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Era il Natale del 1943…

In piena Guerra Mondiale. Shlomo Wissolsky, ebreo polacco proveniente da Lodz, soggiornò a Tricase Porto insieme ad un gruppo di profughi che fuggivano dagli orrori del conflitto

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Era il Natale del 1943… basterebbe questo lubrificante per oliare la molla del cuore, quella che per decenni sotto il peso dell’incuria ha accumulato chili di ruggine e disaffezione; basterebbe ma non è mai troppo ricordare o far conoscere, alle giovani leve, quello che in quel lontano periodo succedeva nel Salento.


TricasePortoMigliaia di profughi, vittime di una ingiustificata persecuzione, figlia di ottusità e ignoranza, subivano una raccapricciante  “transumanza”: contro ogni loro volontà, venivano allontanati da parenti e amici, da affetti e abitudini, sradicati da luoghi e città dove avevano seminato le loro speranze, proiettato il loro futuro. Così in piena seconda guerra mondiale centinaia di persone vennero trasferite in questi luoghi, lontani dal teatro della guerra e, in attesa di poter tornare a vivere e riannodare il filo della loro esistenza, trascorsero degli anni memorabili nella nostra terra; intervistati, nonostante siano trascorsi decenni, ci confidarono quanto siano stati importanti quei momenti per loro e quanto, per altri,  per un giro d’orologio della loro vita, siano stati luogo di creatività e pace. Shlomo Wissolsky, un ebreo polacco che veniva da Lodz, poi trasferitosi in Israele, fu uno di coloro che soggiornò a Tricase Porto e, grazie ad un amico giornalista, Luigi Del Prete, che riuscì ad intervistarlo a Gerusalemme, oggi possiamo rendervi queste pulsanti testimonianze. Natale 2014, tante, molte cose sono cambiate dal 1943, oggi le persecuzioni hanno mutato “pelle”, cambiato parallelo, tramutato scopo, ma l’atrocità, l’ottusità, l’orrore, l’efferatezza sono aumentate a dismisura; affoghiamo quotidianamente in notizie raccapriccianti che, condite da problemi quotidiani, di anno in anno sembrano prendere il sopravvento e non ci lasciano immaginare nessun futuro. Questa testimonianza è un barlume di speranza, l’altro ieri questi profughi senza domani, approdati in porto sicuro, in pace e serenità, tracciarono le loro vite, progettarono le loro esistenze. L’amore che ricevettero dalla nostra gente l’adoperarono quale cemento  per congiungere i pezzi delle loro vite ed oggi, in un nostro momento di stanca, afflizione, disperazione, ce lo riconsegnano intonso. Quel coraggio che seppero ritrovare, grazie alla nostra ospitalità, ce lo restituiscono per darci forza e audacia e, come suggerisce Shlomo, per farci “uscire dal buio ed approdare nella luce”.


Luigi Zito


Quando Tricase Porto accolse i profughi


Verso la fine del 1943 gli alleati sistemarono nella provincia di Lecce diversi campi di accoglienza per profughi. Vennero scelte alcune località marine, poiché requisire le case di villeggiatura non avrebbe comportato grande disagio per gli abitanti del luogo.


