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Islam, l’altra metà della fede

Musulmani in Salento, Pochi luoghi di culto per una fede relegata ancora alle zone d’ombra ed all’autogestione. L’imam di Lecce: «Coltiviamo la convivialità delle differenze». E poi: «Chi sceglie di vivere in Salento sa che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria e separarsi per sempre dai propri cari, a causa dell’assenza di uno spazio cimiteriale islamico»

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di Lorenzo Zito


Non esiste un dato esatto in grado di dirci quanti siano i musulmani in provincia di Lecce; tuttavia, la comunità islamica salentina è in crescita.


L’ultimo censimento risale al 2014, ma resta non del tutto attendibile: all’epoca, furono conteggiati i cittadini provenienti da Paesi islamici e soggiornanti Salento.


Un dato non proprio ortodosso, visto che la provenienza di per sé non rappresenta un passaporto del credo. Sta di fatto che il numero, stabilito in 22mila fedeli, era già di per sé considerevole.


Ci ha parlato di questo dato Saifeddine Maaroufi, imam della comunità islamica di Lecce.


A lui ci siamo rivolti per analizzare la presenza e la vita musulmana in Salento.


Partendo da un punto di domanda: come mai se negli ultimi anni gli arrivi di stranieri sono aumentati (questo sì, lo raccontano i numeri) e molte famiglie musulmane si sono stabilizzate sul territorio, i luoghi di culto continuano ad essere pochi, insufficienti, piccoli e spesso improvvisati?


Facciamo prima un passo indietro, partendo dalla figura dell’imam di Lecce.


Signor Maaroufi, come è iniziata la sua storia in Salento?


«Sono a Lecce da 13 anni, nonostante la mia permanenza sia iniziata quasi per caso. Sono tunisino, vengo da una formazione medica ed ho studiato anche scienze religiose. Durante gli studi, in Tunisia, lavoravo in un call center. Un giorno fui mandato in Italia per fare da formatore ai nuovi operatori che avrebbero lavorato nella nuova sede dislocata di Lecce. Mentre ero qui, in Tunisia scoppiò la Rivoluzione dei Gelsomini, che mi impedì di fare rientro a casa. Da allora mi stabilizzai a Lecce. In seguito, mi ha raggiunto anche la mia famiglia e poi, da un dialogo con la comunità islamica locale, complici i miei studi in scienze religiose, nel 2011 fui scelto come guida spirituale di Lecce».


Chi non conosce la figura dell’imam la immagina un po’ come un vescovo. È corretto?


«Spesso ho riscontrato anch’io come venga fatto questo accostamento, nel tentativo di provare a comprendere meglio questo ruolo. In realtà è qualcosa di diverso, perché nell’Islam non c’è un Clero con una sua struttura gerarchica. Per questo accade che nei Paesi arabi le moschee sono sotto la tutela dello Stato, ed anche il ruolo dell’imam passa da un controllo in un certo senso istituzionale.

Nei Paesi occidentali, come l’Italia, invece, dove tutto questo manca, la scelta dell’imam spetta alla comunità ed è molto legata alle sue conoscenze in ambito religioso. Nel mio caso, poi, pesò anche il fatto che fossi in grado di parlare più lingue, un elemento importante in un territorio che raggruppa fedeli di provenienza eterogenea. Tornando al paragone con la Chiesa va specificato che, nonostante io venga spesso sollecitato a rappresentare pubblicamente la comunità musulmana di tutta Lecce e provincia, non esiste una regola che preveda un ruolo di questo tipo o delle posizioni di subordinazione nei confronti della mia figura».


Qual è la geografia dei luoghi di culto islamici in provincia di Lecce?


«Le moschee presenti in provincia, fuori dalla città di Lecce, sono quattro. Tutte prevalentemente frequentate da fedeli di origine marocchina, infatti la loro esistenza è legata proprio alla presenza di grandi nuclei marocchini che popolano ormai da decenni questi territori. La più vecchia è a Corigliano d’Otranto. Una stanza molto piccola ma che resiste al passare del tempo: è stata aperta negli anni ’80. Un’altra è a Ruffano, dove da lungo tempo si sono stabilizzate tante famiglie di commercianti, anch’essi marocchini. Poi c’è Spongano, paese dove vivono tanti fedeli musulmani impiegati nel mondo dell’edilizia. Qui l’integrazione è passata dal mondo dello sport, attraverso un lungo percorso partito negli anni ‘90 con un’associazione il cui nome, in italiano, significa “I giovani”. Ed infine la moschea di Porto Cesareo, che in questo momento si è trasferita a Veglie. Quest’ultima ha una peculiarità: essendo legata alla natura turistica del luogo, in estate accoglie tanti fedeli che arrivano sul posto per lavorare come venditori ambulanti. A Lecce invece esistono due moschee. Una è nata da poco, sia per dare risposta alla grande richiesta di luoghi di preghiera (i musulmani in città sono circa 7mila) sia per servire una zona scoperta. L’altra è quella in cui mi sono insediato io nel 2011.

