Approfondimenti
Cyber jihad: la minaccia passa dal Web
Mario Avantini, vicepresidente del Centro Italiano di Strategia e Intelligence: “Ci stanno imponendo il marchio dello stato islamico, che entra nella nostra vita quotidiana attraverso internet e televisione”
L’arresto della cellula italiana dell’Isis impegnata nell’arruolamento di combattenti ha ulteriormente puntato i riflettori dell’attenzione pubblica sulla questione islamica e le minaccie al nostro Paese.
Il Salento, meta di continui sbarchi clandestini è vigilato con attenzione da intelligence e forze dell’ordine nel timore che, insieme ai disperati in fuga dalle guerre e dalla fame, sbarchino anche nuovi arruolatori di martiri o potenziali terroristi. Ecco perché il nuovo Decreto Legge sul terrorismo prevede anche un inasprimento delle pene per gli scafisti che possono essere arrestati in flagranza al pari degli appartenenti a gruppi eversivi che utilizzano il web. Proprio internet pare essere un punto di forza per gli estremisti, molto abili ad utilizzarlo per trovare terreno fertile tra i tanti disadattati che vivono in Occidente anche da più generazioni ma non sono realmente integrati. Consapevoli che la Jihad del Terzo Millennio non si combatte solo sul terreno, o a colpi di attentati, ma anche e soprattutto nella rete virtuale, possiamo considerare quella scatenata dallo stato islamico una vera e propria “Cyber Jihad”. Per questo la nostra Antonella Marchisella ha intervistato Mario Avantini, vicepresidente del Cisint (Centro Italiano di Strategia e Intelligence) studioso e ricercatore di Sicurezza Cibernetica e Cyber Terrorismo ed esperto del fenomeno della Cyber Jihad sul web e sul linguaggio dell’Isis attraverso i social network. Il Cisint è nato, su iniziativa di un gruppo di esperti e ricercatori, dalla necessità di porre in essere un centro capace di approfondire e diffondere la conoscenza degli Studi Strategici e della cultura dell’Intelligence.
Aspiranti jihadisti e i social network
Quanto e importante la comunicazione sul web per l’Isis? “Per i combattenti dell’Isis il web è un vettore fondamentale per trasmettere il terrore nel mondo, la comunicazione digitale è finalizzata alla sensibilizzazione della causa, alla propaganda, e ad aggiornare neofiti e jihadisti sui successi ottenuti. Vengono fornite, attraverso la rete, informazioni su come unirsi a gruppi e come raggiungere lo stato islamico. Ma attenzione non si tratta solo di capacità nell’usare i media ma di avere una strategia organizzata fatta da diversi prodotti multimediali (video, foto, messaggi Twitter, testi su Facebook ecc.) per differenti destinatari (occidentali, orientali e mediorientali) e con tecniche differenti. Viene prestata l’attenzione alla produzione dei video, proprio come avviene in televisione, quando si vuole catturare un determinato tipo pubblico si cerca di capire cosa interessa a quel segmento sociale e a quel punto si crea il prodotto adatto. Domandiamoci un attimo perché proclamano e ci impongono il nome di stato islamico, perche ci inducono a farci sapere che emettono moneta e riscuotono tasse. E’ tutto parte integrante della loro strategia di comunicazione. Ci stanno imponendo un marchio, cioè quello dello stato islamico, che entra nella nostra vita quotidiana attraverso il web e la televisione, che sono veri strumenti di amplificazione globale”.
Chi sono gli aspiranti jihadisti dell’Isis? “In molti casi giovani che decidono di lasciare l’occidente e di arruolarsi tra le fila dell’esercito dell’Isis appartengono a figli degli immigrati di religione musulmana che sono emigrati in occidente da anni e che vivono definitivamente in varie nazioni europee, in USA e in Australia. Poi troviamo, invece, i giovani aspiranti occidentali non di fede musulmana o tendenzialmente atei che non hanno alcun tipo di contatto con la religione islamica e che contestualmente al loro reclutamento si convertono alla fede musulmana. Questi ultimi, ovviamente, hanno necessità da parte dei reclutatori di un intervento di avvicinamento e persuasione più complesso e articolato. I giovani che si votano alla jihad non sono quelli che crescono nell’ignoranza e nella povertà, ma sono tutti istruiti e in buone condizioni economiche. Hanno molta esperienza in internet e portano a termine scelte ideologiche personali, talvolta spinti da condizioni psicologiche disagiate e conflitti famigliari”.
Quali sono i luoghi e le metodologie di reclutamento? “Possiamo dire che il web o più specificatamente i social network sono il luogo centrale di «reclutamento per aspiranti jihadisti», pronti a passare dalla tastiera di un computer ai teatri di guerra siriani e iracheni o a compiere attentati anche in Occidente. Si passa dall’avvicinamento virtuale su Twitter, Facebook o vari blog dove si cerca di capire l’interesse dell’aspirante mediante la diffusione di messaggi culturali “ingannevoli”, con diffusione casuale e che possa però trovare numerosi destinatari tra giovani “in attesa di qualcosa”, in grado di fornirgli una nuova identità o un ideale nella vita. E’ quella che viene definita “la ragnatela” dove i messaggi allettanti vengono realizzati e diffusi in attesa che qualcuno psicologicamente vulnerabile vi rimanga impigliato. Subito dopo si passa al contatto “face to face” dove troviamo i cosiddetti reclutatori “facilitatori” che operano anche nei luoghi di culto musulmano e nei quartieri periferici delle grandi città occidentali pronti a fornire consigli su come ottenere i visti e su come raggiungere Isis o i luoghi di addestramento e spesso organizzano il viaggio fornendo biglietti aerei, mail e numeri di telefono per contattare i gruppi combattenti”.
