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Attualità

Patù: l’ultimo saluto a Marco. E gli amici lo ricordano così

Ieri pomeriggio, nella Chiesa Madre del piccolo centro gremito di folla, l’estremo saluto a Marco Pedone, il 23enne caporalmaggiore degli Alpini barbaramente assassinato

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Ieri pomeriggio, nella Chiesa Madre del piccolo centro gremito di folla, l’estremo saluto a Marco Pedone, il 23enne caporalmaggiore degli Alpini barbaramente assassinato dai terroristi in Afghanistan lo scorso 9 ottobre. I funerali, alla presenza dei familiari distrutti dal dolore, di tantissime autorità (fra cui il Governatore Nichi Vendola, il presidente della Provincia Antonio Gabellone, il sindaco Angelo Galante) e centinaia di persone, sono stati celebrati da don Gerardo Antonazzo, amministratore della Diocesi di Ugento-S.M. di Leuca, il quale ha invitato, fra le altre cose, a riflettere soprattutto sul senso delle missioni militari internazionali.


Quanti altri eroi alla memoria?


Alla notizia dell’uccisione di Marco Pedone nell’agguato ai nostri quattro ragazzi in Afghanistan, tutti gli abitanti di Patù, paesino di duemila anime, si sono chiusi nel silenzio, schiacciati dal dolore e dall’incredulità. Gli amici, però, hanno esternato i propri sentimenti e la loro vicinanza a Marco ed alla sua famiglia su Facebook, il social network più diffuso e sempre più punto di riferimento e piazza virtuale degli italiani. In tantissimi hanno sostituito la classica foto del profilo con il Tricolore listato a lutto. Parole poche o nessuna: in questi casi diventa difficile parlare anche se, come ci ha detto qualcuno di loro, “Marco era un’ottima persona, un gran bravo ragazzo e merita che di lui si dica ogni bene possibile”.


Gabriele Abaterusso, impiegato 28enne di Patù, lo conosceva “abbastanza. Il ricordo è quello di una persona solare sempre con il sorriso sulle labbra come si è potuto vedere anche dalle tante foto apparse sui giornali”. Il sentimento che prevale in Gabriele è “incredulità, ancora adesso non riesco a capacitarmene. Abbiamo visto le immagini in tv… fatichiamo a realizzare che Marco non ci sia più”. Resta però la sua eredità morale: “Affrontare sempre a testa alta tutto quello che la vita ci mette davanti, cercando di vedere sempre il lato positivo delle cose e andare avanti nonostante le difficoltà. Ecco, Marco era così…”. Gabriele, riguardo la missione quasi decennale delle nostre forze armate in Afghanistan, prima dice che “non è questo il momento di lasciarsi andare a giudizi, la contingenza sicuramente influenza ogni pensiero. Certo, anche prima che la triste notizia ci cadesse sulla testa, avevo una mia opinione: pensavo e penso che lo scopo sia nobile ma che forse, dopo tanto impegno ed il prezzo fin troppo alto pagato, i risultati non siano all’altezza”.

