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Approfondimenti

Letture estive: “I miei compagni di scuola” di Rocco Boccadamo

Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso…

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I miei compagni di scuola


Nel mio ultimo libro “Zia Valeria”, è compresa una narrazione dal titolo “1952/1960 – Il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori”, che qui pubblico, soprattutto, a beneficio di quanti non avessero già avuto modo di leggerla e/o volessero farlo adesso.


In seno a detta “storia”, rievocativa di un importante aspetto degli anni belli del “ragazzo di ieri”, sono, fra l’altro, indicati i nomi dei compagni delle Superiori, per come, mentre scrivevo, sono riuscito a scorrerli in rassegna, a mente.


Successivamente, invece, ho chiesto e ottenuto dall’Istituto Tecnico Commerciale “Cezzi – De Castro” di Maglie, l’elenco ufficiale della 5^ classe, sezione B, di cui facevo parte, che, pure, accludo.


Dal 1960 al 2024, sono passati ben sessantaquattro anni.  Ebbene, a così tanta distanza di tempo, mi è stato dato, con emozione, di ricontattare, risentire e, in alcuni casi, rivedere, una parte dell’antica scolaresca di ragionieri.


In aggiunta, nelle more di poter, più avanti, organizzare un incontro collettivo, ho voluto inviare o consegnare in dono, a tutti i miei compagni, una copia del libro richiamato in apertura.


Tranne, con rammarico, agli undici che, purtroppo, non ci sono più.


*** *** ***


1952/1960, il narrastorie, giovanissimo, alle Medie e alle Superiori


Traggono, insolitamente, abbrivio, le presenti note, da un commento, inerente a una mia narrazione di qualche settimana fa, postatomi via Facebook da Giorgio Ruggeri, originario di Uggiano La Chiesa, per cinque anni compagno di classe, anzi contermine di banco, alle scuole superiori, e, però, mai più rivisto dal lontanissimo 1960: “Hai tanti bei ricordi della tua terra. Mi aspetto qualche pubblicazione di quel mitico Istituto Tecnico di Maglie che abbiamo lasciato nel 1960. Ti saluto”.

Prima di tracciare la specifica rievocazione invocata dall’antico coetaneo e amico, ritengo opportuno soffermarmi su un minuscolo rosario di “pillole” delle mie esperienze scolastiche antecedenti, afferenti, per l’esattezza, al ciclo delle “Medie”.


Invero, conseguita la licenza elementare, mi successero, inanellandosi, una serie di piccoli e però particolari eventi, che lasciarono qualche segno in quelle correlate tenere stagioni. Intanto, iscrittomi per frequentare, a Maglie, il richiamato corso di studi, iniziai concretamente a farlo in un canonico (per l’epoca) 1° ottobre, ricordo, nella sezione “Prima D”, docente di lettere il giovane professore Francesco Erroi. In parallelo, mi sistemai, come “pensionante”, presso una famiglia della cittadina, dove si trovava già, alloggiato in analoga formula, un mio compaesano, nonché parente, il quale attendeva alle lezioni nel locale Liceo classico.


***


Sennonché, scivolate via, sì o no, un paio di settimane, giunse a mio padre, impiegato comunale, la notifica della mia ammissione a un convitto dell’Inadel (Istituto di previdenza per i dipendenti degli enti locali) ubicato ad Anagni (FR), dove, purché fossi stato di anno in anno promosso, avrei potuto compiere l’intero percorso formativo, fino alla maturità o al diploma, in regime completamente gratuito, compresi vitto, alloggio, libri di testo e tasse scolastiche. Peraltro, ad Anagni, nella medesima struttura scolastica dell’Inadel, intitolata al Principe di Piemonte, c’era già, da un biennio, il mio fratello maggiore Antonio. Lasciai, quindi, in fretta e furia, la scuola di Maglie e, accompagnato in treno dal citato genitore, raggiunsi il convitto nella cittadina laziale. Ma la relativa esperienza, nonostante si trattasse di una sistemazione obiettivamente buona in ogni senso, si esaurì, purtroppo, in modo infausto, nel volgere di un risicato arco di tempo. Con la motivazione di non sopportare il distacco dal mio paesello d’origine, dalla mia famiglia e, soprattutto, da mia madre, vissi, o diedi a intendere di vivere, un’autentica tragedia, per cui, in breve, mio padre fu costretto a ripetere il viaggio ad Anagni e a riportarmi a casa. La mia capricciosa ma inamovibile impuntatura fu presa come un autentico smacco non solo in casa, ma pure presso i parenti e fra gli amici compaesani: si pensi, a undici anni e mezzo, mi trovai appiccicata addosso, addirittura, l’etichetta appellativa di “rovina famiglie” e/o mi vidi piovere sul capo l’osservazione “Il Padreterno dà i biscotti a chi non ha denti per mangiarli”. Ma la storia non finisce qui. Difatti, una volta rientrato a Marittima, il piccolo, criticato “reduce” assunse un’ulteriore rigida posizione, facendo cioè presente, con vigore, che non gli andava di far la brutta figura di comparire, in ritardo rispetto all’inizio delle lezioni, in una classe di Scuola media pubblica, fosse a Maglie o a Tricase.


Di conseguenza, non gli rimase che affidarsi al concittadino maestro delle elementari, Alfredo Quaranta, prendendo a svolgere insieme con lui, ogni pomeriggio, il programma didattico della prima media e sostenendo a Maglie, da privatista, nel successivo giugno, l’esame finale, con esito positivo. La stessa sceneggiata ebbe, purtroppo, a verificarsi in corrispondenza dell’anno scolastico seguente, sebbene io avessi spergiurato che giammai si sarebbe ripetuta la prima infantile rinuncia collegata al convitto. In detta seconda esperienza anagnina, feci in tempo a mandare a quel paese, e anche oltre, l’insegnante di matematica della locale Scuola media. Questi, rivedendomi nella sua 2^ e avendo a mente il mio anticipatissimo abbandono dell’anno precedente, mi chiese dove e come avessi frequentato in alternativa e volle saggiare la mia preparazione con la coppia di domande a bruciapelo “tre per quattro, quanto fa?” e “quattro per tre, quanto fa?”, e, alla mia ripetuta risposta di dodici, fece seguire l’interrogativo trabocchetto scontato “e perché?”.


