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Era il Natale del 1943…

In piena Guerra Mondiale. Shlomo Wissolsky, ebreo polacco proveniente da Lodz, soggiornò a Tricase Porto insieme ad un gruppo di profughi che fuggivano dagli orrori del conflitto

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Era il Natale del 1943… basterebbe questo lubrificante per oliare la molla del cuore, quella che per decenni sotto il peso dell’incuria ha accumulato chili di ruggine e disaffezione; basterebbe ma non è mai troppo ricordare o far conoscere, alle giovani leve, quello che in quel lontano periodo succedeva nel Salento.


TricasePortoMigliaia di profughi, vittime di una ingiustificata persecuzione, figlia di ottusità e ignoranza, subivano una raccapricciante  “transumanza”: contro ogni loro volontà, venivano allontanati da parenti e amici, da affetti e abitudini, sradicati da luoghi e città dove avevano seminato le loro speranze, proiettato il loro futuro. Così in piena seconda guerra mondiale centinaia di persone vennero trasferite in questi luoghi, lontani dal teatro della guerra e, in attesa di poter tornare a vivere e riannodare il filo della loro esistenza, trascorsero degli anni memorabili nella nostra terra; intervistati, nonostante siano trascorsi decenni, ci confidarono quanto siano stati importanti quei momenti per loro e quanto, per altri,  per un giro d’orologio della loro vita, siano stati luogo di creatività e pace. Shlomo Wissolsky, un ebreo polacco che veniva da Lodz, poi trasferitosi in Israele, fu uno di coloro che soggiornò a Tricase Porto e, grazie ad un amico giornalista, Luigi Del Prete, che riuscì ad intervistarlo a Gerusalemme, oggi possiamo rendervi queste pulsanti testimonianze. Natale 2014, tante, molte cose sono cambiate dal 1943, oggi le persecuzioni hanno mutato “pelle”, cambiato parallelo, tramutato scopo, ma l’atrocità, l’ottusità, l’orrore, l’efferatezza sono aumentate a dismisura; affoghiamo quotidianamente in notizie raccapriccianti che, condite da problemi quotidiani, di anno in anno sembrano prendere il sopravvento e non ci lasciano immaginare nessun futuro. Questa testimonianza è un barlume di speranza, l’altro ieri questi profughi senza domani, approdati in porto sicuro, in pace e serenità, tracciarono le loro vite, progettarono le loro esistenze. L’amore che ricevettero dalla nostra gente l’adoperarono quale cemento  per congiungere i pezzi delle loro vite ed oggi, in un nostro momento di stanca, afflizione, disperazione, ce lo riconsegnano intonso. Quel coraggio che seppero ritrovare, grazie alla nostra ospitalità, ce lo restituiscono per darci forza e audacia e, come suggerisce Shlomo, per farci “uscire dal buio ed approdare nella luce”.


Luigi Zito


Quando Tricase Porto accolse i profughi


Verso la fine del 1943 gli alleati sistemarono nella provincia di Lecce diversi campi di accoglienza per profughi. Vennero scelte alcune località marine, poiché requisire le case di villeggiatura non avrebbe comportato grande disagio per gli abitanti del luogo.