Che tipo di sistemi multimediali adottano?
“Lo stato islamico ha una troupe di combat cameraman che seguono i combattenti nelle zone di conflitto, inoltre ogni combattente, con i propri telefonini riprende il video delle azioni per poi postarle sui social network, in modo che ogni affiliato sia aggiornato in tempo reale su quello che sta accadendo: una valanga di informazioni. I sistemi di comunicazione adottati sono: siti web ufficiali dove diffondono la loro visione dell’Islam attraverso videomessaggi; una rivista, Dabiq, in versione cartacea e digitale dove si trovano riferimenti alle conquiste territoriali, eroi morti in battaglia, interpretazione dei tesi sacri, insomma una vera guida al Califfato; “La Islamic New Agency”, che è esattamente come ogni agenzia di stampa multimediale trasmetteva (fino al suo oscuramento), attraverso video e comunicati stampa dei portavoce dei gruppi affiliati allo stato islamico. Le agenzie di stampa sono un nodo strategico di questa guerra cibernetica fatta di informazioni e disinformazioni; la Hayat Media Center casa di Produzione Audiovisivi dove producono veri e propri video ben strutturati degni di film cinematografici. Lo strumento preferito di diffusione dell’informazione dell’Isis è il canale audiovisivo, come YouTube, comprensibile aldilà della lingua parlata, ed emotivamente forte. E poi troviamo i social network come Facebook e Twitter che negli ultimi anni sono stati il mezzo più veloce per diffondere e condividere qualsiasi notizia, azione e avvenimento tra combattenti lontani migliaia di chilometri di distanza, e tutto questo quasi in modo anonimo”.
In che modo vengono veicolati i messaggi tra i jihadisti? “Assistiamo ad un conflitto dove la Rete e il cyberspazio giocano certamente un ruolo determinante in termini di reclutamento, organizzazione e comunicazione. L’anonimato online consente addestramenti teorici e militari senza rischi anche a distanza. L’utilizzo di archivi “bozze”, di comunissimi indirizzi e-mail condivisi con altri membri dell’organizzazione, garantiscono lo scambio di messaggi senza l’invio di una sola e-mail. I soldati, siano essi virtuali o reali, dello stato islamico, hanno account protetti proprio dalla virtualità, perché nessuno sa se esistano e chi siano veramente, e nel caso in cui le autorità li blocchi, lo stesso account rinasce il giorno dopo con una variante nella “user”, ad esempio da @Abu2 si passa ad @Abu3 (dettagliatamente spiegato nel libro di AGC comunication in “Lo stato islamico”). Il compito del jihadista che usa la rete internet, è quello di postare all’interno degli account (Facebook, Twitter), messi a disposizione gratuitamente, i video, le foto, file audio ecc. Dopodiché le case di produzione prelevano da questi “contenitori” i video per lavorarli in tempo reale e successivamente reinserirli su Youtube o su altro canale video gratuito fruibile da tutti i simpatizzanti nel mondo che a loro volta lo posteranno nuovamente e così via per un’interminabile catena”.
Cosa sappiamo delle sigle responsabili dei Cyber attacchi? “Prendendo sempre con prudenza le attribuzioni e perfino le rivendicazioni degli attacchi, sappiamo che le sigle pro-jihad sono gruppi chiamati Fallaga e Cyber Caliphate, responsabile quest’ultimo dell’attacco agli account dei profili Twitter e YouTube del Comando Centrale Usa. Sebbene questa volta si sia trattato di vandalismo e terrorismo psicologico non ci si può permettere di abbassare la guardia. L’Isis sembrerebbe avere a propria disposizione almeno qualche unità con esperienza in ingegneria sociale e hacking. È notizia recente di una sedicente Hacking Division dell’Isis che ha pubblicato su un sito online nomi, foto e indirizzi di 100 militari americani che hanno preso parte alle operazioni in Siria e Iraq, esortando membri e simpatizzanti dell’Isis negli Stati Uniti ad ucciderli. Tutto questo è il prodotto di informazioni rubate da server del Dipartimento della Difesa oppure di un attività meticolosa di raccolta dati sul web e soprattutto sui social media? E’probabile che Al Baghdadi potrebbe far riferimento al modello simile del Syrian Electronic Army, questo gruppo è considerato il primo esercito di hacker comparso in Medio Oriente, che sostiene il governo siriano del presidente Assad, dimostrando di avere competenze e addestramento di tipo militare”.
