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Attualità

“Io, fuggito due volte dall’orrore dell’Iran”

La storia di Sharuz, oggi salentino d’adozione (panettiere a Tricase), “cancellato” dalla Svezia dove si era reinventato e tornato a piedi in Europa per ricostruire la sua terza vita

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di Lorenzo Zito


Era lo scorso 13 settembre quando la 22enne Mahsa Amini fu fermata e arrestata dalla polizia di Teheran perché non indossava correttamente l’hijab, il velo che tutte le donne sono costrette ad usare in Iran, una delle imposizioni della dittatura islamica che governa il Paese.


Dopo pochi giorni di custodia della polizia morale di Teheran, Mahsa morì in circostanze non meglio definite, ma che certamente non si possono dire misteriose, visto che la violenza repressiva di quella che si fa chiamare Repubblica Islamica dell’Iran e della sua guida suprema Ali Khamenei sono note al mondo.


In tutte le 31 province del Paese si sono poi diffuse a macchia d’olio manifestazioni represse nel sangue. Secondo Human Rights Activists News Agency, organizzazione che promuove la difesa dei diritti umani in Iran, da allora sarebbero oltre cinquecento i morti fra i manifestanti (di cui 70 bambini) mentre più di 19 mila sarebbero stati arrestati.


Da quel giorno, il mondo oggi osserva attonito, e spesso colpevolmente impotente, quanto accade in Iran, dove quotidianamente il più basilare principio di libertà di quasi 90 milioni di persone viene calpestato da divieti, imposizioni, arresti, torture, processi farsa, esecuzioni.


Tra gli occhi rivolti verso Teheran anche quelli dei milioni di iraniani costretti a lasciare la loro terra per continuare a vivere. Noi abbiamo incrociato quelli di Sharuz, 48 anni, curdo iraniano, oggi tricasino d’adozione, costretto a fuggire due volte dall’Iran per mettersi in salvo. Costretto due volte a quel viaggio per la vita che migliaia e migliaia di persone come lui hanno dovuto affrontare e che oggi altrettanti vorrebbero fare ma non possono.


Sharuz, da dove vieni e cosa facevi in Iran prima di fuggire?


Vengo da Kermanshah, una città del Kurdistan iraniano non distante dal confine con l’Iraq. In Iran lavoravo nel campo dell’edilizia. Per 16 anni sono stato capo progetto nella realizzazione di una serie di costruzioni per conto dell’esercito, in varie città del Paese.


Quando hai lasciato l’Iran e perché?


Nel 2006 sono dovuto fuggire. Avevo un credito di circa 25mila euro per dei lavori eseguiti per conto di un ufficiale che all’improvviso decise di non pagare. Gli operai che lavoravano per me reclamavano i loro salari. Ne nacquero dei diverbi e fui arrestato per aver messo in dubbio la parola di un militare. Posso dirmi fortunato perché dopo un anno fui rimesso in libertà da uno dei pochi giudici onesti, che ammise che non vi era motivo per cui fossi detenuto. Molti di quelli che erano in carcere con me, però, erano stati condannati a 30 anni. Molti altri furono uccisi. Una volta fuori, oltre ad aver perso il mio lavoro, sapevo che la mia vita non era più al sicuro. Essermi messo contro un ufficiale mi avrebbe riaperto dall’oggi al domani le porte del carcere o, peggio, mi sarebbe potuto costare la vita senza nemmeno far ritorno in cella. Ancor più per via della mia etnia e della mia fede: sono un curdo sunnita, un’etnia che il regime islamico non riconosce ed una fede che reprime, in nome del credo sciita. È così che ho deciso di fare quello che fece mio padre 37 anni prima di me: lasciare il mio Paese.


È così che iniziò il tuo viaggio verso l’Europa?


Sì. Fu un viaggio lungo, che mi costò quanto avevo. E che non avrei potuto affrontare con il passaporto iraniano. Per raggiungere la Turchia dovetti passare dall’Iraq ed ottenere un falso passaporto iracheno, pagato 6mila euro. Mi valse un volo per Istanbul, da cui raggiunsi la Grecia con un taxi. Altri 8 mila euro. Rimasi ad Atene per quasi tre mesi. Lavorai. Poi pagai 7mila euro ad un camionista per un viaggio di 36 ore fino ad Amburgo, in Germania. Da qui, in treno, attraversai la Danimarca e raggiunsi la Svezia. È qui, a Göteborg, che ho vissuto la mia prima vita europea.