Shlomo Wissolsky

Ronald Unger


Fu per questo che Santa Maria al Bagno, Santa Caterina, Santa Cesarea Terme, Santa Maria di Leuca e Tricase Porto ospitarono in quell’arco di tempo migliaia di profughi di varia provenienza. A Tricase vennero requisite tutte le ville disabitate, tra le quali quelle delle famiglie Adago, Codacci-Pisanelli, Aymone, Petrarca, Cafiero, Panese, Scarascia, Caputo, Risolo, Guarini, ed anche quella di monsignor Giovanni Panico. Gli arredi delle case vennero, spogliati per ovvie esigenze, depositati in un grande magazzino chiamato “il Teatro”. Arrivarono dapprima gli slavi e gli albanesi: si trattava di civili, militari e partigiani che avevano operato sotto il comando di Tito. Tra costoro vi erano anche ebrei slavi. I campi, sotto il coordinamento di militari inglesi, in prevalenza, e americani vennero occupati per consentire il transito, con una sosta relativamente lunga, ai profughi, ma funsero anche da centri di addestramento militare dei partigiani. Dal 1945 il campo rimane occupato esclusivamente da profughi ebrei sia a Tricase che negli altri campi profughi del Salento. Fu esattamente dopo la disfatta della Germania che tra l’Italia e l’Albania, sotto il coordinamento alleato, nell’estate del 1945 dal porto di Durazzo partirono centinaia di ebrei albanesi, diretti a Bari. La maggior parte degli ebrei albanesi venne accolta proprio a Tricase Porto. La gestione dei campi infatti tendeva a suddividere i profughi per nazione di provenienza, in modo che fosse più semplice la cooperazione e la convivenza tra gli stessi. Per loro dopo gli orrori della guerra e delle persecuzioni, approdare in queste località fu un sollievo inatteso. I salentini accolsero molto bene i profughi, la presenza del sole, del mare, della pace fecero il resto. Così mi raccontò, nel Gerusalemme, Shlomo Wissolsky, un ebreo polacco che veniva da Lodz, poi trasferitosi in Israele: “Tricase era un posto molto bello, si vedeva il mare, c’erano dei bar per prendere il caffè, lì spesso incontravamo e ci intrattenevamo con i pescatori del luogo, passeggiavamo con loro; era un posto molto bello, una collina e poi il mare, ricordo ancora che il giorno del nostro arrivo era una giornata splendida e facemmo il bagno in un mare cristallino”. Dove abitavate? “Non eravamo nel centro del paese, stavamo un po’ più in alto sulla collina, lì c’era una villa e un bosco dove potevamo passeggiare. Siamo stati lì solo 4 mesi, cantavamo, suonavamo e parlavamo di Israele, devo dire che avevamo sempre da fare. Noi ci incontravamo con tutti i gruppi al centro di Tricase, li accendevamo dei falò e stavamo intorno al fuoco: stavamo veramente bene. C’era una infermeria con una infermiera, lei ci accoglieva per il primo soccorso, ma non per le “cose serie”, d’altronde non avevamo bisogno di interventi seri”. Che ricordi avete di quella esperienza? “La sensazione che tutti mi hanno raccontato era quella di uscire dal buio per approdare alla luce. Non occorreva più temere, nascondersi, diffidare del prossimo. La gente ci accolse molto bene e noi volevamo molto bene agli italiani, ci hanno aiutato moltissimo. Conoscemmo questo popolo e ci raccontammo che fu una cosa fantastica che non avevamo mai incontrato: in Polonia e in altre nazioni c’era un forte antisemitismo, mentre in Italia non c’era”. Shlomo proveniva da una vecchia famiglia di musicisti e, grazie alla sua disponibilità, abbiamo potuto registrare molti canti che amava intonare ancora con una voce sorprendentemente bella a dispetto dei suoi 96 anni. Canzoni tradizionali Yddish della cultura ebraica dell’Europa orientale, cancellate dalla barbarie nazista. La sua voce ed i suoi canti hanno attraversato gli orrori della Shoah, della guerra, della sua famiglia sterminata nei campi di concentramento. Passò per Tricase Porto, prima di approdare in Israele dove oggi riposa. Alla fine dell’intervista Shlomo ci raccontò che Tricase Porto fu anche culla di una bella canzone composta assieme ai suoi amici, una canzone, intonata con lo stesso timbro dell’antica e grande tradizione di cui erano eredi. Potremo cosi ricordare attraverso quelle parole e melodie il passaggio a queste latitudini delle vittime di una delle pagine più orribili della storia dell’umanità. Il cui dolore il mare di Tricase ed i suoi pescatori hanno contribuito a lenire ed a far superare. Ritornando, come ripeteva anche Shlomo, “nuovamente esseri umani”.

Luigi Del Prete






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Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Maglie, il presidente dell’ISPE tradisce le aspettative: si dimetta!

Di fronte ad un enorme danno, di oltre 3 milioni di Euro, il suo dovere è dimettersi. Non possono esserci accordi diversi sulla pelle dei dipendenti, dei cittadini, soprattutto se sono anziani; vanificando i tanti sacrifici della famiglia Carrapa…

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Chiediamo le dimissioni del presidente dell’ISPE (Casa di Riposo) di Maglie

È di questi giorni l’attenzione di molta stampa sul centro fisioterapico che l’ASL Lecce ha annunciato di realizzare, nella dismessa struttura dell’Ospedale (PTA) di Maglie.