Quanto e importante la comunicazione sul web per l’Isis? “Per i combattenti dell’Isis il web è un vettore fondamentale per trasmettere il terrore nel mondo, la comunicazione digitale è finalizzata alla sensibilizzazione della causa, alla propaganda, e ad aggiornare neofiti e jihadisti sui successi ottenuti. Vengono fornite, attraverso la rete, informazioni su come unirsi a gruppi e come raggiungere lo stato islamico. Ma attenzione non si tratta solo di capacità nell’usare i media ma di avere una strategia organizzata fatta da diversi prodotti multimediali (video, foto, messaggi Twitter, testi su Facebook ecc.) per differenti destinatari (occidentali, orientali e mediorientali) e con tecniche differenti. Viene prestata l’attenzione alla produzione dei video, proprio come avviene in televisione, quando si vuole catturare un determinato tipo pubblico si cerca di capire cosa interessa a quel segmento sociale e a quel punto si crea il prodotto adatto. Domandiamoci un attimo perché proclamano e ci impongono il nome di stato islamico, perche ci inducono a farci sapere che emettono moneta e riscuotono tasse. E’ tutto parte integrante della loro strategia di comunicazione. Ci stanno imponendo un marchio, cioè quello dello stato islamico, che entra nella nostra vita quotidiana attraverso il web e la televisione, che sono veri strumenti di amplificazione globale”.
Chi sono gli aspiranti jihadisti dell’Isis? “In molti casi giovani che decidono di lasciare l’occidente e di arruolarsi tra le fila dell’esercito dell’Isis appartengono a figli degli immigrati di religione musulmana che sono emigrati in occidente da anni e che vivono definitivamente in varie nazioni europee, in USA e in Australia. Poi troviamo, invece, i giovani aspiranti occidentali non di fede musulmana o tendenzialmente atei che non hanno alcun tipo di contatto con la religione islamica e che contestualmente al loro reclutamento si convertono alla fede musulmana. Questi ultimi, ovviamente, hanno necessità da parte dei reclutatori di un intervento di avvicinamento e persuasione più complesso e articolato. I giovani che si votano alla jihad non sono quelli che crescono nell’ignoranza e nella povertà, ma sono tutti istruiti e in buone condizioni economiche. Hanno molta esperienza in internet e portano a termine scelte ideologiche personali, talvolta spinti da condizioni psicologiche disagiate e conflitti famigliari”.
Quali sono i luoghi e le metodologie di reclutamento? “Possiamo dire che il web o più specificatamente i social network sono il luogo centrale di «reclutamento per aspiranti jihadisti», pronti a passare dalla tastiera di un computer ai teatri di guerra siriani e iracheni o a compiere attentati anche in Occidente. Si passa dall’avvicinamento virtuale su Twitter, Facebook o vari blog dove si cerca di capire l’interesse dell’aspirante mediante la diffusione di messaggi culturali “ingannevoli”, con diffusione casuale e che possa però trovare numerosi destinatari tra giovani “in attesa di qualcosa”, in grado di fornirgli una nuova identità o un ideale nella vita. E’ quella che viene definita “la ragnatela” dove i messaggi allettanti vengono realizzati e diffusi in attesa che qualcuno psicologicamente vulnerabile vi rimanga impigliato. Subito dopo si passa al contatto “face to face” dove troviamo i cosiddetti reclutatori “facilitatori” che operano anche nei luoghi di culto musulmano e nei quartieri periferici delle grandi città occidentali pronti a fornire consigli su come ottenere i visti e su come raggiungere Isis o i luoghi di addestramento e spesso organizzano il viaggio fornendo biglietti aerei, mail e numeri di telefono per contattare i gruppi combattenti”.
Che tipo di sistemi multimediali adottano?
“Lo stato islamico ha una troupe di combat cameraman che seguono i combattenti nelle zone di conflitto, inoltre ogni combattente, con i propri telefonini riprende il video delle azioni per poi postarle sui social network, in modo che ogni affiliato sia aggiornato in tempo reale su quello che sta accadendo: una valanga di informazioni. I sistemi di comunicazione adottati sono: siti web ufficiali dove diffondono la loro visione dell’Islam attraverso videomessaggi; una rivista, Dabiq, in versione cartacea e digitale dove si trovano riferimenti alle conquiste territoriali, eroi morti in battaglia, interpretazione dei tesi sacri, insomma una vera guida al Califfato; “La Islamic New Agency”, che è esattamente come ogni agenzia di stampa multimediale trasmetteva (fino al suo oscuramento), attraverso video e comunicati stampa dei portavoce dei gruppi affiliati allo stato islamico. Le agenzie di stampa sono un nodo strategico di questa guerra cibernetica fatta di informazioni e disinformazioni; la Hayat Media Center casa di Produzione Audiovisivi dove producono veri e propri video ben strutturati degni di film cinematografici. Lo strumento preferito di diffusione dell’informazione dell’Isis è il canale audiovisivo, come YouTube, comprensibile aldilà della lingua parlata, ed emotivamente forte. E poi troviamo i social network come Facebook e Twitter che negli ultimi anni sono stati il mezzo più veloce per diffondere e condividere qualsiasi notizia, azione e avvenimento tra combattenti lontani migliaia di chilometri di distanza, e tutto questo quasi in modo anonimo”.