Da parte mia, sotto agitazione o per un improvviso vuoto di memoria, risposi al secondo problema con un banale “perché è la stessa cosa”, senza minimamente accennare alla regola, men che elementare, della nota proprietà commutativa della moltiplicazione “cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia”. Risate a tutto spiano, se non sghignazzi, dalla bocca del docente, il quale, secondo il sentire infantile, ma non troppo, della vittima, si accaniva su un malcapitato; con l’aggravante, che le sue sfacciate reazioni d’ilarità e di scherno arrivavano immediatamente ad accomunare l’intera scolaresca. Per ciò, non riuscendo a trattenermi, rivolto al professore, io finii con lo sbottare, d’istinto, in un: “Lei è un p….!” (a chiare lettere, secondo Wikipedia, suide addomesticato, che grugnisce). Dopo di che, preso per un braccio dallo stesso autorevole destinatario dell’improperio, verosimilmente colto di sorpresa dalla mia reazione e divenuto paonazzo in volto, mi trovai in un baleno di fronte al preside e, seduta stante, scattò la sospensione, per alcuni giorni, dalle lezioni (poco male, ragionai tra me e me, tanto intendo lasciare questa scuola e tornarmene nel Salento).


***


Finalmente, ci fu da predisporre la frequenza della terza media e, questa volta, niente tergiversazioni su opzioni convittuali ma semplice e diretta iscrizione alla scuola pubblica di Maglie e, guarda caso, nuovamente sezione D e docente di lettere il già citato Francesco Erroi.


Nel complesso, si rivelò del tutto agevole l’esperienza da normale frequentante, con la sola eccezione di talune mie esitazioni, specie all’inizio, nel seguire le lezioni di francese (evidentemente, durante il biennio trascorso in veste di allievo privatista del maestro Alfredo, non avevo assimilato a sufficienza le relative nozioni). Per fortuna, in quel corso della scuola pubblica, c’era un professore molto bravo, anche se dal carattere un tantino particolare, Giuseppe Macrì, il quale, in certo qual modo, mi prese a cuore e, specialmente, mi tenne sotto tiro, giungendo talora – tempi lontani e, ovviamente, agli antipodi rispetto agli attuali – a trascinarmi fino alla lavagna e ad appoggiare lievemente ma ripetutamente la mia fronte sulla relativa lastra nera, sentenziando: “Se non te loimparo” io, il francese, non te lo “impara” neppure Domine Dio”. Devo ammettere che la cura del docente Macrì si rivelò efficace.


***


Ottenuta, poi, con buoni voti di profitto, la licenza di Scuola media, si presentò la necessità di scegliere per le Superiori. In cuor mio, pensavo di seguire l’esempio del mio fratello maggiore e di iscrivermi al ginnasio e, a ruota, al liceo classico, oppure, in subordine, forse volendo emulare il mio insegnante elementare, di andare a frequentare l’Istituto magistrale a Lecce. In concreto, però, giunse a prevalere uno sbocco differente, che, in fondo, accettai con convinzione, nell’ottica di vedere agevolato, con quello specifico diploma, l’inserimento nel mondo del lavoro, la conquista di un impiego. Insomma, la scelta cadde sull’Istituto tecnico commerciale statale, indirizzo amministrativo “Cezzi – De Castro” di Maglie, località dove mi sarei portato, da Marittima, con il pullman delle Sud Est, già sperimentato durante la terza media. E alla “Ragioneria”, così si appellava semplicemente e praticamente detto polo d’istruzione, trovai, fra i compagni di classe, Giorgio Ruggeri, menzionato all’inizio di questa narrazione. Si trattò, da subito, di una pratica diversa e accattivante, che si sviluppava non più fra ragazzini bensì fra adolescenti, con discipline da studiare in gran parte inedite. A oltre sessant’anni di distanza, serbo ancora memoria dei nomi dei frequentanti il corso “B”: Eugenio Agnello (Nociglia), Vito Alfarano (Tricase), Salvatore Baglivo (S. Eufemia di Tricase), Rocco Boccadamo (Marittima), Antonio Brocca (Muro Leccese), Francesco Bruni (Otranto), Giovanni Cioffi (Casarano), Antonio Costa (Maglie), Franco De Donatis (Torrepaduli), Luigi De Pascalis (Martano), Antonio De Santis (Martano), Antonio Di Noia (Uggiano La Chiesa), Luigi Filippi (San Cassiano), Antonio Gerardi (Corigliano d’Otranto), Vincenzo Guarino (Corigliano d’Otranto), Franco Latino (Poggiardo), Vincenzo Laurenti (Otranto), Oliviero Leuzzi, (Botrugno), Fernando Lisi (Miggiano), Giorgio Monteduro (San Cassiano), Giuseppe Monteduro (San Cassiano), Antonio Pastore (Cocumola), Franco Pirelli (Leuca), Giovanni Pisanò (Casarano), Ippazio Pulimeno (Corigliano d’Otranto), Gerardo Rizzo (Alessano), Luigi Rizzo (Otranto), Carmine Romano (Maglie), Giorgio Ruggeri (Uggiano La Chiesa), Luigi Rutigliano (Otranto), Giuseppe Schifano (Andrano), Vittorio Velotti (Melissano), Tommaso Vergari (Botrugno), Filippo Vergari (Montesano Salentino), … Vergine(Corigliano d’Otranto). Dei trentasei appena elencati, per la precisione, non tutti erano presenti nel primo anno, alcuni si aggregarono gradualmente nelle classi successive; due o tre compagni, purtroppo, non riuscirono a conseguire puntualmente il diploma, uno, invece, Filippo Vergari, bravissimo, compì un “salto” nel corso dell’anno scolastico, completando gli studi nel 1959, anziché nel 1960. Ricordo pure i nomi del Corpo docente succedutosi in seno al corso “B” durante l’intero ciclo: Luigi Antonica (inglese), Anna Balena (calligrafia), Paolo Congedo (italiano, 2^ e 3^ classe), Salvatore Errico (italiano, 4^ e 5^ classe), Luigi Ferrante (diritto ed economia politica, 5^ classe), Italo Giuri (ragioneria e tecnica, 5^ classe), Concetta Manna (stenografia), Luigia Manno(italiano, 1^ classe), Don Franco Maruccio (religione), Luigi Paolo Mazzotta(computisteria, ragioneria e tecnica, 2^, 3^ e 4^ classe), Laura Orlando (matematica), Stella Rosa (francese), don Francesco Rotundo (religione), Luigi Serio (diritto ed economia politica, 3^ e 4^ classe), Lucia Turco. (scienze naturali, chimica, geografia economica), Giuseppe Valentini (educazione fisica).