Al mio arrivo eravamo in una piccola sala, in uno spazio concesso dal Comune nella zona 167/B. Nel 2014, con un’apposita colletta, abbiamo raggiunto i fondi necessari ed acquistato una palazzina a due piani nel quartiere San Pio.

La nostra moschea oggi è qui: abbiamo scelto questa zona perché è il quartiere multietnico per eccellenza di Lecce e volevamo essere il più possibile vicini alla comunità musulmana.

Abbiamo una grande sala di preghiera, una sala per le donne, dedichiamo degli spazi ai corsi di lingua araba per bambini ed apriamo le porte anche a chi professa altre fedi, per favorire la conoscenza reciproca. Durante il Ramadan, ogni sera accogliamo circa 70 fedeli che vengono a rompere il digiuno in compagnia».


Come mai ci sono così poche moschee sul territorio?

«La presenza di una moschea è legata alla spontanea iniziativa dei cittadini di fede musulmana. Il contesto non sempre aiuta a compiere questo passo, soprattutto dal punto di vista burocratico. La nostra religione non è riconosciuta ufficialmente dallo stato, nonostante in Italia vi siano oltre 2 milioni di musulmani (quasi la metà italiani). Questo ha delle conseguenze pratiche che vanno, ad esempio, dal non potersi assentare dal lavoro per celebrare i giorni di festa islamici, perché non riconosciuti, al dover utilizzare canali non convenzionali per praticare le attività di culto. Accade allora che, proprio per quanto detto, le moschee sul territorio nascono dall’impegno di associazioni fondate musulmani che però, su carta, sono costrette ad avere finalità diverse da quelle reali, agendo in una sorta di zona grigia».


Le istituzioni locali aiutano? Le amministrazioni vengono incontro alla comunità islamica?


«Non sempre, o non abbastanza. Prevale l’ottica utilitaristica. Troppe volte si sente dire “quanti sono i musulmani che votano nella nostra città?”.

Senza il voto, non si ha peso civile nelle scelte e viene meno l’ascolto delle istituzioni. Anche molte amministrazioni che condividono quelle idee che vengono incontro ai bisogni della comunità islamica finiscono per non far nulla, per paura di esporsi a critiche. Per fortuna, l’apertura mentale dei salentini compensa, mantenendo questa una terra d’accoglienza».


Come vivono in Salento i cittadini stranieri musulmani?


«La “convivialità delle differenze” professata da Don Tonino Bello ha fatto breccia nel cuore dei salentini, che da decenni accolgono i fratelli musulmani che arrivano da ogni dove.

Ricordo gli anni in cui gli attentati terroristici nelle grandi città europee avevano seminato panico e islamofobia: anche allora i salentini ci sono stati vicini, perché hanno imparato a conoscere le persone. Il fatto stesso che non esistano quartieri ghetto nel nostro territorio è segno e strumento di convivialità.

Lo straniero qui è il vicino di casa o il commerciante del mercato cui ci si rivolge ogni settimana. Non è un caso se tante famiglie straniere hanno messo radici in Salento, fermando qui quel viaggio migratorio che molte volte prosegue verso il nord Europa o, ancora, spegnendo il sogno del rientro in patria».


Lontano da casa, arrivati qui in Italia, come cambia il rapporto con la fede? Si affievolisce o aumenta?


«Molto spesso cresce. È come se fosse un tratto identitario che, a maggior ragione lontano dalla propria terra, i fedeli vogliono preservare. Vedo tanti giovani avvicinarsi molto di più alla fede dopo esser arrivati in Italia. Questo è uno degli elementi che, qui in Salento, ha reso la

nostra una comunità religiosa salda».


E il rapporto con la Chiesa cattolica?


«È ottimo, c’è un bel dialogo. La Chiesa è impegnata anche nelle attività di prima accoglienza, e questo è un elemento che genera un proficuo contatto sin dall’arrivo del migrante».