In che modo vengono veicolati i messaggi tra i jihadisti? “Assistiamo ad un conflitto dove la Rete e il cyberspazio giocano certamente un ruolo determinante in termini di reclutamento, organizzazione e comunicazione. L’anonimato online consente addestramenti teorici e militari senza rischi anche a distanza. L’utilizzo di archivi “bozze”, di comunissimi indirizzi e-mail condivisi con altri membri dell’organizzazione, garantiscono lo scambio di messaggi senza l’invio di una sola e-mail. I soldati, siano essi virtuali o reali, dello stato islamico, hanno account protetti proprio dalla virtualità, perché nessuno sa se esistano e chi siano veramente, e nel caso in cui le autorità li blocchi, lo stesso account rinasce il giorno dopo con una variante nella “user”, ad esempio da @Abu2 si passa ad @Abu3 (dettagliatamente spiegato nel libro di AGC comunication in “Lo stato islamico”). Il compito del jihadista che usa la rete internet, è quello di postare all’interno degli account (Facebook, Twitter), messi a disposizione gratuitamente, i video, le foto, file audio ecc. Dopodiché le case di produzione prelevano da questi “contenitori” i video per lavorarli in tempo reale e successivamente reinserirli su Youtube o su altro canale video gratuito fruibile da tutti i simpatizzanti nel mondo che a loro volta lo posteranno nuovamente e così via per un’interminabile catena”.
Cosa sappiamo delle sigle responsabili dei Cyber attacchi? “Prendendo sempre con prudenza le attribuzioni e perfino le rivendicazioni degli attacchi, sappiamo che le sigle pro-jihad sono gruppi chiamati Fallaga e Cyber Caliphate, responsabile quest’ultimo dell’attacco agli account dei profili Twitter e YouTube del Comando Centrale Usa. Sebbene questa volta si sia trattato di vandalismo e terrorismo psicologico non ci si può permettere di abbassare la guardia. L’Isis sembrerebbe avere a propria disposizione almeno qualche unità con esperienza in ingegneria sociale e hacking. È notizia recente di una sedicente Hacking Division dell’Isis che ha pubblicato su un sito online nomi, foto e indirizzi di 100 militari americani che hanno preso parte alle operazioni in Siria e Iraq, esortando membri e simpatizzanti dell’Isis negli Stati Uniti ad ucciderli. Tutto questo è il prodotto di informazioni rubate da server del Dipartimento della Difesa oppure di un attività meticolosa di raccolta dati sul web e soprattutto sui social media? E’probabile che Al Baghdadi potrebbe far riferimento al modello simile del Syrian Electronic Army, questo gruppo è considerato il primo esercito di hacker comparso in Medio Oriente, che sostiene il governo siriano del presidente Assad, dimostrando di avere competenze e addestramento di tipo militare”.
Quali sono gli obiettivi dell’Isis? “Sul web circolano una varietà di ipotesi tra cui una moltitudine di mappe che mostrano i progetti dell’Isis nell’estendersi in tutto il Medio Oriente, in parte dell’est Europa e in tutta l’Africa centro-settentrionale. Credo che una di queste ipotesi sia di ricreare un califfato islamista con il sicuro intento di rompere i confini degli stati mediorientali decisi con gli accordi “confidenziali” del 1916 in primis da Francia e Inghilterra, con cui si divisero il territorio dopo il collasso dell’impero ottomano. Tuttavia c’è invece chi dichiara che l’offensiva dell’Isis sia importante per i produttori di armamenti, mediante la quale sperano di poter vendere una maggior quantità di armi alle monarchie del Golfo. Comunque in ogni guerra c’è sempre chi ci guadagna!”.
Antonella Marchisella
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Illuminare balconi e terrazzi: idee d’effetto anche per chi non ha il giardino
L’illuminazione esterna durante il periodo delle festività rappresenta un gesto di condivisione della gioia e un modo per estendere il calore domestico oltre le mura dell’abitazione. Spesso si crede che la creazione di allestimenti luminosi d’impatto sia un privilegio riservato a chi possiede ampi giardini, ma balconi e terrazzi, anche se di piccole dimensioni, offrono opportunità creative straordinarie. Con un’attenta pianificazione e l’utilizzo di soluzioni adatte, è possibile trasformare questi spazi in veri e propri palcoscenici luminosi. L’impiego strategico delle lucine di Natale è fondamentale per infondere magia e visibilità anche negli angoli più ristretti.
La sicurezza e la scelta dei materiali
Prima di procedere con qualsiasi allestimento luminoso esterno, è imperativo considerare gli aspetti legati alla sicurezza e alla durabilità. L’uso di prodotti certificati e specificamente contrassegnati per l’uso in esterni (con grado di protezione IP adeguato, generalmente IP44 o superiore) è essenziale per resistere all’umidità, alla pioggia e alle variazioni termiche. È altresì prudente optare per soluzioni a basso consumo energetico, come le luci LED, che non solo garantiscono una lunga vita operativa ma riducono anche l’impatto sulla bolletta elettrica. La scelta di alimentatori e prolunghe anch’essi resistenti alle intemperie assicura che l’installazione sia stabile e priva di rischi.
L’arte di definire i contorni
L’illuminazione efficace di un balcone o di un terrazzo si basa sulla capacità di definire e valorizzare i contorni dello spazio disponibile. Invece di installare le luci in modo casuale, è opportuno concentrarle lungo le ringhiere, le cornici delle finestre o i bordi del pavimento. Le catene luminose disposte orizzontalmente lungo la ringhiera creano un effetto visivo ordinato e accogliente, che demarca elegantemente lo spazio. Per un effetto più sontuoso e stratificato, si possono utilizzare le stalattiti luminose o le tende di luci, facendole scendere verticalmente dalla parte superiore del balcone. Queste soluzioni offrono una densità luminosa immediata e trasformano la facciata dell’edificio in una vera e propria tela festiva.
