Approfondimenti
Laudes ad Astra per i SS. Filippo e Giacomo
Alla fine di una intensa attività di scavo archivistico, individuati committenti ed artisti del coro (cantoria) e pulpito settecenteschi della chiesa di Diso. Al costo di 400 ducati…
«Sacro utriusque carmine Laudes ad astra tollimus» (traduzione «eleviamo al cielo, col sacro canto, le lodi di ambedue [gli Apostoli]»): recita così la prima strofa del Responsorio latino in onore dei Santi Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni e Protettori di Diso.
Anche se non conosciamo con estrema esattezza l’anno di nomina e di elezione dei due Apostoli a Patroni del paese (presumibilmente dai primi decenni del Settecento) la comunità di Diso da oltre tre secoli innalza ed eleva ai loro protettori le lodi più eccelse, espresse in canti e preghiere, culminanti il 1° maggio, giorno della loro festa solenne. Canti e preghiere elevati fino al cielo, dai fedeli congregati nelle assemblee liturgiche, dal coro parrocchiale, dal clero locale e dai tantissimi oratori e panegiristi che si sono avvicendati in occasione della loro festa.
Cantoria e pulpito sono stati finora gli elementi di decoro in queste meravigliose celebrazioni.
A proposito della cantoria un balzo di gioia ed esultanza in quel giorno di ottobre 2000 per la scoperta dell’artefice dell’organo della parrocchiale di Diso.
Quel documento inedito dell’archivio diocesano di Otranto che avevo tra le mani, in attesa di essere inventariato, rivelava la paternità dell’organo tardo ottocentesco a otto registri, opera del maestro barese Giuseppe Toselli.
In realtà si trattava di un inventario analitico dei beni mobili e stabili della parrocchiale di Diso redatto dall’arciprete pro tempore don Pietro Antonio Stasi.
La preziosa segnalazione, fino ad allora sconosciuta alla bibliografia locale, ha trovato degna pubblicazione nella mia monografia «Civium Patroni», edita da Pubbligraf nel 2001, pag. 94.
Dopo venti anni un’altra sorprendente ed inattesa scoperta: quella dell’artefice del coro, del pulpito, dei finestroni e della porta principale della nuova parrocchiale di Diso, componenti realizzati tra l’ottobre 1768 e la primavera del 1769.
L’intensa e proficua attività di scavo archivistico, effettuata presso l’Archivio di Stato di Lecce nei repertori notarili delle piazze di Diso, Spongano e Poggiardo, ha portato alla individuazione di un rogito del notaio Serafino Resce di Diso, datato 9 ottobre 1768 e avente per oggetto «Obbligatio ad invicem, inter Deputatos Ecclesiae Parocchialis Terrae Disi, et Benedictum dè Francesco. Albarano tra li Signori Deputati della Chiesa di Diso, e Maestro Benedetto dè Francesco di Lecce».
Immensa l’emozione di chi scrive nell’aver ritrovato «l’albarano» ossia il capitolato d’appalto per la realizzazione di alcune opere importanti nella nuova chiesa parrocchiale di Diso. In precedenza altri albarani erano emersi dalle carte notarili riguardanti la costruzione della chiesa parrocchiale di Surano, la realizzazione degli stalli in legno del coro delle parrocchiali di Spongano e Poggiardo.
I protocolli di Resce invece ci consegnano la paternità del coro di Diso, quella cantoria che sorregge l’organo del Toselli, e del pulpito che finalmente oggi hanno i nomi, quelli dei committenti e quello dell’ artefice che li ha realizzati. Il tutto a beneficio della comunità parrocchiale e in onore degli Apostoli Filippo e Giacomo.
I «deputati» eletti e nominati dal clero, dalla Municipalità e dal popolo di Diso fin dal 1758 per gestire tutte le operazioni di costruzione e completamento del nuovo edificio parrocchiale, erano lo stesso arciprete don Paolo Villani e il sacerdote dottor don Romualdo Longo. Con indescrivibile impegno, costanza ed enormi sacrifici i due deputati hanno seguito quotidianamente le fasi della riedificazione della chiesa (1758-1763) e successivamente quelle di completamento e arricchimento (altari, tele, arredi, suppellettili sacre e opere d’arte).