Per quanto riguarda la guida complessiva dell’Istituto, affiancavano il preside, Prof. Mario Duma, il segretario (all’inizio, Salvatore Gualtieri, dopo, rag. Domenico Mele) e l’addetto alla segreteria Giacomino De Donno, col prezioso ausilio dei collaboratori scolastici Nino e Ada.


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Anche in seno alla nuova realtà scolastica, nel giro di poco tempo, mi trovai coinvolto in qualcosa di imprevisto e imprevedibile, relativamente alle lezioni di lingua francese. Malgrado le prima indicate mie carenze in terza media, che avevano richiesto una cura energica da parte del professore Macrì (lo rivedo, negli occasionali fugaci incontri di primo mattino, in Piazza Capece a Maglie, dove aveva sede la Scuola Media in cui egli era rimasto a insegnare, nell’atto di roteare a lungo la mano e il braccio destro, come per dire “eh, cambiando scuola e con la nuova docente che avete trovato all’Istituto Tecnico, vi è andata proprio bene, fate la pacchia”), agli occhi e al giudizio della professoressa Stella Rosa ebbi subito ad apparire come un allievo non bravo ma bravissimo, un esempio; sia nelle interrogazioni, come nei compiti scritti, fui gratificato con una serie di nove e dieci.


In aggiunta a ciò, l’insegnante, a un dato momento, mentre teneva le sue lezioni nella seconda e nella terza “B”, prese l’abitudine di mandarmi a chiamare tramite il bidello Nino, in modo da far vedere agli allievi di quelle classi, chiaramente più grandi di età, con me direttamente presente e fungente da “campione”, come si dovesse studiare e dimostrare di sapere la sua materia. Per me furono, però, circostanze, piuttosto che gratificanti, di disagio e di “vergogna”, anche perché, durante i miei “sconfinamenti” nei corsi superiori, c’era sempre qualcuno che, sottovoce, mi indirizzava l’invito a ritornarmene nella mia classe, invece di prestarmi al gioco della docente. In particolare, al cospetto di studenti/giovanotti o quasi, il mio disagio cresceva durante l’inverno, quando, quattordicenne o poco più, esibivo pantaloni alla zuava e, ai piedi, calzettoni di lana fatti a mano e sandali semiaperti, per via dei fastidiosi geloni che, pur mordendo il freddo, non mi consentivano di infilarmi scarpe chiuse, chiaramente più adatte alla stagione. Tuttavia, come consolazione, negli scrutini finali della prima superiore, sulla pagella, accanto alla materia “Lingua francese”, vidi campeggiare un bel nove.



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Provo ora a dedicare veloci note aggiuntive, tra il serio e il faceto, su determinati professori.

