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Attualità

Don Tonino Bello “scrive” una lettera ai ragazzi che iniziano l’anno scolastico

Il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, mons. Vito Angiuli, ha preso per la seconda volta carta e penna e “ha fatto scrivere” ai ragazzi nientemeno che il compianto vescovo Don Tonino Bello

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Ugento, 11 settembre 2013 In questi giorni i ragazzi italiani ritornano sui banchi per iniziare un nuovo anno scolastico. E come ogni anno in questi giorni si rincorrono le cifre sul caro scuola, sulle difficoltà a coprire le cattedre, insomma l’attenzione prevalente va alle questioni economiche, con qualche scivolamento sulla cronaca nera… Eppure su quei banchi scolastici ci sono persone, ragazzi che cercano di dare un senso alla loro vita, alla loro affettività.


Per questo il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca mons. Vito Angiuli, ha preso per la seconda volta carta e penna e “ha fatto scrivere” ai ragazzi nientemeno che il compianto vescovo Don Tonino Bello, le cui spoglie riposa da 20 anni nella cittadina di Alessano, ma che continua ad essere una energia della vita capace di fare innamorare di Cristo giovani e adulti. Il titolo della “lettera di don Tonino” (scritta da Angiuli) è molto forte: “Tutto passa… solo l’amore resta”. E si struttura in due parti: “I grandi amori di don Tonino Bello” (la vita, la terra, i poveri, Gesù) e “come vivere la vita con una forte passione”. Angiuli/don Tonino vuole appunto sollecitare i ragazzi – ma dà anche una scossa anche agli adulti, genitori ed educatori – a prendere in mano, come ha fatto don Tonino, la loro vita, senza lasciarsi andare al non senso; e l’unico modo per essere protagonisti, non passivi, dello loro vita è quello di centrarla sull’amore, che non è una ideologia, che non è una filosofia, ma una relazione concreta con Dio e con i fratelli. Secondo Angiuli/don Tonino occorre aiutare i ragazzi a credere nell’amore, non solo nelle proprie capacità intellettuali o tecniche. Amare, e vivere il rapporto con la terra, con i poveri, con Gesù ha come esito quello di vivere la vita in pienezza, con una grande passione. E anche i dubbi e le incertezze dell’adolescenza – che anche don Tonino, come ogni adulto, ha avuto – non sono un handicap, non sono un “tunnel oscuro” senza via di uscita, ma semplicemente la fatica della crescita per diventare persone adulte. Insomma, il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, con questa lettera inviata a tutti i ragazzi che stanno iniziando l’anno scolastico 2013-2014 vuole spingere tutti nella direzione della consapevolezza che i ragazzi sono una grande risorsa e non solo un problema economico, pedagogico, piscologico o politico. La fede cristiana può dire molto a loro, per condurli nella direzione della vera felicità, che non è assenza di sofferenza, ma capacità di vivere la vita in pienezza. Come ha fatto don Tonino Bello, “innamorato di Gesù”.


Tutto passa… solo l’Amore resta!


Cari giovani,


sono don Tonino Bello, nato ad Alessano nel 1935 e divenuto Vescovo di Molfetta, Giovinazzo, Ruvo e Terlizzi nel 1982. Ora riposo serenamente nel cimitero del mio paese. Forse vi domanderete: «Come mai, a vent’anni dalla morte, don Tonino ci invia questa lettera?». La risposta è molto semplice. La morte non è la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova vita. Niente è perduto per chi ama perché «forte come la morte è l’amore» (Cantico dei Cantici 8,6). L’amore annulla la distanza e rende possibile il dialogo anche oltre la vita terrena. Facendo mie la parole di un poeta, posso dire che «sono solamente passato dall’altra parte: è come fossi nascosto nella stanza accanto».


Se dopo vent’anni dalla mia morte vi invio questa lettera è solo per testimoniarvi il segreto della mia vita. Esso si può riassumere in un solo verbo: amare! L’amore dona gioia e mantiene desta la passione per il bene.


I MIEI QUATTRO AMORI


Tutto passa… solo l’Amore resta!


Questa frase contiene un meraviglioso messaggio e una forte provocazione. Alla fine della vita, infatti, giungerà puntuale e implacabile la domanda: hai amato? Per spronarvi a fare dell’amore la legge della vostra esistenza vi racconto i quattro amori della mia vita.