Shlomo Wissolsky

Ronald Unger


Fu per questo che Santa Maria al Bagno, Santa Caterina, Santa Cesarea Terme, Santa Maria di Leuca e Tricase Porto ospitarono in quell’arco di tempo migliaia di profughi di varia provenienza. A Tricase vennero requisite tutte le ville disabitate, tra le quali quelle delle famiglie Adago, Codacci-Pisanelli, Aymone, Petrarca, Cafiero, Panese, Scarascia, Caputo, Risolo, Guarini, ed anche quella di monsignor Giovanni Panico. Gli arredi delle case vennero, spogliati per ovvie esigenze, depositati in un grande magazzino chiamato “il Teatro”. Arrivarono dapprima gli slavi e gli albanesi: si trattava di civili, militari e partigiani che avevano operato sotto il comando di Tito. Tra costoro vi erano anche ebrei slavi. I campi, sotto il coordinamento di militari inglesi, in prevalenza, e americani vennero occupati per consentire il transito, con una sosta relativamente lunga, ai profughi, ma funsero anche da centri di addestramento militare dei partigiani. Dal 1945 il campo rimane occupato esclusivamente da profughi ebrei sia a Tricase che negli altri campi profughi del Salento. Fu esattamente dopo la disfatta della Germania che tra l’Italia e l’Albania, sotto il coordinamento alleato, nell’estate del 1945 dal porto di Durazzo partirono centinaia di ebrei albanesi, diretti a Bari. La maggior parte degli ebrei albanesi venne accolta proprio a Tricase Porto. La gestione dei campi infatti tendeva a suddividere i profughi per nazione di provenienza, in modo che fosse più semplice la cooperazione e la convivenza tra gli stessi. Per loro dopo gli orrori della guerra e delle persecuzioni, approdare in queste località fu un sollievo inatteso. I salentini accolsero molto bene i profughi, la presenza del sole, del mare, della pace fecero il resto. Così mi raccontò, nel Gerusalemme, Shlomo Wissolsky, un ebreo polacco che veniva da Lodz, poi trasferitosi in Israele: “Tricase era un posto molto bello, si vedeva il mare, c’erano dei bar per prendere il caffè, lì spesso incontravamo e ci intrattenevamo con i pescatori del luogo, passeggiavamo con loro; era un posto molto bello, una collina e poi il mare, ricordo ancora che il giorno del nostro arrivo era una giornata splendida e facemmo il bagno in un mare cristallino”. Dove abitavate? “Non eravamo nel centro del paese, stavamo un po’ più in alto sulla collina, lì c’era una villa e un bosco dove potevamo passeggiare. Siamo stati lì solo 4 mesi, cantavamo, suonavamo e parlavamo di Israele, devo dire che avevamo sempre da fare. Noi ci incontravamo con tutti i gruppi al centro di Tricase, li accendevamo dei falò e stavamo intorno al fuoco: stavamo veramente bene. C’era una infermeria con una infermiera, lei ci accoglieva per il primo soccorso, ma non per le “cose serie”, d’altronde non avevamo bisogno di interventi seri”. Che ricordi avete di quella esperienza? “La sensazione che tutti mi hanno raccontato era quella di uscire dal buio per approdare alla luce. Non occorreva più temere, nascondersi, diffidare del prossimo. La gente ci accolse molto bene e noi volevamo molto bene agli italiani, ci hanno aiutato moltissimo. Conoscemmo questo popolo e ci raccontammo che fu una cosa fantastica che non avevamo mai incontrato: in Polonia e in altre nazioni c’era un forte antisemitismo, mentre in Italia non c’era”. Shlomo proveniva da una vecchia famiglia di musicisti e, grazie alla sua disponibilità, abbiamo potuto registrare molti canti che amava intonare ancora con una voce sorprendentemente bella a dispetto dei suoi 96 anni. Canzoni tradizionali Yddish della cultura ebraica dell’Europa orientale, cancellate dalla barbarie nazista. La sua voce ed i suoi canti hanno attraversato gli orrori della Shoah, della guerra, della sua famiglia sterminata nei campi di concentramento. Passò per Tricase Porto, prima di approdare in Israele dove oggi riposa. Alla fine dell’intervista Shlomo ci raccontò che Tricase Porto fu anche culla di una bella canzone composta assieme ai suoi amici, una canzone, intonata con lo stesso timbro dell’antica e grande tradizione di cui erano eredi. Potremo cosi ricordare attraverso quelle parole e melodie il passaggio a queste latitudini delle vittime di una delle pagine più orribili della storia dell’umanità. Il cui dolore il mare di Tricase ed i suoi pescatori hanno contribuito a lenire ed a far superare. Ritornando, come ripeteva anche Shlomo, “nuovamente esseri umani”.

Luigi Del Prete






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“Per grazia ricevuta”: Piemontese, assessore sanità Puglia, crea d’emblée 2mila posti di lavoro

Nonostante cinque aziende sanitarie da 17 giorni siano senza direttore generale e non si veda alba, la Regione si prepara a lanciare tre concorsoni: due dei quali saranno gestiti proprio da Asl senza un manager…

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di Luigi Zito

Quello che non succede in 5 anni, a volte, si sa, può accadere a pochi giorni dalle elezioni: siano esse comunali (alzi la mano chi non si fatto dare “una liccata di asfalto”, davanti casa poco prima del voto); provinciali, quando Presidente o Assessori, come la Madonna, si appalesano in città e chiedono una “citazione” nelle urne: e giù a concedere, promettere, santificare e beatificare, tutta Grazia sprecata o mal riposta, perché sanno che non è deificata, ma solo vanagloria.