Ricordiamo che questo “centro” è la soluzione che è stata trovata dall’ASL per poter utilizzare il lascito della famiglia Carrapa di oltre 3 milioni di euro. L’eredità doveva essere destinata alla costruzione di una struttura sanitaria, in alternativa al nuovo ospedale, previsto, ma deliberato solo dopo due anni, dalla stesura del testamento, avvenuta 2009.  

Nel documento era indicata una prescrizione che l’obbligava in caso di struttura sanitaria diversa dall’Ospedale, il completamento nei 5 anni dal decesso, in caso contrario l’intero lascito era destinato all’Istituto Servizi per la Persona (ISPE).

Accade, però, che chi doveva, non solo non ha costruito una struttura, né grande né piccola, ma nemmeno iniziata, riuscendo solo a produrre un cartellone di cantiere con data di inizio e di fine lavori, dove la data inizio è praticamente quella di scadenza dei termini, e quella di ultimazione lavori è anche disattesa, nonostante che si sono stati utilizzati locali esistenti, che necessitavano solo lavori di ristrutturazione.  

Non c’è dubbio che il lascito doveva andare all’ISPE di Maglie, dove le esigenze dei cittadini anziani sono tante: mancanza di posti disponibili, carenza di personale e  insufficienza della struttura, che la defunta Vita Carrapa voleva completare.

Invece, pur essendo a conoscenza delle disposizioni testamentarie, il presidente Fulvio Pedone, non reclama il diritto a succedere, impedendo che altri ne entrassero in possesso. 

Forse il presidente non ha capito che non era lui, persona fisica, il vero beneficiario, ma il comune di Maglie e i suoi anziani cittadini.

Il suo atteggiamento va contro il diritto di successione, contro la legge regionale n 15 del 2004, contro il loro stesso statuto dell’ISPE e contro l’art. 630 del cc..

Non è chiaro se ci sono stati intendimenti o benevole interpretazioni perché ciò accadesse, sta di fatto che chi agisce contro il suo mandato, non merita la stima dei danneggiati che non possono capire il perché non si è voluto aiutare.

E’ chiaro che, di fronte ad un enorme danno, di oltre 3 milioni di Euro, il suo dovere è dimettersi, da Presidente dell’ISPE. Non possono esserci accordi diversi sulla pelle dei dipendenti, dei cittadini, soprattutto se sono anziani; vanificando i tanti sacrifici, della famiglia Carrapa.

Comitato Nuovo Ospedale sud Salento – Antonio Giannuzzi – fiduciario fam.Carrapa                            

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“Dal Salento al mercato nazionale: innovazione e tradizione intrecciate in ogni corda”

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Corderie Italiane

Nel profondo Sud della Puglia, dove il mare incontra le rocce di Gagliano del Capo, nasce una delle aziende più versatili e dinamiche presenti sul territorio italiano. Corderie Italiane, marchio prodotto e distribuito da Filtrex Srl, azienda specializzata nella produzione di corde, funi e trecce, è guidata con passione e lungimiranza dalla Famiglia Savarelli: ci troviamo di fronte ad un esempio concreto di come la tradizione artigianale possa fondersi con l’innovazione industriale.

Il suo fondatore, Cosimo Savarelli, ex dirigente di un noto calzaturificio locale, nel lontano 1989 decise di intraprendere una nuova strada reinventandosi e portando la sua esperienza imprenditoriale acquisita nel corso degli anni in questa nuova realtà. Ad affiancarlo, il figlio Giuseppe, laureato a pieni voti in Management Aziendale presso l’Università del Salento e con cui abbiamo il piacere di parlare oggi.

Giuseppe, la vostra gamma di prodotti è davvero ampia. Come si riesce a gestire una produzione così diversificata?

È difficile dare una risposta univoca a questa domanda, perché nello scenario attuale bisogna essere performanti sotto tutti i punti di vista. Ma sento di poter dire che la chiave fondamentale del nostro successo é l’organizzazione. La nostra azienda, pur mantenendo un’identità artigianale, ha saputo integrare nuove e moderne tecnologie industriali.

