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Attualità

Xylella: “Per il Salento ormai è tardi”

Il prof. Luigi De Bellis. L’ex direttore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali (DiSTeBA) dell’Università del Salento: «L’unica via quella di colture diverse»

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Esclusiva dal nostro ultimo numero cartaceo


Com’è arrivato il batterio nel Salento? È stato fatto tutto il possibile per salvare i nostri ulivi. Esiste ancora un margine di intervento. Di questo e di tutta la questione Xylella  ne abbiamo parlato con il prof. Luigi De Bellis, ex direttore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali (DiSTeBA) dell’Università del Salento


Dopo tanti anni possiamo dire con certezza come ha avuto inizio la fine dei nostri ulivi con la Xylella? Come è arrivato il batterio nel Salento?


«Piante infette provenienti dal Sud America hanno permesso l’ingresso del batterio nel Salento, dove ha trovato un ambiente favorevole nella ampia (quasi) monocoltura di olivo, pianta non solo suscettibile, ma durante l’estate anche una tra le più disponibili piante “verdi” sulle quali possono andare a nutrirsi le sputacchine, gli insetti vettori. Comunque, la fine dei nostri olivi non è ancora scritta, molti spariranno ma la natura, magari con l’aiuto dell’uomo e delle Istituzioni, provvederà a far tornare fiorenti e produttivi oliveti entro qualche decennio. Già ora sono state individuate varietà “resistenti” che subiscono l’infezione, ma manifestano nel tempo sintomi ridotti, sono ‘Leccino’ e ‘FS-17’ (nota anche come ‘Favolosa’). Queste varietà sono autorizzate e possono essere utilizzate per nuovi impianti».


Salvatore Infantino, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, ha dichiarato poche settimane fa che la “sputacchina” propagherebbe velocemente la Xylella perché portata in giro dai copertoni di camion e autovetture. Secondo lei è possibile?


«Difficile che siano i pneumatici a diffondere in modo veloce o massale le sputacchine, gli insetti dovrebbero rimanere attaccati all’interno delle scanalature dei pneumatici, evitando di essere schiacciati, e pazientemente attendere che il veicolo si fermi per uscire dal nascondiglio al momento opportuno. Vero comunque che le sputacchine possono posarsi sui vestiti, tra i capelli ed essere trasportati all’interno di auto, ma in assenza di risultati scientifici consolidati il fenomeno di diffusione degli insetti in questo modo non può che essere considerato di limitata importanza.


Il fatto che un maggior numero di piante infette sia stato individuato lungo le strade principali e secondarie può essere legato semplicemente alle modalità di campionamento delle piante, i campionatori si muovono ovviamente lungo le strade ed è più probabile la selezione di piante più vicine alle sedi stradali piuttosto che a maggiore distanza.


Infine, se fosse accertato il ruolo dei pneumatici nel trasporto delle sputacchine, occorrerebbe sanificare i pneumatici delle auto dei campionatori e dei furgoni per la distribuzione dei campioni di piante ai laboratori che effettuano le analisi, e soprattutto, in ottemperanza al principio di precauzione che funge da guida nel contrasto alla Xylella, sarebbe necessario limitare il trasporto dei campioni esclusivamente verso laboratori posizionati in zona infetta o comunque molto prossimi ad essa per evitare di diffondere accidentalmente il patogeno in aree ancora indenni».


All’inizio sembrava quasi un problema circoscritto ad una limitata area geografica poi il patogeno batterico ha attecchito ovunque invadendo tutto il Salento, inteso come province di Lecce, Brindisi e Taranto (quasi tutta) e arrivando anche nel barese. Davvero non si poteva fare nulla quando ancora interessava solo pochi alberi di ulivo? Dal suo punto di vista come è stata gestita l’emergenza? Cosa è stato fatto, cosa si poteva fare e non è stato fatto?

«Certo che si poteva fare qualcosa di meglio, ma occorrevano decisioni rapide e impopolari (principalmente il taglio immediato degli alberi nelle aree allora infette) accompagnate da rapidi risarcimenti per i proprietari degli olivi, oltre a spiegare agli agricoltori (incluse le loro associazioni) e a tutti i cittadini che la necessità degli abbattimenti scaturiva dal fatto che la Xylella fastidiosa è un patogeno molto dannoso (ora lo abbiamo verificato) oltre che organismo da quarantena per il quale è obbligatorio applicare misure fitosanitarie, inclusa l’immediata rimozione delle piante infette, a tutela di colture agrarie e ornamentali (non solo olivo).