Sfruttare la verticalità e gli elementi esistenti
Nei piccoli terrazzi, la verticalità è la chiave per massimizzare l’impatto senza sacrificare lo spazio calpestabile. È possibile decorare le pareti esterne, se consentito dal regolamento condominiale, con reti luminose che simulano un effetto di cielo stellato o con motivi sagomati a tema festivo. I vasi e le fioriere esistenti possono diventare parte integrante dell’allestimento: luci a batteria possono essere posizionate all’interno dei vasi o avvolte attorno alle piante sempreverdi. L’utilizzo di rami luminosi inseriti in fioriere decorative offre un’alternativa sofisticata all’albero tradizionale, creando punti luce alti e sottili che non occupano spazio in larghezza.
L’uso di elementi decorativi a pavimento
Anche se lo spazio è limitato, è possibile introdurre elementi luminosi a pavimento che aggiungano profondità e magia. Le lanterne da esterno, alimentate a batteria o con candele a LED, possono essere posizionate negli angoli o vicino alla porta d’ingresso. Queste lanterne offrono una luce calda e diffusa che evoca un senso di intimità e accoglienza. Un’altra idea d’effetto è l’utilizzo di proiettori laser o LED a tema festivo, che proiettano fiocchi di neve o figure natalizie direttamente sulla parete esterna dell’edificio. Questa soluzione crea un grande impatto visivo con un ingombro fisico minimo.
Colore e temperatura: la scelta del tono emotivo
La temperatura del colore delle luci natalizie ha un’influenza decisiva sul tono emotivo dell’allestimento. Le luci bianco caldo, che tendono al giallo, sono preferite per creare un’atmosfera tradizionale, accogliente e rassicurante, che ricorda il tepore dei focolari. Al contrario, le luci bianco freddo o quelle blu e viola creano un effetto più moderno, glaciale ed elegante. Per un risultato armonioso, è generalmente consigliato non mescolare troppe temperature di colore diverse nello stesso spazio. La coerenza cromatica è essenziale per evitare un effetto caotico e per rafforzare la sensazione di ordine e cura nell’allestimento.
Soluzioni pratiche per l’alimentazione
Nei balconi dove le prese elettriche esterne sono insufficienti o assenti, le soluzioni a batteria o a energia solare sono una risorsa preziosa. Le catene luminose a batteria, spesso dotate di timer incorporato, consentono di programmare l’accensione e lo spegnimento, ottimizzando il consumo e liberando l’utente dall’onere di collegare o scollegare le luci ogni sera. I pannelli solari, sebbene meno performanti nelle brevi giornate invernali, sono ideali per i punti esposti al sole, offrendo una soluzione ecologica e totalmente autonoma dal punto di vista energetico. L’attenzione alla praticità operativa è fondamentale per assicurare che l’allestimento luminoso sia fonte di gioia e non di stress gestionale.
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Marina, 36 anni, per Sant’Egidio a Bangui, Centroafrica: “Vicina agli ultimi della terra”
“A 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro, ma poi…
L’INTERVISTA ESCLUSIVA
di Luigi Zito
A quale scintilla primitiva si affida l’animo umano quando la fiamma d’amore si accende, si sviluppa, si infiamma e riluce sino a risplendere luminosamente?
E qual è la moneta che ripaga la gratificazione che plasma il nostro cuore, che lo trasforma da cima a fondo, e che lo muove a donarsi agli altri?
Non credo sia solo una mia curiosità, è un affanno che accompagna la vita, che frequentemente ci pone davanti a simili dilemmi. È un tarlo capire cosa muove il sole e le stelle: cosa spinge una giovane donna a lasciare la zona comfort della sua vita per aprirsi al mondo, donarsi e aiutare chi è in difficoltà ed ha più bisogno?
Ancor più se, per farsi piccola per diventare grande, ha scelto di farlo a migliaia e migliaia di chilometri da casa.
È il caso di Marina Ciardo, 36 anni, di Tricase, che da anni vive a Bangui, Repubblica Centroafricana ed è Capo Progetto per l’Associazione Sant’Egidio.
Marina, di buon grado, ha amabilmente risposto a mie precise sollecitazioni.
«VOLEVO CAMBIARE IL MONDO»
«“Cosa vuoi fare dopo la scuola?”. Questa era la fatidica domanda che parenti, amici e insegnati mi ripetevano verso la fine del quinto anno delle superiori. Forse il lavoro che svolgo oggi è proprio la risposta a quella domanda che allora mi trovava impreparata. Non ci avevo mai pensato prima, ma su una cosa ero certa: volevo viaggiare, conoscere nuove culture e usanze diverse dalla mia, cercare di capire quello che, probabilmente, mi è ancora inspiegabile, divertirmi e, soprattutto, provare a cambiare il mondo! Si perché a 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Così, sfogliando una guida delle facoltà universitarie, ho scoperto il corso di laurea in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale a Parma.