Luigi Paolo Mazzotta, faceva su e giù, dalla sua residenza a Maglie, alla guida di un’autovettura Fiat 600. Come insegnante, non godeva di eccelsa fama, nondimeno era buono, gioviale e tollerante; di tanto in tanto, aduso a intercalare alla lingua italiana accezioni o frasi dialettali. Il primo compito che ci assegnò in seconda classe, materia, la computisteria, verteva sulla cosiddetta regola “catenaria”. Alle 8, ora di inizio delle lezioni, si era limitato a dettare la traccia dell’esercizio, recandosi, quindi, in un’altra classe in cui aveva lezione e lasciando a vigilare su di noi il collega di una differente disciplina. Ritornato alle 9, compì una rapida ricognizione fra i banchi e si accorse che nessuno aveva iniziato a svolgere il compito, forse perché le sue spiegazioni non erano state sufficientemente chiare alla scolaresca. Al che, si avvicinò a una parete dell’aula e proruppe in un “povero me, non hanno capito niente!”, e, a seguire, ritirò tutti i fogli e annullò la prova. Qualche tempo dopo, si ripetette un caso similare. Io pur cercando di studiare e approfondire per conto mio quella materia, a una verifica presi, come voto, 4, l’unico in tutta la mia carriera scolastica. Rimasi, di conseguenza, avvilito, per alcuni giorni “odiai” il professor Mazzotta, un mattino, incrociandolo casualmente per strada, arrivai addirittura a rinfacciargli ostentatamente, con la mano destra aperta su quattro dita, il brutto voto (per quel gesto, il giorno successivo, il docente mi rimbrottò severamente davanti a tutti i compagni). Negli anni seguenti, mi venne l’idea di aiutarmi con un altro libro, in aggiunta a quello di testo e, in tal modo, riuscii a trovarmi meglio con il docente in questione; quasi quasi, senza che me ne avvedessi, intervenne una sorta di miracolo. A comprova, eravamo in quarta, un giorno fui chiamato alla cattedra per un’interrogazione. “Parlami del conto lavorazione nelle imprese industriali “, mi invitò il professore. All’inizio un po’ timidamente, io provai ad argomentare e di lì a poco, inaspettatamente, notai che il docente, il capo quasi appoggiato sul piano della cattedra, se ne stava rivolto verso di me con lo sguardo fisso, con la bocca semiaperta e mi osservava concentrato e immobile. Mentre io seguitavo a esporre le nozioni che avevo assimilato, a un certo momento, il prof. Mazzotta si girò di scatto verso i compagni che seguivano la mia verifica dai banchi, ingiungendo loro: “State attenti, che parla il professore!”. Furono risate, come di fronte a una comica. Sia come sia, ottenni un buon voto. Dicevo sopra che, in certi frangenti, il prof. Mazzotta indulgeva ad atteggiamenti o a discorsi “alla buona”. Ad esempio, una volta, rivolto a Eugenio Agnello che stava chiacchierando in classe con un compagno, se ne usci con:” Agnello, la vuoi finire o no? Vedi che, se non la smetti, ti appendo”. Naturalmente, pure in questa occasione, ilarità generale, avendo, il prof., configurato l’immagine di un pacifico ovino macellato, appeso a un gancio e pendente sull’uscio di un negozio di carni. In un’altra circostanza, chiamando in causa il compagno Antonio Di Noia: “Noia (n.d.a., cognome in sintesi, al posto di Di Noia), perché ridi?”. Risposta del ragazzo: “Professore, è Agnello che mi fa ridere”. Replica conclusiva: “E tu, non ti fare ridere”. In quarta classe, il sabato, avevamo lezione, con il prof. Mazzotta, dalle 12 alle 13. Or bene, con l’intraprendenza da ragazzi ormai grandicelli, pensammo di prendere la licenza, approfittando dell’intervallo per il cambio di insegnante a mezzogiorno, di svignarcela, prima che il docente Mazzotta giungesse da noi. Era brevissimo il percorso fra la nostra aula e il portone l’uscita della scuola, anche se si doveva passare davanti alla porta della presidenza. Partendo da quell’idea, ponemmo ripetutamente in atto l’alleggerimento dell’orario didattico del sabato, anche se capitava di sentire dal prof. Mazzotta, in arrivo, “dove andate?” e dal preside “siete impazziti, che fate, rientrate in classe”. Tutto inutile, la fiumana della quarta “B” era ormai, in maggioranza, per strada. In fondo, il nostro pensiero autoassolutorio era che rendevamo un favore all’insegnante, consentendogli di ritornare nella sua residenza, in anticipo rispetto al previsto. Saltando dagli anni Cinquanta del secolo scorso al 2000 circa, ho avuto modo di contattare e rivedere a Lecce il professor Luigi Paolo Mazzotta, il quale si è ricordato subito del suo allievo, Boccadamo da Marittima (“eri uno bravo, vero?”, mi ha chiesto al telefono). Su suo invito ci siamo incontrati al Bar Manhattan, consumando un’aranciata amara in due e, infine, mi ha brevemente accolto nella sua abitazione nelle vicinanze. Non molto tempo fa, ho saputo che il professor Mazzotta se n’è andato, ultranovantenne.


La professoressa di matematica, Laura Orlando, era molto brava e preparata, come persona, secondo il mio giudizio di adolescente, lasciava, invece, un po’ a desiderare, andava per simpatia e io, nonostante me la cavassi bene anche nella sua disciplina, non rientravo nel novero degli allievi prediletti. Giovane, nubile, portava spessissime lenti. Quando dovevamo svolgere compiti in classe, la sua prima azione era di farmi lasciare il banco dove ero seduto abitualmente insieme a un compagno e di invitarmi a sedere, a solo, in un banchetto accanto alla cattedra. Quindi, dettava due tracce: una, per gli allievi che si trovavano nella parte destra di ciascuna fila di banchi e l’altra, per i restanti che avevano posto nella parte sinistra. Io, anche se l’insegnante mi diceva di svolgere una ben determinata prova, mi annotavo tutte e due le tracce, le valutavo e svolgevo quella che mi sembrava più facile. Il trucchetto funzionava quasi sempre. Solamente in un caso, si scoprirono gli altarini, allorquando la prova “tosta”, che sarebbe toccata anche a me, non fu svolta da alcuno della scolaresca: la docente trasse spunto da ciò, per fare mente locale, dopo di che mi rinfacciò, rimproverandomi, il giochetto posto in atto e annullò la prova.


In quarta, studiavamo la matematica finanziaria e attuariale, un vero e proprio calvario di formule da imparare e tenere a memoria. Riflettendo sulla limitazione visiva della Orlando, escogitai di copiare, con una matita o lapis, sul nero della lavagna, ovviamente in ore vuote o favorevoli, la maggior parte delle formule in questione, che la prof., anche mentre spiegava avvicinandosi alla lavagna, non riusciva a notare. Al contrario, noi allievi, quando eravamo interrogati, alla richiesta di riferire la formula A o B dicevamo: “Prof., posso scriverla alla lavagna?”. Così, spesso riuscivamo ad aiutarci. La trovata funzionò per lungo tempo.


Il professore di italiano Paolo Congedo (seconda e terza classe) era un docente eccezionale, di poche parole, ma di profondissima cultura e vasta esperienza. Durante le spiegazioni, lo seguivamo in assoluto, quasi religioso silenzio e con molta attenzione. Severo ma anche giusto, disponibile nelle interrogazioni e nelle verifiche in genere. In quarta e in quinta, arrivò, al suo posto, il professor Salvatore Errico, il quale, inizialmente, sembrò soffrire un po’ per la difficile successione; la stessa scolaresca, ovviamente, accuso la differenza e, tuttavia, non tardò a adattarsi e a integrarsi col nuovo docente, peraltro persona dal tratto ottimo e alla mano.