Questo ci permette di coprire numerosi settori che spaziano dalla nautica all’agricoltura, dall’edilizia al bricolage, passando per ambiti più specifici e professionali, come quello dei tendaggi e del fai da te. Produciamo cime per ormeggio e ancoraggio, corde galleggianti, trecce calibrate e in alta tenacità, corde naturali, spaghi alimentari, fino ai cordini tecnici per la pesca e attività outdoor. Avere una filiera interna ben strutturata e macchinari tecnologicamente avanzati ci consente di rispondere prontamente e con estrema flessibilità alle mutevoli esigenze di mercato, che poi vendiamo anche online su https://www.corderieitaliane.com/.

Quanto incide l’elemento “Made in Italy” sulla vostra proposta?

È il nostro marchio di fabbrica. Il Made in Italy, oggi più che mai, rappresenta un elemento di garanzia: non solo per la qualità del prodotto, ma anche per l’etica del lavoro e il rispetto delle normative vigenti. Le nostre corde sono fatte per durare: selezioniamo solo materie prime di altissima qualità, supervisioniamo ogni singola fase della produzione e non lasciamo nulla al caso.

Diamo la massima importanza alla qualità del prodotto, all’assistenza pre-post vendita e al packaging finale. In un contesto economico orientato sempre più verso l’adozione di politiche green ed ecosostenibili, siamo costantemente alla ricerca di soluzioni di imballo a basso impatto ambientale, pur garantendo la conservazione del prodotto e un aspetto elegante che attiri l’attenzione del cliente. Anche l’occhio vuole la sua parte, e crediamo molto nell’importanza dell’immagine del brand e della presentazione del prodotto finale che deve essere chiaro ed elegante in ogni punto vendita.

Parlando proprio di punto vendita: il vostro sistema di merchandising è spesso citato come esempio. Come funziona?

Abbiamo pensato ad un modello che metta al centro il rivenditore. Lo aiutiamo in tre fasi: partiamo dalla progettazione del layout personalizzato, forniamo il sistema espositivo con le referenze richieste e infine seguiamo il cliente nel tempo, monitorando la rotazione dei prodotti e aggiornando l’assortimento.

Questo approccio è particolarmente utile in settori come il fai-da-te, dove il  consumatore finale è spesso inesperto e ha bisogno di indicazioni semplici ma precise per orientarsi.

Il settore nautico sembra essere uno dei vostri punti di forza. Ci potete dire qualcosa in più?

È uno dei nostri mercati storici e più affermati. Produciamo corde per piccole e grandi imbarcazioni, trecce decorative e ornamentali, sia in fibra sintetica che naturale, sagole e cordini con destinazioni d’uso differenti e molto altro ancora.

In questo settore è fondamentale garantire resistenza alla trazione, affidabilità e sicurezza. Ecco perché puntiamo su materiali di primissima scelta e su lavorazioni attente ai dettagli. Anche nel mondo della nautica il design conta tantissimo, e le nostre corde devono essere non solo performanti ma anche esteticamente belle da vedere.

Tra le novità, quali sono i prodotti che stanno riscontrando più successo?

Negli ultimi anni abbiamo investito molto nelle cime per le manovre a bordo di imbarcazioni a vela e nei cordini per hobby e fai da te, introducendo nuovi colori e ampliando notevolmente l’assortimento globale. Abbiamo anche investito nei prodotti per il packaging alimentare, come gli spaghi in carta e canapa.

Sono settori in continua espansione, dove il consumatore finale è sempre più attento sia all’estetica che alla sostenibilità. Stiamo anche studiando nuove soluzioni ecologiche, come filati biodegradabili per l’agricoltura, perché crediamo fortemente in una produzione che rispetti l’ambiente e risponda alle esigenze del futuro.

Guardando avanti, qual è la visione per il domani di Corderie Italiane?

Vogliamo continuare a crescere mantenendo solide le nostre radici. Il nostro stabilimento a Gagliano del Capo è il nostro orgoglio, ma è anche un punto di partenza. Sogniamo di portare la nostra filosofia – basata su qualità, servizio e affidabilità – in ogni angolo d’Italia. E chissà, magari anche oltre. La nostra più grande forza è la fiducia dei clienti, costruita nel tempo. E finché saremo “legati alla qualità”, continueremo a fare la differenza.

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