Antonio Greco ha 23 anni, anche lui è di Patù e studia a Torino: “Ho frequentato Marco prima come “amico d’estate” ed in seguito come compagno di scuola. Quella mattina stavo lavorando e non ho avuto l’opportunità di guardare i TG; ho saputo dell’incidente tramite mia mamma ed un amico che si trova a Parma”. La notizia è stata come una coltellata: “Di sicuro la mia prima reazione è stata di incredulità… Poi, con la tristezza addosso, ho continuato a lavorare fino alla pausa, momento in cui ho ricontattato degli amici comuni, ho chiesto qualche notizia in più e confrontato il nostro stato d’animo”. Il ricordo: “Di Marco ricordo tutto e niente, il suo volto sempre sorridente ma alle volte un po’ insicuro (“ma chi non lo sarebbe stato?”) per quello che sarebbe andato a fare… e comunque ci è andato! A noi, suoi amici, penso che più di ogni altra cosa lascerà l’insegnamento del suo agire quotidiano: una bellissima persona, come poche ne ho incontrate, capace di farti sentire subito a tuo agio, disponibile con tutti, altruista e patriottico. In assoluto un esempio”. Ovviamente quanto avvenuto porta anche ad una inevitabile riflessione sulla necessità che i nostri soldati vengano esposti ad un simile pericolo per una missione che dopo anni e tante vite sacrificate sull’altare della pace, non sembra dare grandi frutti. “Sinceramente, la missione in Afghanistan”, conclude Antonio, “credo sia una cosa stupida e non pensata per il reale bene delle persone, bensì per mere questioni economiche. Perché sacrificarci per dei popoli che lottano tra di loro e che comunque non si fanno scrupoli ad attaccare i nostri Paesi? Non ha senso!”. Proprio come la morte di un ragazzo di 23 anni.


Federica ha 23 anni ed è di Giuliano (frazione di Castrignano del Capo): “Sono una laureanda in Lettere classiche all’Università di Lecce. Conoscevo Marco perché abbiamo fatto le scuole medie insieme a Patù ed anche a distanza di anni, era un bel rapporto il nostro. Era una delle persone con le quali avevo legato di più. Dunque, la notizia l’ho appresa dal Tg di mezzogiorno. All’inizio non riuscivo a crederci, mi sembrava impossibile che potesse essere successo proprio a lui. Mi sono stupita per l’apparente iniziale indifferenza che mi aveva colpito. C’ero rimasta male, sì, ma essendo molto emotiva e sensibile, non ho avuto la reazione che mi aspettavo. Poi il giorno dopo, china sui libri, la mia mente ha iniziato a farmi brutti scherzi: sulle pagine non c’erano parole, ma immagini. Vedevo Marco quando correva perché faceva tardi a scuola; quando arrossiva se si parlava di ragazze; quando era triste per un rimprovero dei prof. Poi la sua voce, la sua inconfondibile voce che frullava in testa, i suoi occhietti azzurri che ti scrutavano l’anima. Era timido, riservato, di una dolcezza disarmante. Amava le cose semplici, come lui: una birra con gli amici o una passeggiata in riva al mare. L’ultima volta che l’ho visto era aprile-maggio, abbiamo parlato dei suoi sogni, delle speranze che queste piccole realtà di paese ci negano. Sono a favore delle missioni di pace in Afghanistan… si vis pacem, para bellum… bisogna prendere all’angolino il terrorismo, combatterlo dall’interno, anche a costo della vita, purtroppo. E Marco, come tanti altri ragazzi, combatte per noi, per i nostri figli, per la serenità del nostro futuro”.


Giuseppe Cerfeda


Attualità

Via alle ispezioni della cavità in zona Puzzu a Tricase

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Sono iniziate stamani le ispezioni del pozzo rinvenuta nel borgo antico di Tricase, in zona Puzzu, la scorsa settimana (leggi qui)

A calarsi sono i componenti del Gruppo Speleologico Tricase. Restituiranno tutte le informazioni utili che emergeranno sulla cavità, a partire anche dall’esatta profondità, stimata in circa 25 metri al momento del ritrovamento, avvenuto durante i lavori di riqualificazione del centro storico.

Per le vie del centro cittadino intanto stamattina è rimbalzata la falsa notizia secondo cui qualcuno sarebbe caduto accidentalmente nel pozzo. Nulla di vero: trattasi appunto delle operazioni ispettive avviate nella giornata odierna.

La locale Protezione Civile ed una ambulanza sono sul posto preventivamente, pronte a intervenire in caso di necessità.

Le foto

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Approfondimenti

Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Attualità

«La mafia salentina è sempre viva»

Intervista a Francesco Mandoi, ex magistrato salentino già Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia: «Vi spiego tutto»

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di Sefora Cucci

Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato” (Besa editrice).  Questo il titolo del libro di Francesco Mandoi, ex magistrato salentino che è stato Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia, in libreria dal 25 aprile.