Cosa manca, cosa cambieresti sul lato pratico e su quello umano?


«Su quello umano coltiverei ancora l’ascolto per incentivare ulteriormente la vicinanza tra le comunità.

Su quello pratico ci sarebbe molto da fare. Partirei sicuramente dalla possibilità di avere uno spazio cimiteriale islamico. A Lecce e provincia non ve ne sono. Il più vicino è nel Barese. È una grande mancanza che si porta dietro un grande dolore per le famiglie musulmane. Chi sceglie di vivere in Salento lo fa nella consapevolezza che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria. Questo, oltre a comportare delle spese elevate e delle procedure non semplici, significa doversi separare per sempre dalla propria famiglia che ha messo radici in questa splendida terra».


L’Islam e il Salento, l’analisi del prof. Hervé Cavallera, clicca qui


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Vittoria annunciata e confermata per Decaro. Affluenza al ribasso: e ora?

Credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema: come mai tanta gente non va più a votare. E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?

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di Luigi Zito 

Si sono da poco chiuse le urne per le elezioni Regionali in Puglia, l’affluenza in picchiata, come tutte le stime lasciavamo intendere, si è attestata al 41,85%, cinque anni fa al voto partecipò il 56,4 per cento degli elettori.

In Puglia si è registrata la più bassa affluenza di sempre, anche meno delle stesse Regioni dove ieri e oggi si è votato: Campania e Veneto.

La provincia dove si è votato di più è stata Lecce, con una affluenza del 44%; Taranto con 40,60%, Bari 41,31%, Brindisi 41,94%, BAT 41,22, la peggiore Foggia con poco più del 38%.

Le proiezioni non lasciano spazio a “ribaltoni” di sorta.

Antonio Decaro, nuovo Governatore di Puglia

Antonio Decaro è dato al 70% non raggiungerebbe il 30% Lobuono che ha già ammesso la sconfitta.

Secondo l’instant poll YouTrendper Sky TG24, nel campo progressista guidato da Antonio Decaro Partito Democratico si attesterebbe tra il 25% e il 29%, seguito dalla lista «Decaro Presidente» stimata tra 11,5% e 15,5%.

Le altre liste della coalizione oscillano tutte tra il 6% e l’8% per «Per la Puglia» e Movimento 5 Stelle, tra il 4% e il 6% per Verdi-Sinistra e tra l’1% e il 3% per i Popolari.

Sul fronte del centrodestra, Luigi Lobuono registra Fratelli d’Italia tra il 18% e il 22%, Forza Italia tra l’8% e l’11% e la Lega tra il 3,5% e il 5,5%.

Le liste minori della coalizione – Noi Moderati, Civici e Sud al Centro – sono tutte comprese tra 0% e 2%.

Ora che la frittata è stata fatta, sarebbe opportuno che qualcuno dei nostri politici ci spiegasse come mai meno di un pugliese su due non si è sentito ispirato nell’andare a votare.

Quali sono i veri motivi: disaffezione alla vita pubblica; poca pubblicità; istituzioni lontane dai cittadini; politici ibernati nelle torri d’avorio; consiglieri regionali poco attenti al territorio ed ai veri problemi dei pugliesi, sanità alla stremo (nella puntata di ieri di Report, la Puglia è ultima nella classifica nazionale per i tempi di attesa delle prenotazioni mediche)?

Ora credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema, la nostra non è una di quelle Regioni democraticamente avanzate (come la Svizzera ad esempio), dove ogni 3 x2 ogni quesito viene posto al popolo che, incalzato da tanta sollecitazione, non va più a votare.

E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?

Sembra, ormai, che l’unico compagno che mai ci abbandona e ci delude nella nostra vita sia il disprezzato cellulare che monitora ogni respiro della nostra giornata: non sarebbe meglio (forse) iniziare a pensare ad un sistema di voto elettronico, in cui ogni votazione, registrazione e conteggio dei voti avviene tramite strumenti digitali?

I vantaggi sarebbero tanti: la velocità del conteggio, la comodità di votare ovunque, si risieda in città o meno, all’estero o in qualsiasi altra parte del mondo; una maggiore possibilità e facilità di far votare persone con disabilità; il risparmio di carta e varie.

Certo le criticità viaggiano alla stessa velocità del web: il rischio di attacchi hacker; la poca affidabilità di molti aggeggi elettronici; garantire la Privacy per tutti (sappiamo bene cosa succede con le fastidiose telefonate dei call che tutti riceviamo sul telefono), e poi la sicurezza.