Ho amato la vita!


Non la bella vita, ma la vita bella!a bella!


La bella vita è:


•  sinonimo di disimpegno e di ricerca di soddisfazioni immediate e passeggere;


•  desiderio di provare le sensazioni e le emozioni che si presentano ogni giorno;


•  voglia di “cogliere l’attimo fuggente” senza preoccuparsi del domani;


•  smania di vivere “alla giornata” scrollandosi di dosso ogni responsabilità.


La vita bella, invece, è:


•  desiderio di un sapere che spinge alla conoscenza approfondita delle cose;


•  bisogno di coltivare rapporti sinceri, intensi e duraturi con gli altri;


•  capacità di affrontare con coraggio i sacrifici necessari per raggiungere gli obiettivi prefissati;

•  attitudine a coltivare il desiderio di percorrere sentieri impervi e inesplorati;


•  aspirazione a nutrire grandi sogni, a non sprecare le proprie energie fisiche, intellettuali e spirituali, a vivere con saggezza la propria libertà.


La vita bella è il frutto dell’amore!


L’amore rinnova ogni cosa e dona la forza per affrontare con coraggio la sofferenza e il dolore. A questo proposito potrei raccontarvi la mia esperienza e dirvi quello che ho provato quando ho scoperto di avere un cancro. Vi rinvio invece alla testimonianza di un giovane come voi, Fabio Salvatore, che potrete trovare anche in internet.


Fabio, un attore avviato a una promettente carriera, a 21 anni, scopre un tumore che non perdona. Il referto del medico è inequivocabile: cancro alla tiroide. Fino a quel momento aveva creduto che la vita fosse ai suoi piedi e che la forza fosse l’arma vincente per affrontare la vita e ottenere successo, donne e molti soldi.


Bisogna intervenire in fretta. Ma egli continua a recitare in teatro, nascondendo tutto ai familiari, finché afono e privo di forze è costretto a soccombere allo “scara-faggio”. Operato d’urgenza, supera l’intervento e fa la sua prima radioterapia. Perde lavoro, amici e popolarità, ma in quel baratro inizia finalmente a guardarsi dentro. Passano i mesi, e dopo un anno parte per il Portogallo. Il viaggio lo porta a Fatima. Si affida completamente alla Madonna, chiede aiuto fra le lacrime e da quel giorno il suo deserto fiorisce e si riempie di colori. Anche la tragica morte del padre, in un incidente stradale, non lo abbatte. Oggi, dopo 14 anni di malattia e di cure, Fabio sa di essere un uomo fragile, reso forte dalla fede che ha illuminato i suoi passi e ha colorato d’azzurro la sua sofferenza.


Ho amato la mia terra!


Come vi ho già accennato, sono nato ad Alessano e ho vissuto gran parte della mia vita a Ugento e a Tricase. La terra salentina mi è entrata prepotentemente nel cuore. Certo, essa sembra una terra senza risorse. Bella nella patina ferrigna delle sue rocce. Splendida nel biancore dei suoi paesi. Malinconica nel contorcimento degli ulivi secolari. Struggente nella purezza del mare e nel fulgore del suo biblico sole. Ma arida di piogge e di speranza. Geograficamente emarginata, fatta fuori dalle grandi linee di comunicazione e di trasporto. Con tutti i problemi che si accompagnano alla povertà provocata dallo strapotere degli altri. In questa terra così bella per la sua asprezza e la sua luminosità vive una gente abituata al sacrificio e alla durezza della vita. Una gente povera di denaro, ma ricca di sapienza. Dimessa nel portamento, ma aristocratica nell’anima. Rude nel volto contadino, ma ospitale e generosa. Con le mani sudate di fatica e di terra, ma linda nella casa e nel cuore. Una gente “naturaliter religiosa”, che trova simboli del suo affidarsi alla Provvidenza in due moduli dialettali molto frequenti: “fazza Diu” per l’accoglimento delle disavventure, e “se vole Diu” per la consegna delle speranze. Ho amato questa terra. E tutte le volte che mi è stato possibile sono ritornato a rivedere i luoghi e gli amici conosciuti fin da piccolo. Prima di partire per Molfetta, sul molo del porto di Tricase, avevo promesso che non avrei mai dimenticato questi posti incantevoli ai quali più volte ho fatto riferimento nei miei scritti. Ho suggellato il patto di amore con la mia terra chiedendo di essere seppellito accanto a mia madre. E così è stato.