E fin qui siamo nell’ordine naturale delle elezioni.

Quello che supera il livello di indignazione e tracima nella vergogna assoluta, ai limiti della sconcezza, e chiede vendetta, è quanto sta accadendo per le nostre elezioni regionali.

Nonostante cinque aziende sanitarie da 17 giorni siano senza direttore generale e non si veda alba, la Regione si prepara a lanciare tre concorsoni: due dei quali saranno gestiti proprio da Asl senza un manager.

Mille posti ciascuno per infermieri e Oss, mentre la terza procedura darà il via alla mobilità intraregionale per permettere spostamenti tra le varie aziende.

Ricapitolando: 2mila posti di lavoro creati d’emblée, come infermieri e Oss, dei quali un terzo (circa 700) saranno su Foggia, città del Vicepresidente e assessore alla Sanità e Benessere animale, Sport per tutti, Raffaele Piemontese, prodigo di carità e col vizio delle buone azioni.

Questi concorsi erano attesi almeno da maggio, ora una circolare del dipartimento Salute conferma che la pubblicazione è «imminente», e dunque la scadenza delle domande potrebbe arrivare proprio a ridosso della tornata elettorale del 23 e 24 novembre prossimi, anche se le prove si svolgeranno non prima di aprile-maggio.

Quando si dice avere una “faccia di tolla”, ma qualcun altro asserirà che “in politica la menzogna è una componente imprescindibile”.

Come possiamo difenderci: quando nel segreto dell’urna dovremo apporre quella “citazione”, per non ricevere un’altra villania del genere, dobbiamo saper distinguere il “grano dalla pula”, il bianco dal nero, le “facce di tolla” da quelle linde, correte, sincere e leali.

Ricordiamocene.

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L’ambasciatore Cristina: “Ho conosciuto Putin e il Dalai Lama, che esperienze”

«Il Salento, è la terra di mia nonna, è la terra dove venivo d’estate a Tricase, per le vacanze, dove avevo dei carissimi amici che sfortunatamente non ci sono più è la terra dei miei antenati alla quale mi sento di appartenere”…

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di Ercole Morciano

Cristina Funes-Noppen è ambasciatore onorario del Belgio (lei stessa preferisce l’appellativo di ambasciatore a quello di ambasciatrice essendo quest’ultimo usato per indicare la moglie dell’ambasciatore, NdR), e da un po’ di tempo vive buona parte dell’anno in Salento, a Tricase, dove ha comprato un’antica dimora, quasi attaccata alla chiesa matrice, adattandola ai suoi bisogni,

Figlia di ambasciatore ha seguito le orme paterne e dopo gli studi accademici a carattere diplomatico ha percorso la sua carriera come ambasciatore del Belgio in numerosi Paesi nei vari continenti tra cui Zambia, Kenya, India, Tailandia, Marocco, Austria e Argentina, senza dimenticare che in tutte le sue destinazioni, come ambasciatore residente, copriva anche larghe giurisdizioni riguardanti altri vari Paesi.

È stata anche coordinatore di tre direzioni al ministero degli affari esteri: Diritti dell’Uomo, Nazioni Unite e Disarmo.

Ha ricoperto inoltre le funzioni di rappresentante permanente presso l’O.N.U e di commissario speciale per la cooperazione e lo sviluppo.

Dopo aver seguito le orme paterne in ambito professionale, l’ambasciatore segue ancora oggi le inclinazioni della madre, Maria Noppen De Matteis, pittrice e “star mondiale del surrealismo anche se poco conosciuta in Puglia” (bari.repubblica.it > cronaca 2022/12/19 news).

Nata nel 1921 nel castello baronale dei Sauli di Tiggiano, cui apparteneva la madre, dove le è stato allestito un museo permanente delle sue opere, Maria Noppen De Matteis, verso la fine degli anni ’50 e i primi ’60, d’estate villeggiava col marito e la figlia Cristina a Tricase-Porto, nella casa di Angelico Ferrarese, posta in una splendida posizione panoramica e vicina al villino di Gaetano Sauli, suo parente.