L’avvocato Luigi Ferrante, di ottima e nobile famiglia, docente di diritto ed economia in quinta classe, era una pasta d’uomo, un signore; ci lasciava un po’ fare e noi, purtroppo, lo ripagavamo con qualche intemperanza. Per citare, mentre lui parlava, accendevamo in classe una radiolina e, quando la stessa emetteva i classici fischi che precedono l’inizio di un programma, non poteva non accorgersi del suono, che noi sostenevamo, impunemente, dovesse attribuirsi al cinguettio degli uccellini sugli alberi d’arancio del giardino confinante con la scuola. Ancora, da poco avevo scelto di andare a sedermi all’ultimo banco accanto a Giorgio Monteduro, detto “palo” perché di altezza prossima ai due metri, a un certo punto proposi, ai vicini di banco, l’idea di vivacizzare le lezioni del professor Ferrante.


Approfittando dell’esistenza di una stufa per riscaldamento che, abitualmente, si trovava in fondo all’aula, proposi di cucinare qualcosa, appunto, durante l’ora del professore Ferrante, ad esempio due uova. Dalle parole ai fatti: chi portò una padellina, chi olio e sale, chi, secondo ricetta, un paio di uova fresche. Mentre il professore spiegava, la stufa fu inclinata con l’ampio piatto in posizione orizzontale, la padellina con l’olio posata sulla fiamma; al cadere sull’olio bollente, le uova emisero il classico sfrigolio, il professore sentì lo strano “rumore”, agitandosi e chiedendo di colpo “che cosa stesse succedendo laggiù”. Gli improvvidi cucinieri provarono rapidamente a smontare e disattivare l’apparato, ma, ovviamente, l’avvocato Ferrante si accorse di tutto, senza però farne una tragedia. Diversamente, il mattino seguente, prima dell’inizio delle lezioni, sulla Quinta “B”, si abbattette la violenta ramanzina del bidello Nino, il quale, imprecando all’indirizzo dell’intera scolaresca per la malefatta, si lamentò, specialmente, di aver dovuto lavorare a lungo per ripulire il pavimento dai residui dell’olio e delle uova rimaste non cotte.


Dopo il triennio di docenza del professor Luigi Paolo Mazzotta, in quinta, per ragioneria e tecnica, ci arrivò il professore Italo Giuri, giovane, piccolo di statura, capelli color biondo rossiccio, occhi verdi, accompagnato da nomea di ottimo insegnante, ma, nello stesso tempo, in barba all’età, di persona austera, molto esigente e severa. Dire che, noi del corso “B”, quanto a bagaglio di preparazione pregressa, non eravamo messi propriamente bene. Iniziò l’esperienza con il professor Giuri, i fatti confermarono subito la presentazione iniziale, in occasione delle verifiche, come voto, si affacciavano anche alcuni due o tre; così, un giorno, era toccato al compagno Vito Alfarano, il quale, rimasto ovviamente male per l’esito della prova, se ne ritornò al banco, seminando, vocalmente, sequenze di imprecazioni e di minacce indirizzate al prof. Giuri. Improvvisamente, si presentò una scena originale e quasi patetica, il docente, eretto sulla pedana della cattedra, con le braccia aperte a configurare una sorta di Santa Croce, ad esclamare: “Non ho paura delle minacce, anzi sono pronto al sacrificio”.


Intorno a Natale 1959, si sparse la voce che il prof. Giuri sarebbe stato il componente interno nella commissione degli esami di maturità. A tale notizia, noi tutti restammo sconcertati e commentavamo “se sarà nominato lui, anziché aiutarci, con la sua severità ci danneggerà se non, addirittura, rovinerà”. In quel periodo, io, nel pomeriggio, studiavo insieme con Franco Pirelli e Franco De Donatis, nell’abitazione presa in affitto a Maglie, per tutto il periodo dell’anno scolastico, dai genitori del secondo compagno di cui sopra. Di fronte alla prospettiva Giuri agli esami di Stato, l’anzidetto terzetto di interessati, pensò a un’iniziativa: scrivere al professore una lettera in bianco, consigliandogli di non accettare, per il suo bene, l’incarico di membro interno. Detto fatto, la missiva fu vergata, con uso, non solamente della penna ma pure di guanti per non lasciare tracce sul foglio e sulla busta, e spedita. Dopo un paio di giorni, mentre stavamo svolgendo in classe un compito proprio col professor Giuri, bussò alla porta dell’aula il bidello Nino: “Dottore, c’è una lettera per lei”. Il destinatario, stupito, prese in mano il plico e, pur seguitando a sorvegliare, al solito, fra i banchi, onde controllare che qualcuno non copiasse dai compagni, lo dischiuse e diede velocemente una scorsa al contenuto. “Molto bene!”, fu la sua ostentata osservazione. Intanto, io e i coautori dell’operazione, ce ne stavamo a capo chino sul banco. Nei giorni successivi, tuttavia, ritornammo arditi, domandando, al docente, se fossero vere le voci sull’argomento. Ma lui replicò con forza: “Non è niente vero, sono notizie destituite di ogni fondamento”. E continuando: “Poi, voi stessi, forse, non mi vorreste come membro interno” e, puntando il dito e lo sguardo verso di me:” Proprio lei, probabilmente, non mi vorrebbe”. Era duro mantenere la compostezza e far finta di niente. Di fatto, il prof. Giuri fu designato come commissario interno alle prove di maturità. Nell’ultimo giorno di lezioni, io trascorsi la mattinata in segreteria, per copiarmi in chiaro i programmi di tutte le materie. Dopo qualche ora, nel cortile della scuola, incrociai il prof. Giuri con molti registri di classe sottobraccio, che mi chiese dove fossi stato invece di essere presente in classe, aggiungendo quindi: “Si è persa un’occasione importante e irripetibile, nonostante le difficoltà e i contrasti relazionali nel corso dell’anno, oggi, nella Quinta “B”, c’è stata un’assemblea immemorabile, commossa, abbiamo tutti pianto per il commiato”. E, dopo, mi invitò a seguirlo in un’aula, per dettargli le assenze degli alunni da riportarsi nella pagina degli scrutini di fine anno.