Dopo la realizzazione degli altari laterali della navata e dei due cappelloni laterali, assegnati e poi gestiti da alcune famiglie cospicue del paese, dalle Congregazioni laicali e dalle Opere Pie esistenti nella Parrocchia, i due amministratori provvedono agli elementi indispensabili per la celebrazione liturgica: porte, finestre, vetrate, coro e pulpito.
Per questa finalità si avvalgono della maestria di Benedetto De Francesco di Lecce, capo mastro falegname di una prestigiosa bottega leccese.
Convocato a Diso per il rogito davanti al notaio Resce, il maestro De Francesco riceve l’incarico per la realizzazione delle vetrate ai sedici finestroni della chiesa, per la porta maggiore, le due porte laterali della nave dell’edificio e infine per il coro e il pulpito in legno di abete.
Naturalmente nell’atto notarile sono ben distinte e dettagliate le singole voci.
A proposito del coro viene specificato che esso deve essere realizzato «in legno di apeto, à tenore del disegno che si conserva da detto Signor Arciprete…», come anche per il pulpito si precisa di costruirlo «à tenore della larchezza, e lunghezza richiede il luogo dove detto pulpito verrà situato, e fare tutti gli ornamenti, e cartocci necessari, e colorire a color di noce detti Coro, e pulpito, e darvi la vernice…».

In questa foto il pulpito ligneo realizzato dal maestro Benedetto dè Francesco di Lecce. nella foto grande in alto il particolare del pulpito con raffigurazione dello stemma civico di Diso e la data di realizzazione 1769 (foto di Filippo Cerfeda)
Come si può notare nessun elemento tecnico, artistico ed estetico viene trascurato, persino gli ornamenti «orecchiellati» del pulpito. Tutto viene perfettamente eseguito a regola d’arte in modo conforme alle precise disposizioni contenute nell’atto notarile. Addirittura sul pulpito il maestro De Benedetto cesella, su medaglione ligneo, lo stemma dell’Universitas (lo stemma cittadino) ossia l’agnello pasquale con la bandiera in bocca e la data di realizzazione: 1769.
Quale fu il costo complessivo di questa imponente commissione di lavoro assegnata al maestro leccese? Dagli accordi stipulati tra i deputati della fabbrica della chiesa e il maestro De Francesco risulta che l’importo totale era stato fissato per ducati 400, una somma considerevole per quei tempi.
Non va dimenticato che Diso e Spongano erano le parrocchie più popolate della minuscola diocesi di Castro che comprendeva ben quindici paesi, compresa la città di Castro.
La popolazione di Diso, di circa 800 abitanti in quegli anni, poteva permettersi una somma considerevole? I deputati però non hanno alcuna esitazione; sanno benissimo di poter contare sulla generosità dei cittadini, del clero locale, della Municipalità e del sostegno economico di alcune famiglie benestanti del luogo.
Garantiscono al maestro falegname una caparra di 15 ducati, versata in moneta d’argento, ed assicurano il restante pagamento «farlo giornalmente à tenore dell’opra, che si lavorerà».
Il tutto andrà a buon fine e nella primavera dell’anno successivo la nuova chiesa era dotata di porte, finestre, coro e pulpito.
Per la balaustra in pietra leccese che recinta tutta l’area presbiterale bisognerà attendere 30 anni.
L’ultimo pilastro in pietra leccese della balaustra reca infatti la data 1799.
Anni intensi e operosi quelli della seconda metà del Settecento, caratterizzati dalla intensità di fede e dalla fervente devozione verso i Santi Apostoli e Protettori Filippo e Giacomo ai quali, dopo la realizzazione del coro e del pulpito, si innalzarono costantemente dalla comunità di Diso «laudes ad astra».