La giovanissima Cristina (Cri-Cri per le amiche e gli amici) era bionda, solare, molto bella, vivace, dal sorriso incantevole che “faceva girare la testa” ai giovanissimi rampolli delle famiglie-bene di Tricase-Porto in quel periodo caratterizzato dalla spensieratezza e dalla gioia di vivere.

La vena artistica di Cristina Funes-Noppen ne fa un personaggio veramente eclettico e sorprendente perché, oltre a dipingere, ella scrive con successo, in francese, romanzi e saggi storico-letterari dai quali traspare la sua speciale cultura maturata a diretto contatto con i popoli delle nazioni dove ha esercitato il ruolo diplomatico.

Gli ultimi suoi due romanzi, editi nel 2023 e nel 2025, si intitolano “Ils étaient six” e l’altro “Équivoques”. Il primo, narra la vicenda dei criminali nazisti che alla fine della II guerra mondiale si nascosero in Argentina.

La trama si svolge a sud delle Ande, in piena cultura “quechua” e consente al lettore, in filigrana, di seguire l’evoluzione politica dell’Argentina negli anni 1945-1983.

L’ultimo, contiene quattro romanzi gialli che danno informazioni su diversi Paesi, Kenia, India, Thailandia e un dialogo spiritoso sulla morte.

L’INTERVISTA ESCLUSIVA

Perché il Salento e Tricase?

«Il Salento è la terra di mia nonna, è la terra dove venivo d’estate per le vacanze, dove avevo dei carissimi amici che sfortunatamente non ci sono più – ma ci sono i miei cugini, è la terra dei miei antenati alla quale mi sento di appartenere malgrado le mie molte peregrinazioni nel mondo, è infine la terra dove mi sento a casa. Nonostante la mia nazionalità belga sono rimasta profondamente salentina».

È soddisfatta della sua scelta? Ombre e luci?

«Se consideriamo il tipo di vita che si ha qui rispetto a quello di altri Paesi, occorre riconoscere che qui la qualità della vita è più umana. E poi, il patrimonio naturalistico, architettonico, storico, e culturale, nell’insieme, è di alta qualità e ampiamente godibile».

«HO CONOSCIUTO PUTIN»

Tra i diversi Capi di Stato o di governo da lei conosciuti, come racconta nel suo libro Chroniques impertinentes… ancora in carica tra gli altri vi è Vladimir Putin.

«Ho conosciuto Vladimir Putin nel 2001 quando è venuto in visita ufficiale in Belgio. Io ero all’epoca commissario speciale e pertanto fui invitata alla cena di gala. Non ci siamo parlati molto, però mi diede l’impressione che ci teneva ad avere buoni rapporti con l’Europa. Non mi sembrò nemmeno che terrorizzasse i suoi collaboratori.

Di fianco a me era seduto il suo consigliere per le questioni nucleari che aveva abusato della “divina bottiglia”, come dicono i francesi, e pertanto cantava in francese durante tutta la cena suscitando l’ilarità dei commensali, compreso Putin.

Cantando a squarciagola, non dava certo l’impressione di temere il suo presidente, il che non succede normalmente nelle cene ufficiali di gala e tanto meno di fronte a quello che è supposto essere un dittatore sanguinario.

Nella mia carriera ho incontrato vari dittatori e posso assicurare che davanti a loro nessuno dei collaboratori al seguito si sarebbe permesso di cantare».

GLI OSTAGGI

Due aneddoti, uno triste e l’altro lieto, nei suoi ricordi di ambasciatore.

«Il primo, andato a buon fine, riguarda due ostaggi di Medici senza Frontiere presi dall’armata di liberazione del Sud Sudan e liberati dopo una trattativa durata 20 giorni in cui i guerriglieri vollero trattare solo con me, al telefono, di notte.

Non ci chiesero nessun riscatto come invece per ripicca accadde dieci giorni dopo, con un altro ostaggio francese, la cui trattativa durò tre mesi e si chiuse con l’esborso di un’ingente somma di denaro. Questo mi fu precisato, ridendo, dal mio collega francese che pretese che era tutta colpa mia se la SPLA si era rifatta sul suo governo! L’aneddoto triste riguarda invece due belgi, un ragazzo che lavorava per le Nazioni Unite e sua moglie.

Erano spariti da 5 anni e i due miei predecessori non erano riusciti ad avere notizie certe.