Ho amato i poveri!


I poveri sono la grande risorsa della Chiesa. Per questo ho scelto come motto episcopale le parole del salmo: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3). Mi ha sempre molto colpito il brano del Vangelo di Matteo che riassume tutto il cristianesimo nelle opere di misericordia: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,35-40). Quando ho capito la bellezza di questo amore senza limiti e senza riserve per i poveri mi si è spalancato un grande orizzonte, un nuovo mondo, un affascinante stile di vita. Vi prego, cari giovani, anche voi fate lo stesso. Non distogliete lo sguardo da coloro che soffrono, ma come il buon Samaritano accostatevi a loro, fasciate le loro ferite, aiutateli a riprendere con gioia il loro cammino.


Ho amato Gesù!


Sì, ve lo confesso senza reticenze: mi sono innamorato di Gesù! Anche voi, cari giovani, innamoratevi di Lui! Quando parlo di innamoramento di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della vita. Il Signore non è una fascia, una frangia, un merletto, sia pure notevole, che si aggiunge al panneggio della nostra esistenza. L’amore per Cristo, se non ha il marchio della totalità, è ambiguo. Il part-time, il servizio a ore, magari col compenso maggiorato per lo straordinario, con Cristo non è ammissibile, un servizio a ore saprebbe di mercificazione. Innamorarsi di Gesù Cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui, dimestichezza con lui, frequenza diurna nella sua casa, assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle esigenze più radicali del Vangelo.


VIVETE LA VITA CON UNA FORTE PASSIONE


Cari giovani, vivete anche voi appassionatamente questi quattro amori: la vita, la terra, i poveri, Gesù. Lo so. Non è facile! Era difficile ai miei tempi. È diventato più difficile, oggi. Se vado indietro nel tempo mi vengono in mente i miei anni del ginnasio: un mare di dubbi. Dubitavo perfino della mia capacità di affrontare la vita. Che età difficile! Hai paura di non essere accettato dagli altri, dubiti del tuo charme, della tua capacità d’impatto con gli altri e non ti fai avanti. E poi problemi di crescita, problemi di cuore… Ma voi non abbiate paura, non preoccupatevi! Se lo volete, se avrete un briciolo di speranza e una grande passione per gli anni che avete… cambierete il mondo e non lo lascerete cambiare agli altri. Vivete la vita con una forte passione. Non recintatevi dentro di voi circoscrivendo la vostra vita in piccoli ambiti egoistici, invidiosi, incapaci di aprirsi agli altri. Appassionatevi alla vita perché è dolcissima. Mordete la vita! Non accantonate i vostri giorni, le vostre ore, le vostre tristezze con quegli affidi malinconici ai diari. Non coltivate pensieri di afflizione, di chiusura, di precauzioni. Mandate indietro la tentazione di sentirvi incompresi. Non chiudetevi in voi stessi, ma sprizzate gioia da tutti i pori. Bruciate… perché quando sarete grandi potrete scaldarvi ai carboni divampati nella vostra giovinezza. Incendiate… non immalinconitevi. Perché se voi non avete fiducia, gli adulti che vi vedono saranno più infelici di voi. Coltivate le amicizie, incontrate la gente. Coltivate gli interessi della pace, della giustizia, della solidarietà, della salvaguardia dell’ambiente. Il mondo ha bisogno di giovani critici… Diventate voi la coscienza critica del mondo. Diventate sovversivi…. Il cristiano autentico è sempre un sovversivo; uno che va contro corrente non per posa ma perché sa che il Vangelo non è omologabile alla mentalità corrente… Non so se li ricordate, se li avete letti in qualche vostra antologia quei versi di Neruda in cui egli si chiede cosa sia la vita:


«Tunnel oscuro, – dice – tra due vaghe chiarità


o nastro d’argento su due abissi d’oscurità?»