Prima vita europea?


Una parentesi di 4 anni finita nel peggiore dei modi. Arrivato in Svezia, nel 2007, iniziai a lavorare in un’officina meccanica. Presto riuscii ad avviare un’attività mia: ero meccanico e carrozziere. Recuperavo vecchie auto, le rimettevo in sesto e le rivendevo. Le cose andavano bene, avevo anche un’importante commessa: le Poste svedesi avevano una convenzione con la mia officina per le auto che lavoravano in città. Poi all’improvviso ricevetti la visita della polizia svedese. Era l’ottobre del 2011. Avevano scoperto che qualcosa non andava col mio passaporto iracheno. Mi arrestarono e dopo due settimane, senza darmi udienza, mi misero su un volo per Baghdad.


Un volo per i rimpatri?


Un volo pieno di persone come me, che venivano rispedite a casa. Peccato che Baghdad, l’Iraq, non fossero casa mia. Le autorità irachene, all’atterraggio, non ci misero molto a capirlo. Nell’attesa di decidere il da farsi, mi diedero un visto di una settimana. Sapevo che da un momento all’altro mi avrebbero riportato a Teheran e allora, con l’aiuto di una persona in aeroporto, riuscii a ripartire.


Una seconda Odissea verso l’Europa.


Questa volta con molto meno in tasca. In Svezia in un batter d’occhio mi avevano confiscato tutto. L’azienda, l’officina, le auto di mia proprietà, i conti. Tutto congelato e quasi tutto andato perduto per sempre. Ripassai dalla Turchia e arrivai di nuovo in Grecia. I soldi però erano finiti e attraversai i Balcani a piedi: Albania, Montenegro, Serbia, Ungheria. Qui fui arrestato, in quanto irregolare, e detenuto per due mesi. Riuscii a fuggire ed a raggiungere l’Austria in macchina e poi finalmente l’Italia.


E il Salento.



Da Milano finii a Roma. Non sapevo dove andare, dormivo in stazione. Poi un ragazzo pakistano mi consigliò di venire in Puglia, mi parlava di un campo profughi. A Bari mi dissero che la Questura di Lecce avrebbe trovato un posto per me in un centro d’accoglienza. È così che arrivai a Castiglione d’Otranto. Era il 2013. Dopo qualche tempo, mi fu negato lo status di rifugiato, ancora una volta per via del passaporto falso grazie al quale lasciai il Paese che negava la mia vera identità. Ottenni un permesso di soggiorno di due anni (Protezione Umanitaria, NdA) che non mi permetteva di lasciare viaggiare fuori dall’Italia. E nel 2016 iniziai a lavorare nello stesso centro di Castiglione dove ero stato accolto.


In questi anni in cui sei stato lontano, come è cambiato il tuo Paese? Cosa vive oggi l’Iran?


La situazione è degenerata. Peggiora di anno in anno. Non è rimasto nulla dell’Iran libero ed emancipato degli anni ’70. Oggi è negata ogni libertà alle persone. Basta riunirsi in tre in piazza per essere arrestati. Ogni pretesto è buono per finire in galera. Chi viene meno al matrimonio (che è considerato un vero e proprio contratto), ad esempio, finisce in carcere. Chi manifesta dissenso viene arrestato o ucciso sul posto. I cadaveri non vengono portati alle famiglie ma vengono lasciati in strada, da monito per tutti.


Hai vissuto il carcere a Teheran. Cosa significa essere arrestati in Iran?


Significa quasi sempre morire. Oggi più che mai il carcere è una condanna. Torture, violenza, fame e tantissime esecuzioni. E poi i processi farsa, con giudici che esercitano il volere del sovrano. Tutto in nome dell’imposizione del credo sciita, così come lo interpreta la guida suprema. C’è solo una via per uscire dal carcere: la guerra. Ai prigionieri, innocenti o colpevoli che siano, viene offerta la libertà in cambio di un arruolamento. Si può lasciare la cella solo accettando di andare a combattere in Siria, Yemen o in altri luoghi dove è presente l’esercito iraniano.