La gestione dell’emergenza da parte del generale Silletti è stata corretta, ma è stato mal consigliato ed ha applicato pedissequamente una norma che già in partenza ho giudicato inapplicabile e, pertanto, inefficace, ovvero il taglio degli alberi nel raggio di 100 metri dalla pianta infetta. Questa regola determina automaticamente il taglio di 3,14 ettari di oliveto intorno alla pianta infetta, una enormità, perché finisce per interessare il taglio di molti alberi, al momento magari sani e non infetti, su diverse proprietà adiacenti. Inoltre, a causa del ritardo nella individuazione del patogeno, era necessario applicare la regola dei 100 metri su una notevole porzione del territorio Salentino, così da dover abbattere un numero estremamente elevato di alberi percepiti ancora come non a rischio ed apparentemente sani; questo ha fatto perdere la collaborazione degli agricoltori e ha innescato proteste di ambientalisti e cittadini che hanno bloccato, ostacolato e ritardato i lavori di abbattimento con molteplici iniziative, inclusi ricorsi al TAR, favorendo così la diffusione della malattia.


A suo tempo ho considerato eccessivo il taglio nel raggio di 100 metri dalla pianta infetta perché il buon senso suggerisce che misure drastiche senza condivisione risultano impossibili da applicare. Occorreva invece un compromesso che garantisse rapidamente una rapida riduzione dell’inoculo presente nel territorio; allo scopo ho suggerito che il taglio fosse imposto nel raggio di 10 metri immaginando che gli agricoltori avrebbero collaborato, eliminando rapidamente le poche piante incluse nei 10 metri dalla pianta infetta per proteggere le altre presenti nei loro oliveti ed in quelli adiacenti. In aggiunta, grazie ad un rapporto collaborativo, il taglio sarebbe stato rapido e non collegato alle operazioni burocratiche di notifica o all’invio di squadre esterne insieme a forze dell’ordine. Tagliate le piante nel raggio di 10 metri, successive analisi avrebbero verificato lo stato sanitario delle piante vicine per proseguire eventualmente l’opera di abbattimento nel raggio di ulteriori 10 metri, e così via. In questo modo, pur non ottenendo una eradicazione del patogeno (evento improbabile vista la grande area di insediamento già ipotizzata nel 2014), la diffusione della malattia sarebbe stata molto rallentata. La dimostrazione che l’idea fosse sensata e la regola iniziale eccessiva, è stata la successiva riduzione da 100 a 50 metri del raggio dell’area dove procedere alla rimozione delle piante».


Ad un certo punto è stata imposta l’eradicazione degli alberi di ulivo da lei contestata sul piano scientifico. Ci spiega perché?


«Non contestavo l’abbattimento degli alberi /eradicazione, ma le modalità definite allo scopo (come descritto in breve nella risposta precedente) e alcuni argomenti portati a supporto dell’eradicazione, che in quel momento non trovavano ancora un riscontro consolidato in dati scientifici validati da altri laboratori; inutile e complicato ritornare ora sugli argomenti di anni fa. Ripeto, l’eradicazione è prevista e necessaria per gli organismi patogeni da “quarantena” ed è la misura principale per ritardare la diffusione di un patogeno eliminando l’inoculo presente nelle piante infette».


Anche “se i buoi sono già scappati” come si può oggi provare a “chiudere la stalla”?


«Come indicato, occorre ritrovare la collaborazione con gli agricoltori / proprietari rivedendo le regole, soprattutto provvedendo a immediati indennizzi; ma questo vale solo per la provincia di Bari e le aree a nord di Bari, allo scopo di salvare quanto rimane dell’olivicoltura Pugliese ed il resto degli olivi italiani. Per il Salento è ormai tardi, occorrerebbe (già ieri) che Regione e Ministero dell’Agricoltura finanziassero sistematicamente progetti di ricerca sulla Xylella da realizzare in loco (l’area infetta è infatti un laboratorio a cielo aperto dove il rischio di diffusione della malattia è nullo) e finanziassero in Salento reali test di diverse e nuove (per il territorio) colture arboree, così da indicare agli olivicoltori quali specie o varietà andare ad impiantare in sostituzione degli olivi in un territorio dove le risorse idriche sono scarse. Suggerire infatti colture tropicali quando le estati risultano sempre più calde e siccitose è il classico facilmente prevedibile insuccesso annunciato. Infine, i finanziamenti per nuovi impianti o nuove filiere dovrebbero essere indirizzati esclusivamente agli olivicoltori ed ai soggetti della filiera olivicola che hanno subito danni in conseguenza della pandemia di Xylella, non ad altri soggetti».


Attualità

Via alle ispezioni della cavità in zona Puzzu a Tricase

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Sono iniziate stamani le ispezioni del pozzo rinvenuta nel borgo antico di Tricase, in zona Puzzu, la scorsa settimana (leggi qui)

A calarsi sono i componenti del Gruppo Speleologico Tricase. Restituiranno tutte le informazioni utili che emergeranno sulla cavità, a partire anche dall’esatta profondità, stimata in circa 25 metri al momento del ritrovamento, avvenuto durante i lavori di riqualificazione del centro storico.