Quando ero parroco li citai durante una messa con i giovani. Poi chiesi: perché la vita non può essere un nastro d’argento tra due vaghe chiarità, tra due splendori? Non potrebbe essere così la vostra vita? Vi auguro, davvero, che possiate interpretare la vita in questo modo bellissimo.


Vi saluto con affetto! Buon anno scolastico!


Attualità

Presentato il calendario della Polizia locale contro la violenza di genere

Ogni mese, attraverso gli scatti di Giacomo Fracella, racconta un valore, un gesto, un simbolo di rispetto e di tutela…

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Lo speciale calendario della Polizia Locale di Nardò per il 2026 è dedicato al tema del contrasto alla violenza di genere.

Ogni mese, attraverso gli scatti di Giacomo Fracella, racconta un valore, un gesto, un simbolo di rispetto e di tutela. Ci sono, tra le altre cose, un paio di scarpette rosse sul suolo di piazza Salandra, una foto di gruppo delle agenti del Comando di via Crispi, la panchina rossa.

Dietro queste immagini c’è il lavoro quotidiano della Polizia Locale, che con dedizione e sensibilità opera per garantire sicurezza e dignità ai cittadini e ovviamente anche a tutte le donne.

Questa mattina il comandante Cosimo Tarantino ha presentato il calendario nella sede di via Crispi, consegnando una copia al consigliere delegato alla Polizia Locale Gabriele Mangione e all’assessora con delega alle Pari Opportunità Sara D’Ostuni. Presenti anche la consigliera Daniela Bove e la vice comandante Simona Bonsegna.

“Questo calendario – ha detto il comandante Cosimo Tarantino – è un messaggio di coraggio e speranza. Pensiamo che ognuno di noi debba fare la propria parte nel contrasto alla violenza di genere, la Polizia Locale ha ritenuto quest’anno di utilizzare il calendario come importante veicolo divulgativo per sensibilizzare tutti. È importante non abbassare mai la guardia”.

“Questo è un tema che interessa singoli, famiglie e istituzioni – ha aggiunto il consigliere delegato alla Polizia Locale Gabriele Mangione – e ognuno deve affrontarlo nei limiti del proprio ruolo e delle proprie possibilità. Questo calendario è uno strumento istituzionale, ma stavolta anche un segno tangibile di vicinanza nei confronti dei cittadini e di tutte le donne”.

“Ringrazio il Corpo di Polizia Locale – ha detto ancora l’assessora alle Pari Opportunità Sara D’Ostuni – per questa iniziativa di estrema sensibilità e responsabilità. Avere a casa questo calendario ci ricorda ogni giorno che il contrasto alla violenza di genere non può e non deve essere una battaglia episodica, ma costante e generalizzata”.

Dalla prima edizione del calendario della Polizia Locale di Nardò sono passati ormai 24 anni, dedicata all’epoca alla sicurezza stradale e arricchita dai disegni sul tema degli studenti delle scuole primarie. Questa edizione, invece, arriva nell’anno (il 2026) che celebra i 160 anni della Polizia Locale italiana.

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Approfondimenti

Marina, 36 anni, per Sant’Egidio a Bangui, Centroafrica: “Vicina agli ultimi della terra”

“A 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro, ma poi…

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L’INTERVISTA ESCLUSIVA

di Luigi Zito

A quale scintilla primitiva si affida l’animo umano quando la fiamma d’amore si accende, si sviluppa, si infiamma e riluce sino a risplendere luminosamente?
E qual è la moneta che ripaga la gratificazione che plasma il nostro cuore, che lo trasforma da cima a fondo, e che lo muove a donarsi agli altri?

Non credo sia solo una mia curiosità, è un affanno che accompagna la vita, che frequentemente ci pone davanti a simili dilemmi. È un tarlo capire cosa muove il sole e le stelle: cosa spinge una giovane donna a lasciare la zona comfort della sua vita per aprirsi al mondo, donarsi e aiutare chi è in difficoltà ed ha più bisogno?
Ancor più se, per farsi piccola per diventare grande, ha scelto di farlo a migliaia e migliaia di chilometri da casa.

È il caso di Marina Ciardo, 36 anni, di Tricase, che da anni vive a Bangui, Repubblica Centroafricana ed è Capo Progetto per l’Associazione Sant’Egidio.