E allora mi sono detta: “Ma si, dai! proviamoci”, d’altronde potrebbe unire due strade: quella dell’economia, già intrapresa alle superiori (e che tanti dei miei affetti mi spingevano a proseguire, perché così trovi subito lavoro), e quella della cooperazione internazionale, un mondo inesplorato ma affascinante».
«LA MIA AFRICA»
Come sei arrivata in Africa, a Bangui?
«Non faccio altro che ripetermi, se oggi sono qui, in Africa, é anche grazie al mio professore di Storia ed economia dei Paesi in via di sviluppo, che ci ha sempre spronato a fare un’esperienza nel campo della cooperazione, precisando anche che il lavoro del cooperante non è per tutti: o lo ami o lo subisci. Concludendo poi con un’amara postilla: “Molti dei miei studenti sono giunti alla laurea magistrale ma, di fatto, non hanno mai intrapreso quella strada”.
Incoraggiata e sostenuta dalla mia famiglia, durante l’estate del secondo anno universitario ho deciso di fare una esperienza diretta, sono entrata in contatto con l’Ong Coope – Cooperazione Paesi Emergenti -, e ho vissuto un mese straordinario in un piccolo villaggio a sud della Tanzania, Msindo.
Allora, ho realizzato chiaramente: «Questo è ciò che voglio fare! Conoscere una realtà così diversa dalla mia, vedere la gioia delle persone che, nonostante la consapevolezza delle difficoltà giornaliere, continuano a lottare, sorridendo, con impegno, voglia di farcela, aggrappati alla vita come mai avevo visto fare prima. Dando una mano, facendo piccole cose, ho vissuto momenti e emozioni che stravolgono. Questo mi ha fatto sentire utile. A volte è bastato anche solo aver aggiustato una staccionata in una scuola».
Finita quell’esperienza, cosa è successo?
«Sono rientrata in Italia e ho assaporato per la prima volta il mal d’Africa di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare. Così ho continuato il percorso universitario prima a Parma e poi a Torino. Una volta specializzata in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale, ho assolto il servizio civile in Madagascar, poi il primo lavoro con la Ong Emergency (in repubblica Centroafricana e nel Kurdistan iracheno), successivamente con il Cuamm (Medici con l’Africa) nel Sud Sudan e, infine, da quasi 6 anni, nuovamente nella repubblica Centroafricana con la Comunità di Sant’Egidio».
Come opera la comunità di Sant’Egidio?
«Principalmente in due settori: il primo riguarda la salute, attraverso il programma Dream: cura le malattie croniche come l’epilessia, il diabete, l’ipertensione, l’HIV, l’asma e malattie renali leggere; il secondo è rappresentato dal programma Pace e Riconciliazione che, in modo costante e discreto promuove la pace.
È ben noto il ruolo di mediatore della Comunità di Sant’Egidio tra le parti in conflitto in RCA. La firma dell’Accordo Politico per la Pace, il 19 giugno 2017 a Roma, tra il governo centrafricano e 13 gruppi politico-militari è stato un momento cruciale nella storia del Paese. Questo accordo ha avviato, di fatto, il processo di dialogo e disarmo, che ha avuto un secondo e altrettanto importante momento con la firma degli Accordi di Khartoum nel febbraio 2019».
Qual è il tasso di povertà dove ti trovi? Di cosa c’è più bisogno? La situazione politico-economica, carestie? Guerre?
«Situata nel cuore dell’Africa, la Repubblica Centroafricana (RCA) è, dopo la Somalia e il Sud Sudan, è il paese più povero al mondo.
Nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano è 191° su 193 paesi presi in esame; il 60%, dei circa sei milioni di abitanti, vive con meno di un dollaro al giorno.
Si registra, purtroppo, uno tra i più alti tassi di mortalità materno-infantile e la popolazione ha in media un’aspettativa di vita piuttosto bassa (intorno ai 54 anni). Nonostante la posizione strategica e le risorse naturali presenti sul territorio, il Paese affronta da decenni una profonda instabilità politica che ha minato lo sviluppo economico e sociale.
Sono innumerevoli i colpi di Stato, le rivolte e i conflitti armati. Negli ultimi anni il Governo centrale ha avuto un controllo limitato sul territorio, soprattutto nelle regioni settentrionali e orientali, dove sono presenti gruppi ribelli e milizie locali. Non mancano le interferenze straniere che si manifestano con la presenza di milizie mercenarie, protagoniste talvolta discontri armati e violazioni dei diritti umani.
È un Paese che vive principalmente grazie ad agricoltura, estrazione di diamanti e oro e industria del legname. La crescita economica è ostacolata da mancanza di infrastrutture, insicurezza e instabilità politica. Questi elementi, combinati con una povertà estrema e la carenza di servizi essenziali, hanno generato una grave crisi umanitaria. Le donne e i bambini i più vulnerabili, esposti come sono a violenze, malnutrizione e mancanza di istruzione. Sono cresciuta molto con ogni organizzazione, sia a livello personale che professionale, ma la lunga permanenza a Bangui, mi ha permesso di contribuire alla formazione dei giovani locali, che desiderano migliorare la situazione del loro Paese».
IMPOTENZA E DOLORE
«Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata»
Ci racconti un aneddoto, un avvenimento, che ti ha toccata particolarmente?