In realtà, in mia presenza, a dimostrazione inaspettata della fiducia che riponeva in me, egli fece gli scrutini: di promozione o meno per le classi intermedie e ai fini dell’ammissione o meno agli esami di Stato, per la mia classe Quinta “B”. Giunto al mio nome, disse: “La ammetto con sette e sette (in ragioneria e in tecnica), ma guai a lei se, agli esami, non riporterà un voto migliore”. Giunsero le prove conclusive, scritte e orali; in occasione delle seconde, mi toccò un’interrogazione di circa un’ora, fortunatamente risposi a tutti, notando, man mano, come sul volto del mio insegnante andassero vieppiù a stamparsi le impronte di una grande soddisfazione.


Dopo una decina di giorni, fui informato che erano usciti i “quadri”, lo dissi immediatamente a mio padre e, con un’autovettura presa a noleggio, ci recammo insieme a Maglie. All’ingresso dell’Istituto, prima ancora di avvicinarci ai fogli con i risultati degli esami, incontrammo il segretario Mimì Mele, il quale, con un sorriso, mi fece: “Hai preso voti tutti tondi, complimenti”, volendo dire otto e nove. Così lessi, in effetti, sui “quadri”; in particolare, nelle materie ragioneria e tecnica del Prof. Giuri, avevo riportato un bellissimo nove. I miei, erano i migliori voti di tutto l’Istituto e, come seppi dopo, si collocavano ai più alti livelli pure su scala provinciale.


Come avvenuto con riferimento al prof. Luigi Paolo Mazzotta, intorno al 2000, ho chiesto e ottenuto di rivedere anche il professor Italo Giuri. Commovente il clima dell’accoglienza, contraddistinto da un particolare; quando gli ricordai che agli esami di maturità mi aveva messo nove in entrambe le sue materie, il docente rimase allibito e chiamò immediatamente la moglie, già sua allieva, dicendole: “Senti, questo signore mi sta rammentando che, agli esami di Stato, gli ho dato 9 nelle mie due materie” e la consorte:” Sembra proprio impossibile, già che, quando tu assegnavi un sei o un sei e mezzo, si era proprio al massimo”.


Avviandomi alla conclusione, non posso non dedicare una serie di piccoli dettagli o particolari ai miei cari compagni delle Superiori.


Il già menzionato Vito Alfarano aveva un amico straordinario, quasi un gemello, Salvatore Baglivo, prendevano insieme, da una vita, il treno Tricase – Maglie e viceversa, si scorgevano ovunque e sempre insieme, appariva nitido e inequivocabile che si volevano molto bene, erano affiatati, guai a parlare, all’uno, male dell’altro o viceversa: anche se, spesso, Alfarano sovrastava il secondo con iniziative, diciamo così, vivaci. Era solito, Totò Baglivo, dotarsi di quaderni di grosso formato, se non che, nel giro di pochi giorni, gli stessi erano ridotti alla misura più minuscola, del costo di cinque o dieci lire a pezzo, in quanto Vito glieli sfogliava di nascosto; beninteso, sfogliava, nel senso che gli strappava le pagine per utilizzarle lui. La vittima si lagnava di ciò, ma solo per un attimo.


Alfarano era il soggetto che serbava gelosamente, nel portamonete, un foglietto con la brutta copia di un tema assegnatogli e svolto alle Elementari, “La mia mamma”.


Non avendo moltissima voglia di applicarsi nello studio, egli, al fine di aiutarsi, soleva, durante tutto il corso di studi, comprese le Superiori, copiare una parte di quell’antico componimento, in tutti i compiti che era chiamato a svolgere, qualsivoglia fosse la traccia e l’argomento. Detta pratica di Alfarano era nota agli insegnanti di lettere di mezza Terra d’Otranto.


Negli ultimi mesi scolastici della quinta classe, io, anziché restarmene in pensione presso una famiglia a Maglie, decisi di ritornare a fare il pendolare, in treno. Venuto a conoscenza della novità, Alfarano mi diffido dal comprare l’abbonamento con le Ferrovie Sud Est, dicendomi: “Tu chiederai i soldi ai tuoi genitori, ma gli userai, di fatto, esclusivamente per l’acquisto di sigarette, così fumiamo alla grande; intanto, durante i tragitti in treno, sarai sotto la nostra protezione, non ti preoccupare, già che conosciamo tutti i controllori delle Sud Est, anzi siamo loro amici”.


Adesso, sento di dover indirizzare un pensiero ad Antonio Brocca, detto, bonariamente, “la morte”, a causa del suo viso particolarmente e perennemente pallido. Un certo giorno, mi frullò l’estro di scagliare verso di lui il cancellino, intriso di gesso, che si adoperava alla lavagna, lo raggiunsi proprio sul viso, al che, il poveretto, dopo essersi accorto che ero stato io, corse lesto in direzione della presidenza e ritornò nella nostra classe insieme con il capo dell’Istituto, il quale mi intimò: “Vai immediatamente fuori!” e io, ubbidendo, me ne andai nel giardino/palestra della scuola.