Marina, di buon grado, ha amabilmente risposto a mie precise sollecitazioni.

«VOLEVO CAMBIARE IL MONDO»

«“Cosa vuoi fare dopo la scuola?”. Questa era la fatidica domanda che parenti, amici e insegnati mi ripetevano verso la fine del quinto anno delle superiori. Forse il lavoro che svolgo oggi è proprio la risposta a quella domanda che allora mi trovava impreparata. Non ci avevo mai pensato prima, ma su una cosa ero certa: volevo viaggiare, conoscere nuove culture e usanze diverse dalla mia, cercare di capire quello che, probabilmente, mi è ancora inspiegabile, divertirmi e, soprattutto, provare a cambiare il mondo! Si perché a 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Così, sfogliando una guida delle facoltà universitarie, ho scoperto il corso di laurea in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale a Parma.

E allora mi sono detta: “Ma si, dai! proviamoci”, d’altronde potrebbe unire due strade: quella dell’economia, già intrapresa alle superiori (e che tanti dei miei affetti mi spingevano a proseguire, perché così trovi subito lavoro), e quella della cooperazione internazionale, un mondo inesplorato ma affascinante».

«LA MIA AFRICA»

Come sei arrivata in Africa, a Bangui?

«Non faccio altro che ripetermi, se oggi sono qui, in Africa, é anche grazie al mio professore di Storia ed economia dei Paesi in via di sviluppo, che ci ha sempre spronato a fare un’esperienza nel campo della cooperazione, precisando anche che il lavoro del cooperante non è per tutti: o lo ami o lo subisci. Concludendo poi con un’amara postilla: “Molti dei miei studenti sono giunti alla laurea magistrale ma, di fatto, non hanno mai intrapreso quella strada”.

Incoraggiata e sostenuta dalla mia famiglia, durante l’estate del secondo anno universitario ho deciso di fare una esperienza diretta, sono entrata in contatto con l’Ong Coope – Cooperazione Paesi Emergenti -, e ho vissuto un mese straordinario in un piccolo villaggio a sud della Tanzania, Msindo.

Allora, ho realizzato chiaramente: «Questo è ciò che voglio fare! Conoscere una realtà così diversa dalla mia, vedere la gioia delle persone che, nonostante la consapevolezza delle difficoltà giornaliere, continuano a lottare, sorridendo, con impegno, voglia di farcela, aggrappati alla vita come mai avevo visto fare prima. Dando una mano, facendo piccole cose, ho vissuto momenti e emozioni che stravolgono. Questo mi ha fatto sentire utile. A volte è bastato anche solo aver aggiustato una staccionata in una scuola».

Finita quell’esperienza, cosa è successo?

«Sono rientrata in Italia e ho assaporato per la prima volta il mal d’Africa di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare. Così ho continuato il percorso universitario prima a Parma e poi a Torino. Una volta specializzata in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale, ho assolto il servizio civile in Madagascar, poi il primo lavoro con la Ong Emergency (in repubblica Centroafricana e nel Kurdistan iracheno), successivamente con il Cuamm (Medici con l’Africa) nel Sud Sudan e, infine, da quasi 6 anni, nuovamente nella repubblica Centroafricana con la Comunità di Sant’Egidio».

Come opera la comunità di Sant’Egidio?

«Principalmente in due settori: il primo riguarda la salute, attraverso il programma Dream: cura le malattie croniche come l’epilessia, il diabete, l’ipertensione, l’HIV, l’asma e malattie renali leggere; il secondo è rappresentato dal programma Pace e Riconciliazione che, in modo costante e discreto promuove la pace.

È ben noto il ruolo di mediatore della Comunità di Sant’Egidio tra le parti in conflitto in RCA. La firma dell’Accordo Politico per la Pace, il 19 giugno 2017 a Roma, tra il governo centrafricano e 13 gruppi politico-militari è stato un momento cruciale nella storia del Paese. Questo accordo ha avviato, di fatto, il processo di dialogo e disarmo, che ha avuto un secondo e altrettanto importante momento con la firma degli Accordi di Khartoum nel febbraio 2019».

Qual è il tasso di povertà dove ti trovi? Di cosa c’è più bisogno? La situazione politico-economica, carestie? Guerre?