I genitori speravano e le autorità pretendevano che fossero ancora vivi. È una storia romanzesca che si svolse in Thailandia e in Cambogia. Da quello che finalmente sono riuscita a scoprire seppi che erano stati uccisi dai Khmer Rossi, forse con la complicità dell’esercito thailandese e eventualmente con risvolti riguardanti il traffico di opere d’arte.

Testardamente impegnata, dopo molte peripezie, e dopo aver insistentemente discusso con i due re, Shianouk e Bhumipol, fui messa in contatto con il capo dell’esercito thailandese e con i Khmer Rossi che mi consegnarono le spoglie che io affidai alle famiglie, le quali ebbero almeno la consolazione di sapere cos’era successo ai loro figli e di potere seppellirne i corpi».

IL DALAI LAMA EMETTE UNA ENERGIA POSITIVA

La persona che più ha lasciato traccia nel suo animo durante la lunga carriera diplomatica?

«È stato di certo il Dalai Lama: una persona assolutamente fuori dal comune che emette un’energia positiva straordinaria e trasmette alle persone che incontra una carica di felicità. E ho il privilegio di avere ancora dei contatti sporadici con questo sant’ uomo, grazie al quale la cultura tibetana continua a sopravvivere malgrado l’occupazione della Cina che fa di tutto per eradicarla.

Perciò il Dalai Lama ha deciso che dopo la sua morte non si reincarnerà nel Tibet per evitare che i Cinesi arrestino la sua reincarnazione (che potrebbe essere anche una bambina) e la sostituiscano con una di loro scelta come fecero con il Panchen Lama (figura importante nel buddhismo tibetano).  Il Panchen Lama che si era reincarnato nel Tibet. fu arrestato quando aveva solo 6 anni nel 1995, rimpiazzato con un ragazzino che conveniva alle autorità cinesi e nessuno sa, da allora, dove si trovi il vero Panchen Lama».

Chroniques impertinentes

“…Un libro che si caratterizza per una libertà di spirito, un tono a volte mordace, esotico e cosmopolita. Un libro istruttivo, politicamente scorretto…ma così giusto! Un libro prezioso che deve essere letto da coloro che s’interessano alla diplomazia e agli affari di questo mondo”.

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Il mondo delle Associazioni nel Salento: pregi e difetti

L’unità civile si ritrova nell’incontro di tanti che sanno dialogare per poter davvero vivere meglio…

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di Hervé Cavallera

Che la lettura dei caratteri peculiari di un determinato periodo storico non sia sempre facile, almeno per i contemporanei, è certamente cosa risaputa, ma ciò è particolarmente vero in un momento storico come quello che stiamo vivendo, nel quale un elemento significativo è la contraddizione.

La pace è infatti proclamata come un bene da tutti auspicato e invece persistono le guerre, sì da paventare addirittura la possibilità di un conflitto mondiale. Al tempo stesso si predica l’inclusione, ma l’integrazione reale è difficile e non mancano quartieri ghetto.
E accade che nel mondo dei social media, in cui tutti siamo apparentemente connessi, le persone non riescono a colloquiare in reale presenza tra loro e moltissimi anziani, senza più alcuno accanto, devono ricorrere alle Case di Residenza Assistenziale.

Nell’età nella quale l’istruzione è notevolmente cresciuta per tutti, e quindi presupporrebbe un mondo più sereno, è invece in atto una irrazionale violenza crescente. E si potrebbe continuare.

ANIMALE SOCIALE

Eppure l’uomo, come aveva già detto il filosofo Aristotele, è essenzialmente un animale sociale ossia destinato per sua natura a vivere in comunità e ciò, al di là delle istituzioni in cui la compresenza è inevitabile (dalle scuole alla fabbriche, dagli uffici allo stesso Stato), è confermato dalla presenza e dalla diffusione dell’associazionismo, ossia dalla libera e responsabile partecipazione ad associazioni di varia natura (culturali, sportive, di volontariato, di promozione sociale e così via).

Private o pubbliche, con una lunga tradizione storica alle spalle o con fresca baldanza di buoni propositi, le associazioni non mancano.
Non risulta (o quanto meno non conosco) il numero complessivo delle associazioni in provincia di Lecce, ma indubbiamente, considerando la varietà delle tipologie e il numero dei Comuni della provincia, possono essere migliaia.