Del gruppo di otrantini, il più benvoluto dall’intera scolaresca era Luigi Rizzo, i cui genitori avevano un negozio di generi alimentari, cosicché, Gigi, arrivava ogni giorno in classe con un bel panino imbottito, che, cuore alla mano e generosità grande, per l’intero anno scolastico, non vi fu una volta che lo mangiò da solo.


Una peculiarità, relativamente ai due martanesi Luigi De Pascalis e Antonio De Santis: durante le interrogazioni, provavano, talora riuscendo, ad aiutarsi l’un l’altro, mediante suggerimenti in “grico”.


Non me ne vogliano i restanti compagni, se non li rievoco, nelle presenti righe, uno per uno, ma tengo a dire che, di tutti gli iscritti al corso “B”., singolarmente e distintamente, serbo un vivido ricordo nella mia mente e dentro l’animo. E provo, ancora adesso, sentimenti di spiccata, sincera ammirazione per quanti di loro frequentavano l’Istituto sottoponendosi, quotidianamente, a una notevole fatica, per coprire, in bicicletta, il percorso dai rispettivi paesi a Maglie.


Una volta esauritasi la mia attività lavorativa e rientrato nel Salento, ho avuto agio di rivedere di persona alcuni compagni, invero pochi e ciò mi dispiace: Franco Pirelli, Franco De Donatis, Luigi De Pascalis, Antonio De Santis, Claudio Calzolaro, Giovanni Cioffi  e Fernando Lisi.


Un ricordo speciale e commosso, infine, desidero innalzare a Salvatore Baglivo, il quale, l’ho saputo dopo, una ventina d’anni fa, ancora giovane, è stato purtroppo coinvolto, rimanendone vittima, in un incidente stradale sulla via che da Tricase conduce a Tricase Porto.


***


La mia primavera scolastica, specialmente il quinquennio delle Superiori, mi ha dato molto, formandomi e educandomi all’impegno in senso generale e alla ricerca e coltivazione di buoni rapporti con gli altri, consentendomi, in definitiva, di crescere. Sono, in particolare, fiero per i cordiali, amichevoli e quasi fraterni legami intrattenuti costantemente con tutti i miei compagni, nessuno escluso, e anche per la positiva interazione avuta con il Corpo docente e il restante personale dell’Istituto.


Si è trattato, non soltanto di una scuola didattica in senso strettamente culturale ma, pure, di una preziosa e insostituibile palestra di vita, in cui ho cercato di svolgere con umiltà e, insieme, con intensità, la mia parte, trovandomi sempre bene: dare agli altri, ma anche prendere dalle loro doti positive e dal loro buon esempio.


Da ultimo, ma non perché rivesta minore importanza, confesso che mi sono anche sanamente divertito.


Rocco Boccadamo


Approfondimenti

Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Approfondimenti

Maglie, il presidente dell’ISPE tradisce le aspettative: si dimetta!

Di fronte ad un enorme danno, di oltre 3 milioni di Euro, il suo dovere è dimettersi. Non possono esserci accordi diversi sulla pelle dei dipendenti, dei cittadini, soprattutto se sono anziani; vanificando i tanti sacrifici della famiglia Carrapa…

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Chiediamo le dimissioni del presidente dell’ISPE (Casa di Riposo) di Maglie

È di questi giorni l’attenzione di molta stampa sul centro fisioterapico che l’ASL Lecce ha annunciato di realizzare, nella dismessa struttura dell’Ospedale (PTA) di Maglie.

Ricordiamo che questo “centro” è la soluzione che è stata trovata dall’ASL per poter utilizzare il lascito della famiglia Carrapa di oltre 3 milioni di euro. L’eredità doveva essere destinata alla costruzione di una struttura sanitaria, in alternativa al nuovo ospedale, previsto, ma deliberato solo dopo due anni, dalla stesura del testamento, avvenuta 2009.  

Nel documento era indicata una prescrizione che l’obbligava in caso di struttura sanitaria diversa dall’Ospedale, il completamento nei 5 anni dal decesso, in caso contrario l’intero lascito era destinato all’Istituto Servizi per la Persona (ISPE).

Accade, però, che chi doveva, non solo non ha costruito una struttura, né grande né piccola, ma nemmeno iniziata, riuscendo solo a produrre un cartellone di cantiere con data di inizio e di fine lavori, dove la data inizio è praticamente quella di scadenza dei termini, e quella di ultimazione lavori è anche disattesa, nonostante che si sono stati utilizzati locali esistenti, che necessitavano solo lavori di ristrutturazione.  

Non c’è dubbio che il lascito doveva andare all’ISPE di Maglie, dove le esigenze dei cittadini anziani sono tante: mancanza di posti disponibili, carenza di personale e  insufficienza della struttura, che la defunta Vita Carrapa voleva completare.

Invece, pur essendo a conoscenza delle disposizioni testamentarie, il presidente Fulvio Pedone, non reclama il diritto a succedere, impedendo che altri ne entrassero in possesso. 

Forse il presidente non ha capito che non era lui, persona fisica, il vero beneficiario, ma il comune di Maglie e i suoi anziani cittadini.

Il suo atteggiamento va contro il diritto di successione, contro la legge regionale n 15 del 2004, contro il loro stesso statuto dell’ISPE e contro l’art. 630 del cc..

Non è chiaro se ci sono stati intendimenti o benevole interpretazioni perché ciò accadesse, sta di fatto che chi agisce contro il suo mandato, non merita la stima dei danneggiati che non possono capire il perché non si è voluto aiutare.

E’ chiaro che, di fronte ad un enorme danno, di oltre 3 milioni di Euro, il suo dovere è dimettersi, da Presidente dell’ISPE. Non possono esserci accordi diversi sulla pelle dei dipendenti, dei cittadini, soprattutto se sono anziani; vanificando i tanti sacrifici, della famiglia Carrapa.