«Situata nel cuore dell’Africa, la Repubblica Centroafricana (RCA) è, dopo la Somalia e il Sud Sudan, è il paese più povero al mondo.
Nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano è 191° su 193 paesi presi in esame; il 60%, dei circa sei milioni di abitanti, vive con meno di un dollaro al giorno.
Si registra, purtroppo, uno tra i più alti tassi di mortalità materno-infantile e la popolazione ha in media un’aspettativa di vita piuttosto bassa (intorno ai 54 anni). Nonostante la posizione strategica e le risorse naturali presenti sul territorio, il Paese affronta da decenni una profonda instabilità politica che ha minato lo sviluppo economico e sociale.

Sono innumerevoli i colpi di Stato, le rivolte e i conflitti armati. Negli ultimi anni il Governo centrale ha avuto un controllo limitato sul territorio, soprattutto nelle regioni settentrionali e orientali, dove sono presenti gruppi ribelli e milizie locali. Non mancano le interferenze straniere che si manifestano con la presenza di milizie mercenarie, protagoniste talvolta discontri armati e violazioni dei diritti umani.

È un Paese che vive principalmente grazie ad agricoltura, estrazione di diamanti e oro e industria del legname. La crescita economica è ostacolata da mancanza di infrastrutture, insicurezza e instabilità politica. Questi elementi, combinati con una povertà estrema e la carenza di servizi essenziali, hanno generato una grave crisi umanitaria. Le donne e i bambini i più vulnerabili, esposti come sono a violenze, malnutrizione e mancanza di istruzione. Sono cresciuta molto con ogni organizzazione, sia a livello personale che professionale, ma la lunga permanenza a Bangui, mi ha permesso di contribuire alla formazione dei giovani locali, che desiderano migliorare la situazione del loro Paese».

IMPOTENZA E DOLORE

«Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata»

Ci racconti un aneddoto, un avvenimento, che ti ha toccata particolarmente?

«Sono stati anni impegnativi, difficili, che hanno permesso la nascita di amicizie profonde, anche con pazienti per me speciali, che oggi non ci sono più. Il senso di impotenza e il dolore per la loro perdita ti svuota, ti consuma, ti fa credere di non poter andare avanti. Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata. Forse è proprio questa la sfida ma credo che tutto questo mi stia forgiando. Essere testimone, lottare, nel bene e nel male, provoca una forza mista a rabbia che spinge ogni giorno a dare il meglio, anche se a volte non è abbastanza.

A Bangui sono arrivata nel gennaio del 2020, con la prospettiva di starci un anno o poco più, invece, a quasi 6 anni dal mio arrivo, mi ritrovo qui a scrivere questa mia storia e, forse, tracciare anche un bilancio.

Quando parlo con i nuovi colleghi (qui c’è un turnover molto intenso, la permanenza media è da 6 mesi a un paio d’anni), inevitabile che chiedano: “Da quanto tempo sei qui?”. E alla mia risposta, “Quasi 6 anni”, mi incalzano: “Perché?!”.
Non so spiegarlo in poche parole: conservo un “album di emozioni” e da brava amministratrice ho difficoltà a tradurlo in parole. Il fantastico team dell’associazione é un ingrediente fondamentale per questa ricetta di resistenza/resilienza».

TRA MALATTIE E COPRIFUOCO

Covid e altre malattie, come le affrontate?

«Nel 2020 abbiamo trascorso il periodo del covid e il mio primo periodo con questa nuova realtà lavorativa. Non abbiamo sofferto come in Italia, le restrizioni erano blande, c’era solo la paura di essere contagiati e stare male, e allora sì che sarebbe stato un problema, vista l’assenza di ospedali specializzati.
Il 2021 c’è stato un tentativo di colpo di Stato, Bangui era stata dichiarata “Ville mort” (città morta), una città “ibernata” per un paio di settimane e sotto coprifuoco (se ti trovavano per strada non chiedevano un documento o ti facevano una multa, rischiavi di essere ammazzata), che lasciava pochissimo spazio per lo svago, gli amici, per lamentarsi del caldo, delle zanzare, della mancanza d’acqua e degli sbalzi di elettricità che rischiavano di bruciare quello che lasciavi innescato alla presa della corrente».

