio Eleganza alla Aston Martin DB7 Volante, anno 1997, di proprietà di Livio Cesare Ziani, mentre la coppa per la storicità è stata assegnata alla Alfa Romeo Giulia Spider del 1964, guidata da Emilio Ampolo e Silvana Fuso.
Il premio simpatia, votato direttamente dai partecipanti, è stato conferito alla mitica Autobianchi “Bianchina” del 1963 di Emanuele Sergi.
- La Balilla
- L’Aurelia
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