Basti considerare una città come Tricase per rendersi conto non solo della consistenza quantitativa della loro esistenza, ma altresì della loro incisività nel sociale. Non intendo in questa sede soffermarmi su alcune poiché non mi sembra corretto fare delle scelte che potrebbero sembrare discriminatorie o di parte.

È sufficiente dire che, mentre qualcuna è un po’ sonnacchiosa, altre sono particolarmente attive e che accanto ad associazioni di carattere prevalentemente ricreativo ve ne sono altre di natura culturale e altre ancora che hanno per fine principale l’operare per il miglioramento della qualità della vita della comunità o per venire incontro ai più bisognosi.

Vi sono poi associazioni meramente online, delle comunità virtuali o gruppi digitali che diffondono opinioni, informazioni e vanno acquistando capacità di indirizzare i loro componenti in più ambiti.

Si tratta di una realtà in espansione e che andrebbe esaminata a parte, soprattutto quando assume un carattere socio-politico.

MEGLIO FARE LE COSE INSIEME

Il punto essenziale che al momento è giusto sottolineare è dato comunque dai vantaggi che l’associazionismo offre. In primo luogo, ogni associazione aggrega, accomuna ed è pertanto una comunità con dei fini accettati da tutti i membri e quindi richiede delle norme, delle regole, delle competenze, dei propositi.

Implica in tal modo il saper vivere insieme, formando un tutt’uno con i componenti pur nei diversi compiti. Sotto tale profilo, la coesione sottintende l’amicizia nel rispetto delle diverse personalità. Inoltre, un’associazione si pone obiettivi che prescindono (o dovrebbero prescindere) dagli interessi personali.

Si pensi alle associazioni di servizio volte ad attività di beneficenza e di supporto sociale i cui esiti dovrebbero riguardare il bene pubblico e ciò vale altresì per quelle culturali e di volontariato. Fini di crescita sociale esistono del resto anche in quelle di natura politico-sociale, solo che in esse, come avviene anche per quelle che sono espressione di una tifoseria, vi è sempre una natura di scelta di parte e quindi di contrapposizione, sia pure nel leale riconoscimento della realtà di differenti orientamenti.

DIMMI CON CHI VAI E TI DIRO’ CHI SEI

Ci si trova per tutti questi motivi dinanzi ad una situazione complessa che non solo mostra come il soggetto non vive isolato, ma che caratterizza una comunità, le dà un senso.

«Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei», recita un vecchio proverbio, facendo capire che il comportamento di ognuno è influenzato dall’ambiente che frequenta, ma al tempo stesso è anche vero che ognuno deve sforzarsi di far crescere l’ambiente o l’associazione di cui fa parte.

Si manifesta allora un altro elemento che deve essere costitutivo del permanere in una associazione: il farla positivamente sviluppare, accrescendo il numero dei soci attraverso la qualità e il valore di ciò che si realizza. Sotto tale profilo, le associazioni veramente meritevoli di rispetto hanno sempre un valore educativo, poiché sollecitano i componenti a dare il meglio di sé per l’interesse di tutti.

Il fine dell’azione non è personale, ma collettivo, dove per “collettivo” non si intende solo il gruppo di cui si fa parte, ma l’intera città a cui si appartiene e, attraverso la propria città, il territorio di appartenenza.

In questo modo lo sguardo, l’operare si amplia e dal proprio gruppo si estende a tutto il territorio a cui si appartiene.

La vitalità di un territorio dipende infatti dalla forza di partecipazione degli abitanti alla vita dello stesso: ognuno per la sua parte, per la sua professione, per il suo gruppo di appartenenza, per la sua competenza.

Associandoci, comunichiamo, ossia trasmettiamo idee, affetti, esperienze e collaboriamo.

Come del resto avviene nelle famiglie, il cui legame è soprattutto affettivo e parentale, oltreché giuridico. Per questo tutte le associazioni, che hanno per fine il bene pubblico, sono determinanti per lo sviluppo sociale e sono la ricchezza di un territorio.
Democrazia è partecipazione responsabile, perché comporta competenza e capacità di superare, stando insieme, i propri interessi particolari.

L’unità civile si ritrova nell’incontro di tanti che sanno dialogare per poter davvero vivere meglio.

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