Ci descrivi una tua giornata tipo?

«Ci si sveglia prendendo il caffè (rigorosamente Quarta!), cercando di mettere in ordine le priorità della giornata, con la consapevolezza che, nel momento in cui metterai piede in ufficio, verrai assalita da mille imprevisti: problemi con le banche, con le macchine, lentezze inesorabili dei Ministeri e cose che si rompono: qui molte cose si rompono con una velocità incredibile.

Seguo principalmente due progetti: il Programma Dream (gestiamo una clinica e un padiglione di ospedale e curiamo circa 3mila pazienti cronici e una media di 100 nuove donne incinte al mese che accompagniamo nel percorso prenatale. Tutti i servizi sanitari sono a pagamento, mentre il nostro programma prevede gratuità e presa in carico in modo olistico del paziente).

E poi abbiamo avviato, da 3 anni, delle campagne di vaccinazione porta a porta per i bambini da 0 a 2 anni.
Per il progetto “mediazione di pace”, mi limito a seguire l’ufficio per evitare problemi di carattere amministrativo e logistico».

“Basta! Mollo tutto e torno in Italia!”, l’hai mai pensato?

«Mi succede spesso, anche più volte nello stesso giorno.
Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere e sottolineare solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro.
Mi hanno molto aiutato e sostenuto le amicizie qui a Bangui.

Avere delle persone che in un quadro nero intravedono un punto bianco e riescono a fartelo vedere e apprezzare, non è scontato.
È questa la forza che mi è stata trasmessa giorno per giorno, che mi aiuta a inquadrare l’amore per questa professione, mi fa andare avanti e ammirare questo quadro caravaggesco: sebbene prevalgano le ombre, la presenza di luce, minima ma potente (carica di quanto si è realizzato), è dominante».

COSA FARAI DA GRANDE?

Hai già deciso cosa farai in futuro?

«Bisogna sempre tenere alto il morale delle truppa: nel mentre si accavallano le emozioni, il leitmotiv mi ritorna in mente, mentre mi ritrovo a scrivere questa storia, a pochi giorni dalla mia partenza, al momento definitiva, da Bangui.
Questa è la parte relativa al lavoro, ma non c’è solo questo.

A Bangui è presente anche un gruppo locale della Comunità di Sant’Egidio, giovani centroafricani che, malgrado le difficoltà, cercano di vivere lo spirito evangelico della Comunità del Santo.

Lo fanno nella gratuità e nell’amicizia, prestano servizio ai poveri, ai bambini di strada, alla scuola di pace e alla cura degli anziani soli e senza sostegno. Mi emoziona vedere che esistono dei giovani che sperano e lavorano per un futuro diverso per il loro Paese.

Dopo quasi 10 anni di lavoro non so ancora dare una risposta alla domanda che Gabriella mi pone “ogni 2 per 3”: Cosa vuoi fare da grande?! So che voglio continuare, e mi impegnerò al 100% per fare in modo di soddisfare almeno in parte quel desiderio di “cambiare le cose” in meglio. Aiutare, vedere la gente sorridere, scoprire la bellezza delle diversità, affinchè quello che ha spinto una giovane salentina ad affrontare questo mestiere, si avveri.

Ecco la mia risposta: «Non so cosa farò da grande, ma il mio lavoro mi piace e continuerò a farlo».

COME AIUTARE

Come possiamo aiutare la tua comunità?

«Con una donazione a:

COMUNITÀ DI S. EGIDIO ACAP – ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCI – IBAN: IT36Q0200805074000060045279

Causale: Programma Dream Centrafrica»

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Appuntamenti

Presepe Vivente di Tricase e il racconto dei suoi 43 anni

Tante le storie: Teresa Blandolino ha 76 anni. È la pastaia che produce le orecchiette, ed è presente in modo continuativo nel Presepe Vivente di Tricase dal 1981…

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di Lorenzo Zito

Quante storie dentro questa meravigliosa storia.

I 43 anni di Presepe Vivente a Tricase sono fatti di volti, di dedizione e di attesa per una ricorrenza che, nel tempo, per tanti è diventata appartenenza a tutti gli effetti.