Ogni innovazione ha pregi e difetti, leggi i Paesi dove hanno già sperimentato il voting, come l’Estonia, il Brasile o l’India che hanno fatto di necessità virtù utilizzando questa novità tecnologica.

Se non iniziamo a pensarci da subito si rischia che, alle prossime elezioni (qualsiasi esse siano), oltre alla penuria di votanti ci ritroveremo anche con Candidati consiglieri e Presidenti eletti che non rappresentano (di fatto) la maggioranza delle volontà dei pugliesi e, se tanto mi dà tanto, tanto vale affidarci alla Dea bendata e sceglierli dal mazzo con una estrazione, risparmieremmo tempo e salute.

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Pompeo Maritati, “Quando i numeri si innamorano (e io ci casco)”

Oggi che sono in pensione, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo, ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”…

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L’idea di questo libro nasce in un luogo che, a prima vista, sembrerebbe il meno romantico del mondo: una sala corsi di una grande banca italiana, illuminata da neon impietosi, con pile di dispense, calcolatrici scientifiche e tazzine di caffè che avevano visto giorni migliori.

Era verso la fine degli anni 90, e io, in giacca e cravatta, stavo tenendo un corso di matematica finanziaria a un gruppo di operatori bancari. L’argomento del giorno? Il calcolo delle rate di mutuo con il sistema cosiddetto “alla francese”.

Un nome che evoca baguette, bistrot e chanson d’amour, ma che in realtà nasconde una formula che farebbe piangere anche un ingegnere.

Eravamo immersi in coefficienti, tassi d’interesse, progressioni geometriche e quel misterioso “ammortamento” che, più che un piano di rimborso, sembrava una lenta agonia numerica. E proprio mentre stavo spiegando la logica dietro la distribuzione degli interessi nel tempo, uno degli uditori – un tipo sveglio, con l’aria di chi aveva già capito tutto, ma voleva vedere se anche io lo avevo capito se ne uscì con una frase che mi colpì come una freccia di Cupido: “È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Silenzio. Sorrisi. Qualche risatina. Io, ovviamente, feci il classico gesto da docente navigato: annuii con un mezzo sorriso, come a dire “bella battuta, ma torniamo seri”. E così fu. Riprendemmo la lezione, tornai a parlare di rate, di formule, di Excel. Ma quella sera, solo in albergo, mentre il minibar mi offriva una bottiglietta d’acqua a prezzo da champagne e la TV trasmetteva repliche di quiz dimenticati, quella frase tornò a bussare alla mia mente.

“È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Ma certo! Perché no? Perché non pensare che dietro le formule ci siano storie? Storie di attrazione, di repulsione, di corteggiamenti matematici, di triangoli amorosi (non solo geometrici), di numeri che si cercano, si sfuggono, si fondono. Un’idea folle, certo.

Accostare l’innamoramento, quel sentimento poetico, irrazionale, profondo, all’aridità dei numeri, che per definizione sono freddi, impersonali, astratti. Ma forse proprio per questo l’idea mi sembrava irresistibile.

Così iniziai a scrivere. A spizzichi e bocconi, tra una riunione e una trasferta, tra un bilancio e un report. Annotavo storielle, dialoghi, immagini. Immaginavo lo Zero e l’Uno in crisi di coppia, il Due che cerca equilibrio, il Pi greco che seduce tutti ma non si concede a nessuno. Poi, come spesso accade, la vita prese il sopravvento.

Gli impegni si moltiplicarono, le cartelle si accumularono, e quei fogli finirono in fondo a un cassetto. Lì rimasero, silenziosi, per anni. Fino a oggi.

Oggi che sono in pensione, e che ho tempo per ascoltare le idee che bussano piano, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo. Ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”

E così è nato questo libro. Un libro che non pretende di insegnare matematica, ma di farla sorridere. Un libro che non vuole dimostrare teoremi, ma raccontare storie. Un libro che, se tutto va bene, vi farà guardare i numeri con occhi nuovi.

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Luglio 1931: “Quando a Tricase, sul Quadrano, c’erano le Colonie”

Una storia intrigante di un secolo fa: nasce su uno sperone roccioso, su uno dei più bei scorci di Tricase Porto. Da opificio per tabacchine a colonia, durante il fascismo; da casa al mare a discoteca nei anni 70…

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di Ercole Morciano

La costruzione conosciuta col nome di “colonie” nasce a Tricase-Porto, sul promontorio del “Quadrano”, tra fine Ottocento e primi del Novecento, come magazzino per la prima lavorazione del tabacco in foglie per conto della ditta greca Hartog & C., proveniente da Salonicco, come quella dei f.lli Allatini.