Cosa ti raccontano oggi amici e parenti che hai in Iran?




Mi raccontano di un Paese in ginocchio e allo sbando. Per mandare i bambini a scuola bisogna pagare. C’è solo fame e miseria. Non c’è lavoro, né libertà. A mio nipote occorrono 5mila euro per due anni di scuola primaria. In strada regna il caos. Quando cala la notte, si fa largo la disperazione: nei quartieri delle città dilagano droga e furti. La tensione è tale che la stessa polizia è in pericolo: gli agenti sono costretti ad uscire in gruppo, minimo in tre o quattro, per non finire preda di rappresaglie.


Come vedi il futuro?


Questa situazione non può durare in eterno. La gente non ce la fa più. La fame accorcerà la vita del regime. Non sarà semplice, ma sono sicuro che tutto questo finirà, il popolo si riprenderà l’Iran.


Cosa ti accadrebbe se tornassi a Teheran?


Sarei perseguitato non solo per il mio passato ma anche per il mio presente: oggi, dopo un lungo iter, ho ottenuto lo status di rifugiato in Italia. Questo mi rende ancor di più un nemico della Repubblica Islamica. Se tornassi in Iran sarei condannato a morte.


In Salento hai iniziato una nuova vita. Cosa porteresti qui se potessi?


Oggi vivo e lavoro a Tricase, sono panettiere in una azienda del posto e ne sono felice. Ho anche degli amici che mi vogliono bene come a un fratello. Ma mi mancano la mia terra e la mia famiglia. Alcuni dei miei parenti sono ancora in Iran. Mia madre oggi vive in Iraq. Non la vedo da tanti anni, se solo un giorno potessi riabbracciarla proverei a convincerla a venire a vivere qui con me. Oggi sembra davvero impossibile, ma ci credo.


Attualità

Papa Leone XIV

Il nuovo Pontefice è Robert Prevost, primo americano a salire sul Soglio di Pietro

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Il nuovo Papa è l’americano Robert Prevost, si chiamerà Leone XIV.

Nato il 14 settembre 1955 a Chicago, Prevost era considerato come un papabile “di compromesso”, tra quelli che potrebbero riuscire nel difficile compito di unire le diverse e spesso contrastanti anime di una Chiesa cattolica che sta attraversando grandi cambiamenti.

La sua carriera inizia ufficialmente nel 1977, quando è entrato nel noviziato dell’Ordine di Sant’Agostino, nella provincia di Nostra Signora del Buon Consiglio, nella città di Saint Louis (Missouri).

I voti solenni arrivano il 29 agosto 1981.

Studente presso la Catholic Theological Union di Chicago, si è diplomato in Teologia.

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Habemus Papam

Fumata bianca, eletto il nuovo Pontefice

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Alle 18,08, le campane di tutte le chiese suonano a festa: è arrivata la fumata bianca!

Il Conclave al secondo giorno e alla quarta votazione ha scelto il nuovo Papa.

Piazza San Pietro è in festa mentre cresce l’attesa per l’annuncio del nome del Pontefice.

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Attualità

Sentenza pro OLC, il sindaco di Tricase: «Non faremo ricorso»

«Chiederemo un incontro agli imprenditori e ragioneremo sulla fattibilità dell’intervento. Insieme, vedremo il da farsi»

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Dopo la pubblicazione della sentenza del Tribunale amministrativo che ha bocciato il parere negativo del Comune di Tricase rispetto la riconversione dell’ex complesso industriale Adelchi ad opera della OLC, abbiamo rintracciato telefonicamente il sindaco Antonio De Donno.

Il primo cittadino a specifica domanda risponde: «Non faremo ricorso».

E aggiunge: «Chiederemo un incontro agli imprenditori e ragioneremo sulla fattibilità dell’intervento. Insieme, vedremo il da farsi».

Il primo cittadino infine precisa: «La sentenza non autorizza in automatico tutte le richieste dell’azienda, ha comunque rimandato il pallino al Comune di Tricase che, ovviamente, stando alla decisione dei giudici, non potrà negare l’autorizzazione per i motivi che hanno portato al ricorso Tar».

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