Tra i figuranti di questa natività (tra le più rinomate d’Italia) ci sono dei nomi divenuti indelebili per la Betlemme tricasina. Personaggi che lì, sulla collina di Monte Orco, hanno visto transitare intere generazioni.
Nel loro impegno e nella loro passione, che dura da una vita, abbiamo cercato una fotografia di questa manifestazione lunga quasi mezzo secolo.

UNA STORIA INFINITA

Teresa Blandolino ha 76 anni. È la pastaia che produce le orecchiette, ed è presente in modo continuativo nel Presepe Vivente di Tricase dal 1981. Ci concede un suo pensiero sulle sue ben 40 edizioni, all’ombra della luccicante stella cometa: “Il mio primo ricordo del presepe è la sua stessa grandezza. Le migliaia di luci, che mai prima avevo visto tutte insieme, con quella cascata, che sembra vera”.
Impossibile non ripensare ad Andrea Rizzo, per tutti Andreuccio. Il compianto fondatore del Presepe Vivente.

Colui che, nel 1976, decise di aprire la sua casa a tutti coloro che hanno Gesù nel cuore, trasformandola in una gigantesca rappresentazione con pochissimi eguali nel mondo.

Di Andreuccio conservo un dolce ricordo. Era una persona indaffarata ma gentile. Passava spesso dalle postazioni dei personaggi, per chiedere se tutto andasse per il meglio e portarci una cosa calda”.
Ora, che l’età avanza, è ora di passare il testimone: “Già da qualche anno le mie due nipoti, Teresa e Giulia, di 25 e 30 anni, mi affiancano con entusiasmo in questa esperienza”.

Teresa non è la sola veterana. Ci sono le sapienti mani da tessitrice di Luchenia Scarascia, che da anni manovrano u talaru. C’è Saverio De Roma, l’immancabile scarparu. Ed ancora Donato Musio, il casaro. L’arte figula di Luciano Cazzato, il vasaio che a 90 anni ancora lavora l’argilla.

E poi c’è chi tutti gli anni viene da paesi vicini, come Mario Branca da Ruffano, nel ruolo di San Giuseppe da oltre due decenni, e Pino Manco da Taurisano, nella bottega del mosaicista.

MONTE ORCO, MAGIA E APPARTENENZA

Il Presepe Vivente di Tricase oggi è tra le otto rappresentazioni più longeve del Mezzogiorno.

Nato nel 1976, quando Andrea Rizzo aprì la sua casa in cima a Monte Orco per condividere con la comunità la sua devozione, il Presepe Vivente è cresciuto fino a diventare un grande cammino dentro la Natività: un percorso ambientato tra scene, luci e antichi mestieri, con centinaia di figuranti che raccontano, insieme, fede e identità salentina.
In anni recenti, una rappresentanza è stata anche in udienza con Papa Francesco, portando questa “Betlemme” del Capo di Leuca fino a Roma.

Se tutto questo non ha ceduto al tempo e ai radicali cambiamenti che esso ha portato con sé lo si deve anche a queste persone che, sera dopo sera, si prestano con dedizione rara: per amore dell’evento, per orgoglio verso ciò che rappresenta per la città, per il desiderio di custodire un rito che li supera e li unisce.

Sfidano il freddo e la stanchezza, sottraggono ore alle proprie case e ai familiari nei giorni di festa, per offrirle a una famiglia più grande: quella di Tricase e di tutti i fedeli e visitatori che arrivano fin qui, da ogni dove.

Tutto ciò porta avanti quello spirito che ogni anno convoglia da tutta Italia e dal mondo migliaia di persone: si parla di oltre centomila presenze per edizione, numeri che spiegano, meglio di qualsiasi aggettivo, la forza di richiamo di Monte Orco e della sua Natività.

Un valore inestimabile che, non a caso, viene oggi tramandato alle nuove generazioni.

Perché il Presepe Vivente non è soltanto una rappresentazione: è una memoria condivisa che insegna a stare insieme, a prendersi cura di un’eredità comune e a farla vivere nel presente.

È quella magia che resta addosso nel tempo e trasforma ogni gesto, anche il più semplice, in appartenenza.

Il Presepe Vivente di Tricase sarà aperto nei giorni 25, 26, 27, 28 dicembre 2025, 1, 3, 4 e 6 gennaio, dalle 17 alle 20,30.

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