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi. 

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.

Proprio da Tricase, dove le tabacchine erano le meno pagate della provincia e oberate dal cottimo, nel 1905 partì la protesta che infiammò tutta la Terra d’Otranto con uno sciopero che portò ad un lieve miglioramento delle paghe e all’abolizione del famigerato cottimo. 


Le tabacchine di Tricase erano “toste” e il loro vessillo scarlatto, recuperato per merito del consigliere comunale socialista Luigi Cavalieri, è ora esposto nella sala consiliare di palazzo Gallone.Tutte le donne del popolo di Tricase erano all’epoca coraggiose e determinate: nel 1917, in piena prima guerra mondiale, sfidarono le dure leggi di guerra che punivano gli assembramenti e scesero in piazza per reclamare pane, pace, lavoro e il rientro dal fronte dei loro uomini, figli-mariti-fratelli-fidanzati.

Le ditte greche Allatini e Hartog, verosimilmente in seguito agli scioperi di cui sopra, decisero di vendere i loro stabilimenti tricasini mettendo fine ad un periodo che, pur foriero di benefici, si caratterizzava per la durezza con cui le lavoratrici venivano trattate e per lo sfruttamento cui erano sottoposte. 

Quello dei F.lli Allatini fu acquistato nel 1909 dal neonato consorzio cooperativo, poi Acait, di cui diventò la sede, mentre quello della ditta Hartog, in Tricase-Porto, passò in proprietà della famiglia del direttore dell’Acait, dott. Filippo Nardi.

“Villa Nardi”, nel primo lustro degli anni ’30”, è denominato l’ex tabacchificio Hartog, costruito sullo sperone roccioso sovrastante la baia del “Quadrano” e caratterizzato da una vasta costruzione a piano terra, con vari ambienti adibiti alla lavorazione, al deposito, agli uffici e alle abitazioni.

Edificato con conci di carparo, volte a stella, vaste aree di pertinenza, su un sito tra i più panoramici di Tricase-Porto, l’ex tabacchificio, detto ufficialmente “Villa Nardi”, fu sede di colonie elio-talasso-terapiche durante il fascismo nel triennio 1932-34.

PERCHE’ LE COLONIE

Il regime fascista sosteneva il sorgere delle colonie estive per due ragioni: una di carattere socio-sanitario per prevenire e contrastare malattie dell’infanzia molto diffuse nelle classi popolari (rachitismo, tubercolosi, avitaminosi…) e l’altra di carattere propagandistico attinente l’educazione e la formazione dei cosiddetti coloni, “Balilla e Piccole Italiane”, ovviamente in gruppi separati, di forte impronta nazionalista, bellicista, con particolare riguardo al culto della personalità verso il dittatore Mussolini, in analogia con quanto avveniva già nella scuola di stato.

A Tricase-Porto vi erano state colonie elioterapiche già negli anni ’20; questa storia inizia invece nel luglio 1931 con una visita alla Colonia di Terracina, provincia di Littoria (ora Latina), dell’ispettore scolastico Raffele Valletta, presidente della Federazione della Mutualità scolastica della provincia di Lecce.

Nasce così nell’ispettore Valletta l’idea di impiantare una colonia estiva in provincia quale filiazione di quella laziale, molto lontana per mandarvi i ragazzi/e delle famiglie salentine.

Il 3 agosto 1932 egli riceve l’approvazione prefettizia che autorizza la Federazione Provinciale M.S. ad “aprire una colonia estiva per bambini/e di 7-12 anni, nella marina porto di Tricase, presso ‘Villa Nardi’ che sarà intitolata ad Achille Starace”. 

Valletta nomina direttrice l’insegnante leccese, Giovanna Astore che il 15 agosto 1932, alle 8.15, prende in carico i “coloni” dalla stazione di Lecce per “rilevare gli altri lungo le fermate della linea Lecce-Zollino-Maglie-Tricase”.

COME FUNZIONAVANO LE COLONIE

Nell’Archivio di Stato di Lecce, tra le carte riguardanti la colonia di Tricase, si conservano l’elenco dei capi del corredo necessario, l’orario delle attività e la “vittizzazione”. 