«Sono stati anni impegnativi, difficili, che hanno permesso la nascita di amicizie profonde, anche con pazienti per me speciali, che oggi non ci sono più. Il senso di impotenza e il dolore per la loro perdita ti svuota, ti consuma, ti fa credere di non poter andare avanti. Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata. Forse è proprio questa la sfida ma credo che tutto questo mi stia forgiando. Essere testimone, lottare, nel bene e nel male, provoca una forza mista a rabbia che spinge ogni giorno a dare il meglio, anche se a volte non è abbastanza.
A Bangui sono arrivata nel gennaio del 2020, con la prospettiva di starci un anno o poco più, invece, a quasi 6 anni dal mio arrivo, mi ritrovo qui a scrivere questa mia storia e, forse, tracciare anche un bilancio.
Quando parlo con i nuovi colleghi (qui c’è un turnover molto intenso, la permanenza media è da 6 mesi a un paio d’anni), inevitabile che chiedano: “Da quanto tempo sei qui?”. E alla mia risposta, “Quasi 6 anni”, mi incalzano: “Perché?!”.
Non so spiegarlo in poche parole: conservo un “album di emozioni” e da brava amministratrice ho difficoltà a tradurlo in parole. Il fantastico team dell’associazione é un ingrediente fondamentale per questa ricetta di resistenza/resilienza».
TRA MALATTIE E COPRIFUOCO
Covid e altre malattie, come le affrontate?
«Nel 2020 abbiamo trascorso il periodo del covid e il mio primo periodo con questa nuova realtà lavorativa. Non abbiamo sofferto come in Italia, le restrizioni erano blande, c’era solo la paura di essere contagiati e stare male, e allora sì che sarebbe stato un problema, vista l’assenza di ospedali specializzati.
Il 2021 c’è stato un tentativo di colpo di Stato, Bangui era stata dichiarata “Ville mort” (città morta), una città “ibernata” per un paio di settimane e sotto coprifuoco (se ti trovavano per strada non chiedevano un documento o ti facevano una multa, rischiavi di essere ammazzata), che lasciava pochissimo spazio per lo svago, gli amici, per lamentarsi del caldo, delle zanzare, della mancanza d’acqua e degli sbalzi di elettricità che rischiavano di bruciare quello che lasciavi innescato alla presa della corrente».
Ci descrivi una tua giornata tipo?
«Ci si sveglia prendendo il caffè (rigorosamente Quarta!), cercando di mettere in ordine le priorità della giornata, con la consapevolezza che, nel momento in cui metterai piede in ufficio, verrai assalita da mille imprevisti: problemi con le banche, con le macchine, lentezze inesorabili dei Ministeri e cose che si rompono: qui molte cose si rompono con una velocità incredibile.
Seguo principalmente due progetti: il Programma Dream (gestiamo una clinica e un padiglione di ospedale e curiamo circa 3mila pazienti cronici e una media di 100 nuove donne incinte al mese che accompagniamo nel percorso prenatale. Tutti i servizi sanitari sono a pagamento, mentre il nostro programma prevede gratuità e presa in carico in modo olistico del paziente).
E poi abbiamo avviato, da 3 anni, delle campagne di vaccinazione porta a porta per i bambini da 0 a 2 anni.
Per il progetto “mediazione di pace”, mi limito a seguire l’ufficio per evitare problemi di carattere amministrativo e logistico».
“Basta! Mollo tutto e torno in Italia!”, l’hai mai pensato?
«Mi succede spesso, anche più volte nello stesso giorno.
Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere e sottolineare solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro.
Mi hanno molto aiutato e sostenuto le amicizie qui a Bangui.
Avere delle persone che in un quadro nero intravedono un punto bianco e riescono a fartelo vedere e apprezzare, non è scontato.
È questa la forza che mi è stata trasmessa giorno per giorno, che mi aiuta a inquadrare l’amore per questa professione, mi fa andare avanti e ammirare questo quadro caravaggesco: sebbene prevalgano le ombre, la presenza di luce, minima ma potente (carica di quanto si è realizzato), è dominante».
COSA FARAI DA GRANDE?
Hai già deciso cosa farai in futuro?
«Bisogna sempre tenere alto il morale delle truppa: nel mentre si accavallano le emozioni, il leitmotiv mi ritorna in mente, mentre mi ritrovo a scrivere questa storia, a pochi giorni dalla mia partenza, al momento definitiva, da Bangui.
Questa è la parte relativa al lavoro, ma non c’è solo questo.
A Bangui è presente anche un gruppo locale della Comunità di Sant’Egidio, giovani centroafricani che, malgrado le difficoltà, cercano di vivere lo spirito evangelico della Comunità del Santo.
Lo fanno nella gratuità e nell’amicizia, prestano servizio ai poveri, ai bambini di strada, alla scuola di pace e alla cura degli anziani soli e senza sostegno. Mi emoziona vedere che esistono dei giovani che sperano e lavorano per un futuro diverso per il loro Paese.
Dopo quasi 10 anni di lavoro non so ancora dare una risposta alla domanda che Gabriella mi pone “ogni 2 per 3”: Cosa vuoi fare da grande?! So che voglio continuare, e mi impegnerò al 100% per fare in modo di soddisfare almeno in parte quel desiderio di “cambiare le cose” in meglio. Aiutare, vedere la gente sorridere, scoprire la bellezza delle diversità, affinchè quello che ha spinto una giovane salentina ad affrontare questo mestiere, si avveri.