Comitato Nuovo Ospedale sud Salento – Antonio Giannuzzi – fiduciario fam.Carrapa                            

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Approfondimenti

“Dal Salento al mercato nazionale: innovazione e tradizione intrecciate in ogni corda”

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Corderie Italiane

Nel profondo Sud della Puglia, dove il mare incontra le rocce di Gagliano del Capo, nasce una delle aziende più versatili e dinamiche presenti sul territorio italiano. Corderie Italiane, marchio prodotto e distribuito da Filtrex Srl, azienda specializzata nella produzione di corde, funi e trecce, è guidata con passione e lungimiranza dalla Famiglia Savarelli: ci troviamo di fronte ad un esempio concreto di come la tradizione artigianale possa fondersi con l’innovazione industriale.

Il suo fondatore, Cosimo Savarelli, ex dirigente di un noto calzaturificio locale, nel lontano 1989 decise di intraprendere una nuova strada reinventandosi e portando la sua esperienza imprenditoriale acquisita nel corso degli anni in questa nuova realtà. Ad affiancarlo, il figlio Giuseppe, laureato a pieni voti in Management Aziendale presso l’Università del Salento e con cui abbiamo il piacere di parlare oggi.

Giuseppe, la vostra gamma di prodotti è davvero ampia. Come si riesce a gestire una produzione così diversificata?

È difficile dare una risposta univoca a questa domanda, perché nello scenario attuale bisogna essere performanti sotto tutti i punti di vista. Ma sento di poter dire che la chiave fondamentale del nostro successo é l’organizzazione. La nostra azienda, pur mantenendo un’identità artigianale, ha saputo integrare nuove e moderne tecnologie industriali.

Questo ci permette di coprire numerosi settori che spaziano dalla nautica all’agricoltura, dall’edilizia al bricolage, passando per ambiti più specifici e professionali, come quello dei tendaggi e del fai da te. Produciamo cime per ormeggio e ancoraggio, corde galleggianti, trecce calibrate e in alta tenacità, corde naturali, spaghi alimentari, fino ai cordini tecnici per la pesca e attività outdoor. Avere una filiera interna ben strutturata e macchinari tecnologicamente avanzati ci consente di rispondere prontamente e con estrema flessibilità alle mutevoli esigenze di mercato, che poi vendiamo anche online su https://www.corderieitaliane.com/.

Quanto incide l’elemento “Made in Italy” sulla vostra proposta?

È il nostro marchio di fabbrica. Il Made in Italy, oggi più che mai, rappresenta un elemento di garanzia: non solo per la qualità del prodotto, ma anche per l’etica del lavoro e il rispetto delle normative vigenti. Le nostre corde sono fatte per durare: selezioniamo solo materie prime di altissima qualità, supervisioniamo ogni singola fase della produzione e non lasciamo nulla al caso.

Diamo la massima importanza alla qualità del prodotto, all’assistenza pre-post vendita e al packaging finale. In un contesto economico orientato sempre più verso l’adozione di politiche green ed ecosostenibili, siamo costantemente alla ricerca di soluzioni di imballo a basso impatto ambientale, pur garantendo la conservazione del prodotto e un aspetto elegante che attiri l’attenzione del cliente. Anche l’occhio vuole la sua parte, e crediamo molto nell’importanza dell’immagine del brand e della presentazione del prodotto finale che deve essere chiaro ed elegante in ogni punto vendita.

Parlando proprio di punto vendita: il vostro sistema di merchandising è spesso citato come esempio. Come funziona?

Abbiamo pensato ad un modello che metta al centro il rivenditore. Lo aiutiamo in tre fasi: partiamo dalla progettazione del layout personalizzato, forniamo il sistema espositivo con le referenze richieste e infine seguiamo il cliente nel tempo, monitorando la rotazione dei prodotti e aggiornando l’assortimento.

Questo approccio è particolarmente utile in settori come il fai-da-te, dove il  consumatore finale è spesso inesperto e ha bisogno di indicazioni semplici ma precise per orientarsi.

Il settore nautico sembra essere uno dei vostri punti di forza. Ci potete dire qualcosa in più?

È uno dei nostri mercati storici e più affermati. Produciamo corde per piccole e grandi imbarcazioni, trecce decorative e ornamentali, sia in fibra sintetica che naturale, sagole e cordini con destinazioni d’uso differenti e molto altro ancora.

In questo settore è fondamentale garantire resistenza alla trazione, affidabilità e sicurezza. Ecco perché puntiamo su materiali di primissima scelta e su lavorazioni attente ai dettagli. Anche nel mondo della nautica il design conta tantissimo, e le nostre corde devono essere non solo performanti ma anche esteticamente belle da vedere.

Tra le novità, quali sono i prodotti che stanno riscontrando più successo?

Negli ultimi anni abbiamo investito molto nelle cime per le manovre a bordo di imbarcazioni a vela e nei cordini per hobby e fai da te, introducendo nuovi colori e ampliando notevolmente l’assortimento globale. Abbiamo anche investito nei prodotti per il packaging alimentare, come gli spaghi in carta e canapa.

Sono settori in continua espansione, dove il consumatore finale è sempre più attento sia all’estetica che alla sostenibilità. Stiamo anche studiando nuove soluzioni ecologiche, come filati biodegradabili per l’agricoltura, perché crediamo fortemente in una produzione che rispetti l’ambiente e risponda alle esigenze del futuro.

Guardando avanti, qual è la visione per il domani di Corderie Italiane?

Vogliamo continuare a crescere mantenendo solide le nostre radici. Il nostro stabilimento a Gagliano del Capo è il nostro orgoglio, ma è anche un punto di partenza. Sogniamo di portare la nostra filosofia – basata su qualità, servizio e affidabilità – in ogni angolo d’Italia. E chissà, magari anche oltre. La nostra più grande forza è la fiducia dei clienti, costruita nel tempo. E finché saremo “legati alla qualità”, continueremo a fare la differenza.

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