Orario: 6, sveglia; 6-7 pulizia personale; 7-7.30, primo pasto; 8-12, alla spiaggia; 12.30-13.30, secondo pasto; 13.30-16, ricreazione o riposo; 16-19, passeggiata e merenda; 19.30-20.00, terzo pasto; 20.15, silenzio. 

Ai piccoli coloni verrà somministrata: la mattina, caffè-latte, marmellata e pane; a pranzo, minestra, pietanza, frutta e pane; per merenda, pane, marmellata, od altro; a cena, pietanza, formaggio od altro, frutta e pane. 

Le carte d’archivio ci dicono che l’anno seguente la direzione passò al neo-presidente della Federazione di Lecce Michelangelo Sansonetti, che confermò il personale dell’anno precedente con i relativi incarichi.  

Risulta anche che l’assistenza medica era prestata dal dott. Alessandro Caputo, mentre quella religiosa era assicurata dal parroco di Tricase Porto, don Michele Nuccio. 

Dalla relazione finale del presidente, densa della reboante e pomposa retorica di regime, di cui si trascrivono alcuni stralci, si apprendono i particolari sulla vita della colonia: “educare i fascisti di domani come li vuole il DUCE [sic], sani, forti, disciplinati e pronti a tutto osare”; durante l’alzabandiera: “Gli occhietti [dei bambini] si levano, il braccio si alza nel saluto romano, e un nome vibra nel coro argentino; DUCE. 

Mentre una folla di passanti sosta commossa, più che incuriosita, e riverente si scopre il capo” e si ferma finché non vede di bambini rientrare in colonia “marzialmente cantando Giovinezza”. 

Le parole più altisonanti le troviamo nella esaltazione della figura di Benito Mussolini: “Finita la funzione religiosa, di ritorno [dalla chiesa] in colonia, i nostri bambini, dal canto sacro all’inno Giovinezza, passano tra due fitte ali di popolo, suscitando un delirio di entusiasmo per Colui che con tanto interesse e amore attende alla sanità della stirpe… il cui nome resta scolpito nel cuore di tutti…”. 

GLI ABUSI

Non è possibile scrivere tutto per motivi di spazio, ma si apprende dalle relazioni archiviate che non mancavano gli abusi.

Per esempio, “quando veniva l’ispettore della Mutualità, Pomarici, il pranzo era a base di aragoste che non dovevano mai mancare sulla mensa e altre ne faceva comprare, a spese della direttrice, da portare a casa”.
La direttrice poi abitava in colonia con i suoi 4 figli e tutti “si trattavano molto bene in quanto che staccavano i migliori pezzi della carne acquistata per i coloni e se la preparavano secondo i loro gusti”.
E tutto questo nonostante i controlli a sorpresa, un giorno alla settimana, del presidente Sansonetti che lasciava il figlio in colonia per vigilare: ma la direttrice “approfittava della poca esperienza del giovane” tanto che un suo “conoscente venne ad abitare nella colonia in una delle stanze riserbate alla vedova Nardi [Maria Raeli], al quale veniva somministrato clandestinamente il vitto della colonia”.
FINO A QUANDO FUNZIONO’ LA COLONIA
La colonia funzionò anche nel 1934 e doveva proseguire anche nell’anno seguente perché i moduli per l’iscrizione furono inviati dal presidente Sansonetti ai comuni della provincia l’1 maggio del 1935.
Se non che, di lì a poco, il 15 maggio, si ebbe a Tricase la rivolta, con lo sciopero delle tabacchine, la morte di 5 persone, gli arresti e tutto il resto e pertanto non risulta che quell’anno la colonia si sia tenuta.
Il fabbricato delle “colonie”, nella seconda metà degli anni ’30, cambiò di proprietà perché allo scoppio della guerra mondiale, nel giugno 1940, venne requisito per fini bellici ai nuovi proprietari: Adriana Contegiacomo in Cortese e Donato Antonaci-Dell’Abate ai cui eredi, salvo le alienazioni intercorse, appartiene ancora oggi.
Purtroppo non andarono in porto i tentativi per fare dei fabbricati una struttura turistica ma si ricorda che, nella parte Contegiacomo-Cortese, dove dal dopoguerra in poi abitarono d’estate non poche famiglie tricasine, ha funzionato negli anni ’70 una discoteca (Le Palme) molto frequentata dai giovani per ballare e ascoltare musica all’aperto, in uno dei luoghi più suggestivi di Tricase.
Ringrazio di cuore il collezionista Mario Scorrano per la foto inedita e per le carte datemi in visione.
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