Filippo Giacomo Cerfeda
Approfondimenti
Pompeo Maritati, “Quando i numeri si innamorano (e io ci casco)”
Oggi che sono in pensione, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo, ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”…
L’idea di questo libro nasce in un luogo che, a prima vista, sembrerebbe il meno romantico del mondo: una sala corsi di una grande banca italiana, illuminata da neon impietosi, con pile di dispense, calcolatrici scientifiche e tazzine di caffè che avevano visto giorni migliori.
Era verso la fine degli anni 90, e io, in giacca e cravatta, stavo tenendo un corso di matematica finanziaria a un gruppo di operatori bancari. L’argomento del giorno? Il calcolo delle rate di mutuo con il sistema cosiddetto “alla francese”.
Un nome che evoca baguette, bistrot e chanson d’amour, ma che in realtà nasconde una formula che farebbe piangere anche un ingegnere.
Eravamo immersi in coefficienti, tassi d’interesse, progressioni geometriche e quel misterioso “ammortamento” che, più che un piano di rimborso, sembrava una lenta agonia numerica. E proprio mentre stavo spiegando la logica dietro la distribuzione degli interessi nel tempo, uno degli uditori – un tipo sveglio, con l’aria di chi aveva già capito tutto, ma voleva vedere se anche io lo avevo capito se ne uscì con una frase che mi colpì come una freccia di Cupido: “È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”
Silenzio. Sorrisi. Qualche risatina. Io, ovviamente, feci il classico gesto da docente navigato: annuii con un mezzo sorriso, come a dire “bella battuta, ma torniamo seri”. E così fu. Riprendemmo la lezione, tornai a parlare di rate, di formule, di Excel. Ma quella sera, solo in albergo, mentre il minibar mi offriva una bottiglietta d’acqua a prezzo da champagne e la TV trasmetteva repliche di quiz dimenticati, quella frase tornò a bussare alla mia mente.
“È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”
Ma certo! Perché no? Perché non pensare che dietro le formule ci siano storie? Storie di attrazione, di repulsione, di corteggiamenti matematici, di triangoli amorosi (non solo geometrici), di numeri che si cercano, si sfuggono, si fondono. Un’idea folle, certo.
Accostare l’innamoramento, quel sentimento poetico, irrazionale, profondo, all’aridità dei numeri, che per definizione sono freddi, impersonali, astratti. Ma forse proprio per questo l’idea mi sembrava irresistibile.
Così iniziai a scrivere. A spizzichi e bocconi, tra una riunione e una trasferta, tra un bilancio e un report. Annotavo storielle, dialoghi, immagini. Immaginavo lo Zero e l’Uno in crisi di coppia, il Due che cerca equilibrio, il Pi greco che seduce tutti ma non si concede a nessuno. Poi, come spesso accade, la vita prese il sopravvento.
Gli impegni si moltiplicarono, le cartelle si accumularono, e quei fogli finirono in fondo a un cassetto. Lì rimasero, silenziosi, per anni. Fino a oggi.
Oggi che sono in pensione, e che ho tempo per ascoltare le idee che bussano piano, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo. Ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”
E così è nato questo libro. Un libro che non pretende di insegnare matematica, ma di farla sorridere. Un libro che non vuole dimostrare teoremi, ma raccontare storie. Un libro che, se tutto va bene, vi farà guardare i numeri con occhi nuovi.
Approfondimenti
Luglio 1931: “Quando a Tricase, sul Quadrano, c’erano le Colonie”
Una storia intrigante di un secolo fa: nasce su uno sperone roccioso, su uno dei più bei scorci di Tricase Porto. Da opificio per tabacchine a colonia, durante il fascismo; da casa al mare a discoteca nei anni 70…
di Ercole Morciano
La costruzione conosciuta col nome di “colonie” nasce a Tricase-Porto, sul promontorio del “Quadrano”, tra fine Ottocento e primi del Novecento, come magazzino per la prima lavorazione del tabacco in foglie per conto della ditta greca Hartog & C., proveniente da Salonicco, come quella dei f.lli Allatini.
Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.
Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.
Proprio da Tricase, dove le tabacchine erano le meno pagate della provincia e oberate dal cottimo, nel 1905 partì la protesta che infiammò tutta la Terra d’Otranto con uno sciopero che portò ad un lieve miglioramento delle paghe e all’abolizione del famigerato cottimo.

Le tabacchine di Tricase erano “toste” e il loro vessillo scarlatto, recuperato per merito del consigliere comunale socialista Luigi Cavalieri, è ora esposto nella sala consiliare di palazzo Gallone.Tutte le donne del popolo di Tricase erano all’epoca coraggiose e determinate: nel 1917, in piena prima guerra mondiale, sfidarono le dure leggi di guerra che punivano gli assembramenti e scesero in piazza per reclamare pane, pace, lavoro e il rientro dal fronte dei loro uomini, figli-mariti-fratelli-fidanzati.
Le ditte greche Allatini e Hartog, verosimilmente in seguito agli scioperi di cui sopra, decisero di vendere i loro stabilimenti tricasini mettendo fine ad un periodo che, pur foriero di benefici, si caratterizzava per la durezza con cui le lavoratrici venivano trattate e per lo sfruttamento cui erano sottoposte.
Quello dei F.lli Allatini fu acquistato nel 1909 dal neonato consorzio cooperativo, poi Acait, di cui diventò la sede, mentre quello della ditta Hartog, in Tricase-Porto, passò in proprietà della famiglia del direttore dell’Acait, dott. Filippo Nardi.
“Villa Nardi”, nel primo lustro degli anni ’30”, è denominato l’ex tabacchificio Hartog, costruito sullo sperone roccioso sovrastante la baia del “Quadrano” e caratterizzato da una vasta costruzione a piano terra, con vari ambienti adibiti alla lavorazione, al deposito, agli uffici e alle abitazioni.
Edificato con conci di carparo, volte a stella, vaste aree di pertinenza, su un sito tra i più panoramici di Tricase-Porto, l’ex tabacchificio, detto ufficialmente “Villa Nardi”, fu sede di colonie elio-talasso-terapiche durante il fascismo nel triennio 1932-34.
PERCHE’ LE COLONIE
Il regime fascista sosteneva il sorgere delle colonie estive per due ragioni: una di carattere socio-sanitario per prevenire e contrastare malattie dell’infanzia molto diffuse nelle classi popolari (rachitismo, tubercolosi, avitaminosi…) e l’altra di carattere propagandistico attinente l’educazione e la formazione dei cosiddetti coloni, “Balilla e Piccole Italiane”, ovviamente in gruppi separati, di forte impronta nazionalista, bellicista, con particolare riguardo al culto della personalità verso il dittatore Mussolini, in analogia con quanto avveniva già nella scuola di stato.
Nasce così nell’ispettore Valletta l’idea di impiantare una colonia estiva in provincia quale filiazione di quella laziale, molto lontana per mandarvi i ragazzi/e delle famiglie salentine.
Il 3 agosto 1932 egli riceve l’approvazione prefettizia che autorizza la Federazione Provinciale M.S. ad “aprire una colonia estiva per bambini/e di 7-12 anni, nella marina porto di Tricase, presso ‘Villa Nardi’ che sarà intitolata ad Achille Starace”.
Valletta nomina direttrice l’insegnante leccese, Giovanna Astore che il 15 agosto 1932, alle 8.15, prende in carico i “coloni” dalla stazione di Lecce per “rilevare gli altri lungo le fermate della linea Lecce-Zollino-Maglie-Tricase”.
COME FUNZIONAVANO LE COLONIE
Nell’Archivio di Stato di Lecce, tra le carte riguardanti la colonia di Tricase, si conservano l’elenco dei capi del corredo necessario, l’orario delle attività e la “vittizzazione”.
Orario: 6, sveglia; 6-7 pulizia personale; 7-7.30, primo pasto; 8-12, alla spiaggia; 12.30-13.30, secondo pasto; 13.30-16, ricreazione o riposo; 16-19, passeggiata e merenda; 19.30-20.00, terzo pasto; 20.15, silenzio.