Da allora, il suo autore è coinvolto in un tour di presentazione e divulgazione che sta facendo il giro dell’intera Puglia, toccando moltissimi paesi, ad esempio Molfetta, Castellaneta, Cutrofiano, Manduria, Lecce, Novoli, Nardò, Trepuzzi e Ugento.

Una vita spesa al servizio dello Stato. «Il destino ha voluto che potessi fare il mestiere che amavo e grazie al mio lavoro posso dire di aver raggiunto, come sosteneva Primo Levi, “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”», dichiara il dott. Mandoi, che abbiamo intervistato.

Lei rifiuta l’etichetta di magistrato antimafia. Perchè?

«Non amo quella definizione perché la magistratura, nella sua essenza, non è mai stata né pro né contro qualcosa. La giustizia non dovrebbe essere partigiana e un magistrato non è e non deve essere un militante. Aggiungere l’aggettivo “antimafia” rischia di creare una grande confusione, perché il più delle volte viene utilizzato quasi per fini retorici, politici o mediatici. Sembra quasi indicare implicitamente che esista una categoria di magistrati “speciali” che svolgono un lavoro più nobile o significativo rispetto ad altri. Chi combatte la mafia non lo fa per vanità, ma per dovere. Etichettare qualcuno come “antimafia” non solo isola quel magistrato dal contesto più ampio della giustizia, ma sminuisce il valore del lavoro degli altri. Sono sempre più convinto che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi solitari, ma di una società consapevole e unita».

Dalla recente relazione DIA relativa al 2024 emerge che i clan storici del Salento continuano ad esercitare il controllo sul territorio. Quali armi allora?

«Ho letto con sincera preoccupazione i dati emersi i quali, non fanno altro che raffermare la mia idea che la SCU non è mai finita nel nostro territorio. Anzi, molto più correttamente dovremmo parlare di mafia salentina perché nel corso del tempo ha assunto vari nomi; perché sa, la mafia è camaleontica ed è in grado di adattarsi a qualunque scenario, mantenendo sempre gli stessi obiettivi. Alle attività tipiche (estorsione, spaccio, riciclaggio, ecc.) se ne aggiunge un’altra, altrettanto preoccupante: quella relativa al controllo delle attività turistiche».

Cosa possiamo fare?

«Denunciare e sensibilizzare. Questi non sono due verbi vuoti ma si caricano del significato che diamo loro: mettere la pulce nell’orecchio delle forze dell’ordine è possibile, purché ci sia fiducia nelle istituzioni. Dobbiamo stimolare alla collaborazione. Cosa serve? Uomini, mezzi, collaborazione, credibilità nello Stato e soprattutto recuperare la fiducia nei confronti delle Istituzioni che in questo momento storico va via via perdendosi. Occorre recuperare quella fiducia perché si sta diffondendo una cultura del ‘chi me lo fa fare?’ che è l’anticamera della cultura dell’omertà».

Le recenti riforme sulla giustizia e i disegni di legge qualificano una situazione in cui, da più parti, è stato lanciato un allarme al pericolo di lesione dello stato di diritto. Lei cosa ne pensa?

«Il pericolo è estremamente reale. Sono molto preoccupato. Il rapporto tra cittadino e Stato si deve basare sulla fiducia. Se questa viene a poco a poco minata, quanta credibilità rimane? Il rischio è di mettere in crisi lo stato di diritto perché la gente non crede. É scettica. E scetticismo si riscontra verso i recenti atti, pensiamo al decreto sicurezza, ormai legge. Al di là di possibili profili di illegittimità costituzionale, mi sembra fatto solo per ragioni demagogiche. E se si è scelta questa strada, significa che l’80% della legge serve solo a livello demagogico».

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