Ecco la mia risposta: «Non so cosa farò da grande, ma il mio lavoro mi piace e continuerò a farlo».
COME AIUTARE
Come possiamo aiutare la tua comunità?
«Con una donazione a:
COMUNITÀ DI S. EGIDIO ACAP – ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCI – IBAN: IT36Q0200805074000060045279
Causale: Programma Dream Centrafrica»
Approfondimenti
Air Fryer: trucchi per migliorare la cottura dei cibi
Negli ultimi tempi le abitudini alimentari di tantissime famiglie sono state stravolte dall’ingresso in casa di un elettrodomestico che ha fatto grandi promesse: garantire piatti golosi come quelli fritti ma leggeri come quelli al forno. Tuttavia, padroneggiare la tecnica di una friggitrice ad aria che sfrutta un vortice di calore ad alta velocità non è immediato come sembra e i primi esperimenti possono rivelarsi non ottimali se non si conoscono le tecniche giuste.
Spesso si dà la colpa allo strumento per una panatura che si stacca o per un interno rimasto crudo, ignorando che la causa reale è una gestione sbagliata degli spazi o dell’umidità residua sugli alimenti. Imparare a bilanciare questi elementi è l’unica via per ottenere risultati paragonabili alla cucina professionale.
Come diventare esperti
Per diventare dei veri esperti nell’utilizzo della propria friggitrice ad aria vi basterà adottare pochi semplici trucchi capaci di garantire una doratura esterna impeccabile su ogni tipo di alimento. Seguendo queste indicazioni scoprirete che la air fryer è uno strumento incredibile, soprattutto se si sceglie un modello avanzato tecnologicamente, come ad esempio quelle di Moulinex, con cui potrete spaziare liberamente in cucina, realizzando ottimi contorni di verdure grigliate e persino dolci da forno complessi senza alcuna difficoltà.
Asciugare bene gli ingredienti e dosare l’olio con intelligenza
La regola d’oro per evitare l’effetto bollito è eliminare ogni traccia di acqua dagli alimenti prima della cottura. Inserendo nel cestello prodotti ancora umidi, l’evaporazione impedirà la formazione della crosta esterna, quindi è importante tamponare accuratamente carne, pesce e ortaggi con carta assorbente fino a renderli perfettamente asciutti.
Passando ai condimenti, bisogna sfatare il mito che l’olio non possa essere utilizzato se si vuole cucinare un piatto salutare: una minima quantità è infatti essenziale per attivare la doratura e proteggere il cibo dal calore secco dell’aria. Invece di versare l’olio direttamente dalla bottiglia, l’ideale è utilizzare un nebulizzatore spray per distribuire uno strato sottile e uniforme su tutta la superficie degli ingredienti. Questo piccolo trucco, oltre a evitare il fumo causato dall’olio in eccesso, aiuta anche le spezie e il sale ad aderire meglio alla superficie dell’alimento, evitando che la forza dell’aria le stacchi dal cibo appena accendete la macchina.
Non riempire troppo il cestello e adattare le temperature
Un errore molto comune dettato dalla fretta è quello di riempire il cestello fino all’orlo, sovrapponendo il cibo. La friggitrice ad aria lavora grazie al circolo veloce dell’aria e se ostruite il passaggio ammucchiando gli ingredienti, la parte centrale rimarrà cruda o fredda. Per ottenere una cottura omogenea è sempre meglio cuocere in più riprese disponendo tutto in un unico strato senza affollare troppo lo spazio.
Inoltre, avendo una camera di cottura compatta e una ventola molto potente, la macchina genera un calore molto più aggressivo rispetto agli elettrodomestici standard. Di conseguenza, le istruzioni di cottura pensate per la cucina tradizionale vanno necessariamente adattate abbassando la temperatura di circa venti gradi e riducendo il tempo di cottura del venti per cento rispetto al forno statico. Ricordate poi l’importanza di intervenire durante il processo: estrarre il cestello a metà cottura per scuotere energicamente le patatine o girare le fettine di carne è un passaggio obbligatorio per garantire che ogni lato venga esposto al calore e si colori uniformemente.
Attenzione alla carta forno e alla pulizia costante
Molti appassionati tendono a utilizzare la carta forno per evitare di sporcare, ma se non gestita bene questa abitudine può compromettere il risultato. Coprire interamente la griglia sul fondo, infatti, blocca il flusso d’aria che arriva dal basso, impedendo al cibo di cuocere correttamente nella parte inferiore. Se volete usarla, la soluzione migliore è acquistare i fogli già forati o sagomare la carta in modo intelligente, facendo attenzione a non inserirla mai durante il preriscaldamento per evitare che finisca sulla resistenza bruciandosi.
Infine, un altro aspetto che incide sul sapore dei piatti è la pulizia dello strumento. I residui di grasso e le briciole che cadono sul fondo tendono a bruciare nelle cotture successive, generando fumo e odori sgradevoli che possono alterare il gusto di cibi delicati, motivo per cui è buona norma lavare i componenti dopo ogni singolo utilizzo. Utilizzando spugne non abrasive e detergenti delicati riuscirete a proteggere il rivestimento antiaderente del cestello, evitando che i cibi si attacchino in futuro.
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