Ai piccoli coloni verrà somministrata: la mattina, caffè-latte, marmellata e pane; a pranzo, minestra, pietanza, frutta e pane; per merenda, pane, marmellata, od altro; a cena, pietanza, formaggio od altro, frutta e pane.
Le carte d’archivio ci dicono che l’anno seguente la direzione passò al neo-presidente della Federazione di Lecce Michelangelo Sansonetti, che confermò il personale dell’anno precedente con i relativi incarichi.
Risulta anche che l’assistenza medica era prestata dal dott. Alessandro Caputo, mentre quella religiosa era assicurata dal parroco di Tricase Porto, don Michele Nuccio.
Dalla relazione finale del presidente, densa della reboante e pomposa retorica di regime, di cui si trascrivono alcuni stralci, si apprendono i particolari sulla vita della colonia: “educare i fascisti di domani come li vuole il DUCE [sic], sani, forti, disciplinati e pronti a tutto osare”; durante l’alzabandiera: “Gli occhietti [dei bambini] si levano, il braccio si alza nel saluto romano, e un nome vibra nel coro argentino; DUCE.
Mentre una folla di passanti sosta commossa, più che incuriosita, e riverente si scopre il capo” e si ferma finché non vede di bambini rientrare in colonia “marzialmente cantando Giovinezza”.
Le parole più altisonanti le troviamo nella esaltazione della figura di Benito Mussolini: “Finita la funzione religiosa, di ritorno [dalla chiesa] in colonia, i nostri bambini, dal canto sacro all’inno Giovinezza, passano tra due fitte ali di popolo, suscitando un delirio di entusiasmo per Colui che con tanto interesse e amore attende alla sanità della stirpe… il cui nome resta scolpito nel cuore di tutti…”.
GLI ABUSI
Non è possibile scrivere tutto per motivi di spazio, ma si apprende dalle relazioni archiviate che non mancavano gli abusi.
Approfondimenti
Aumenta la produzione dell’olio nostrano, ma la qualità come è?
I numeri, però, non sempre bastano ad un’analisi esaustiva. Ecco perché abbiamo coinvolto alcune aziende del territorio per comprendere i contorni della campagna olivicola di quest’anno…
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Confermato il previsto aumento della produzione di olio a livello nazionale di circa il 30% rispetto all’annata precedente. La nuova annata sembrerebbe buona per qualità, con il novello già disponibile.
Buona qualità anche in Salento
La resa è influenzata dalla diminuzione della produzione (-30/40% in Puglia e circa il 20% in provincia di Lecce) ma con un aumento della qualità (e anche dei prezzi). La resa media in olio da olive varia dal 13% al 20%, ma il dato complessivo della produzione è in calo rispetto alle annate precedenti, in linea con quanto previsto da Confagricoltura.
Nel panorama complessivo, bisogna considerare che l’andamento climatico sfavorevole ha inciso in modo pesante sulla produzione di olive. Nei primi giorni di aprile, infatti, una serie di gelate improvvise ha colpito molte aree olivicole, compromettendo gran parte dei bottoni fiorali (mignole) e vanificando in buona parte le potenzialità produttive. Secondo le prime valutazioni tecniche, la flessione produttiva potrebbe essere legata anche a fattori varietali.
In particolare, la cultivar FS-17 (la “Favolosa”), che inizialmente presentava una buona prospettiva di raccolto, ha subito un crollo quasi totale della produzione a causa della cascola dei fiori non ancora aperti, verificatasi subito dopo le gelate.
I numeri, però, non sempre bastano ad un’analisi esaustiva. Ecco perché abbiamo coinvolto alcune aziende del territorio per comprendere i contorni della campagna olivicola di quest’anno.