Per le vie del centro cittadino intanto stamattina è rimbalzata la falsa notizia secondo cui qualcuno sarebbe caduto accidentalmente nel pozzo. Nulla di vero: trattasi appunto delle operazioni ispettive avviate nella giornata odierna.

La locale Protezione Civile ed una ambulanza sono sul posto preventivamente, pronte a intervenire in caso di necessità.

Le foto

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Approfondimenti

Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Attualità

«La mafia salentina è sempre viva»

Intervista a Francesco Mandoi, ex magistrato salentino già Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia: «Vi spiego tutto»

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di Sefora Cucci

Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato” (Besa editrice).  Questo il titolo del libro di Francesco Mandoi, ex magistrato salentino che è stato Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia, in libreria dal 25 aprile.

Da allora, il suo autore è coinvolto in un tour di presentazione e divulgazione che sta facendo il giro dell’intera Puglia, toccando moltissimi paesi, ad esempio Molfetta, Castellaneta, Cutrofiano, Manduria, Lecce, Novoli, Nardò, Trepuzzi e Ugento.

Una vita spesa al servizio dello Stato. «Il destino ha voluto che potessi fare il mestiere che amavo e grazie al mio lavoro posso dire di aver raggiunto, come sosteneva Primo Levi, “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”», dichiara il dott. Mandoi, che abbiamo intervistato.

Lei rifiuta l’etichetta di magistrato antimafia. Perchè?

«Non amo quella definizione perché la magistratura, nella sua essenza, non è mai stata né pro né contro qualcosa. La giustizia non dovrebbe essere partigiana e un magistrato non è e non deve essere un militante. Aggiungere l’aggettivo “antimafia” rischia di creare una grande confusione, perché il più delle volte viene utilizzato quasi per fini retorici, politici o mediatici. Sembra quasi indicare implicitamente che esista una categoria di magistrati “speciali” che svolgono un lavoro più nobile o significativo rispetto ad altri. Chi combatte la mafia non lo fa per vanità, ma per dovere. Etichettare qualcuno come “antimafia” non solo isola quel magistrato dal contesto più ampio della giustizia, ma sminuisce il valore del lavoro degli altri. Sono sempre più convinto che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi solitari, ma di una società consapevole e unita».

Dalla recente relazione DIA relativa al 2024 emerge che i clan storici del Salento continuano ad esercitare il controllo sul territorio. Quali armi allora?

«Ho letto con sincera preoccupazione i dati emersi i quali, non fanno altro che raffermare la mia idea che la SCU non è mai finita nel nostro territorio. Anzi, molto più correttamente dovremmo parlare di mafia salentina perché nel corso del tempo ha assunto vari nomi; perché sa, la mafia è camaleontica ed è in grado di adattarsi a qualunque scenario, mantenendo sempre gli stessi obiettivi. Alle attività tipiche (estorsione, spaccio, riciclaggio, ecc.) se ne aggiunge un’altra, altrettanto preoccupante: quella relativa al controllo delle attività turistiche».

Cosa possiamo fare?

«Denunciare e sensibilizzare. Questi non sono due verbi vuoti ma si caricano del significato che diamo loro: mettere la pulce nell’orecchio delle forze dell’ordine è possibile, purché ci sia fiducia nelle istituzioni. Dobbiamo stimolare alla collaborazione. Cosa serve? Uomini, mezzi, collaborazione, credibilità nello Stato e soprattutto recuperare la fiducia nei confronti delle Istituzioni che in questo momento storico va via via perdendosi. Occorre recuperare quella fiducia perché si sta diffondendo una cultura del ‘chi me lo fa fare?’ che è l’anticamera della cultura dell’omertà».

Le recenti riforme sulla giustizia e i disegni di legge qualificano una situazione in cui, da più parti, è stato lanciato un allarme al pericolo di lesione dello stato di diritto. Lei cosa ne pensa?

«Il pericolo è estremamente reale. Sono molto preoccupato. Il rapporto tra cittadino e Stato si deve basare sulla fiducia. Se questa viene a poco a poco minata, quanta credibilità rimane? Il rischio è di mettere in crisi lo stato di diritto perché la gente non crede. É scettica. E scetticismo si riscontra verso i recenti atti, pensiamo al decreto sicurezza, ormai legge. Al di là di possibili profili di illegittimità costituzionale, mi sembra fatto solo per ragioni demagogiche. E se si è scelta questa strada, significa che l’80% della legge serve solo a livello demagogico».

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