Giacomo Palese, amministratore de L’Olivicola di Presicce–Acquarica, precisa: «La nostra è un’azienda produttrice di olive da mensa e stiamo riscontrando un’ottima qualità». Riguardo alle differenze, «le ritroviamo in termini di quantità, quest’anno abbiamo meno frutto». Gli operatori del settore salentini hanno dovuto fare i conti con le conseguenze della Xylella che «ha avuto un impatto significativo sulla nostra azienda, ha rappresentato una svolta difficile e ha messo a dura prova la sostenibilità economica, obbligandoci a ripensare completamente il modello di business. Abbiamo dovuto reinventarci e diversificare la produzione. Non potendo più contare sulle nostre olive abbiamo iniziato ad acquistare da altri produttori, mossa che ci ha permesso di mantenere una produzione continua e ci ha anche spinto a esplorare nuove strade. Un cambiamento rilevante e significativo è stata l’introduzione di nuovi prodotti come i sott’oli che in passato non trattavamo. Tale diversificazione ci ha aperto nuovi canali di mercato, diversi da quelli che conoscevamo, e ha comportato costi aggiuntivi e la necessità di finanziare nuove attività: importanti investimenti, la necessità di accedere a nuovi finanziamenti esterni e un maggiore impegno nella gestione del credito, parliamo di un accesso al credito più mirato per finanziare questi investimenti iniziali. Un percorso impegnativo che ci ha permesso di trattare prodotti che diversamente forse non avremmo trattato. Sebbene le sfide siano state tante, siamo riusciti a trovare opportunità che, a lungo termine, potrebbero rivelarsi vantaggiose per la sostenibilità economica dell’azienda. Oggi, dopo anni, siamo tornati alla lavorazione delle olive grazie ai vari reimpianti effettuati. Abbiamo reimpiantato olive leccino, perché lavorando olive da tavola riteniamo che tale cultivar sia un ottimo prodotto da mensa. Nonostante le difficoltà», conclude Palese, «questo percorso di trasformazione ci ha reso più resilienti e pronti ad affrontare sfide future».
Anche Pierangelo Tommasi di Olio Biologico Moruse di Calimera, conferma «un prodotto dalla qualità eccellente anche perché siamo stati risparmiati dall’attacco della “Mosca”». Le differenze rispetto all’anno scorso «sono notevoli ma le piante crescono di anno in anno e iniziano a produrre un po’ di più. Parliamo, però, di numeri minimi rispetto a dieci anni fa: da allora la sostenibilità economica è completamente cambiata. Prima si poteva vivere di agricoltura, adesso sono soprattutto spese. Nella speranzosa attesa di tornare ad avere i profitti di una decina di anni fa».
Nel frattempo, anche nella azienda di Calimera hanno «impiantato le varietà di Leccino e Favolosa, per la precisione 80% della prima e 20% della seconda». Colta al volo l’occasione per variegare la produzione: «Già da 4-5 anni stiamo curando una cultura di avocado. Per ora solo un piccolo appezzamento ma stiamo provvedendo ad estendere la produzione su un altro ettaro e mezzo».
Quintino Palma del Frantoio Palma di Cursi ricorda che «la raccolta 2025 è stata colpita da una gelata durante il periodo della fioritura, provocando un calo nella produzione che resta, comunque, sufficiente per un raccolto di buona qualità».
Rispetto all’ annata scorsa Palma rileva «un leggero calo di produzione sufficiente, però, a garantire il prodotto fino alla prossima campagna olearia».
Poi aggiunge: «Al momento abbiamo quasi completato i reimpianti mettendo a dimora varietà Favolosa, Leccina e Leccio del Corno (avevamo già olivi di Leccino di circa 30 anni). Purtroppo, la Xylella ha causato un crollo della redditività dell’azienda. Anche se sono stati erogati degli aiuti per i reimpianti, bisogna considerare che occorrono diversi anni prima che le piante raggiungano un target accettabile di produzione, di conseguenza siamo ancora in piena crisi. Fortunatamente», conclude Palma, «l’azienda si occupa anche di effettuare reimpianti olivicoli “chiavi in mano” per sopperire al calo di reddito post Xylella».
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