Connect with us

Approfondimenti

Caregiver Familiari: «I disabili non siamo noi»

Caregiver Familiari Comma 255 organizza convegno a Tricase. Intervista alla portavoce nazionale Sofia Donato e alla tricasina Stefania Sciurti (D.A.I. Reagiamo). Comma 255 è un collettivo nazionale, di soli caregiver familiari, che da anni si batte per portare in Italia una legge per il riconoscimento della figura del Caregiver Familiare, emancipandolo e riconoscendolo come cittadino con diritti soggettivi propri, slegati dalla persona con disabilità di cui si occupa.

Pubblicato

il

Caregiver Familiari Comma255, nasce dalla volontà di un gruppo di Caregiver Familiari, composto da genitori e congiunti di persone con disabilità grave, con lo scopo di dare piena attuazione al riconoscimento della figura giuridica del caregiver familiare introdotto nell’ordinamento italiano dall’articolo 1, comma 255, della Legge 27 dicembre 2017, n. 205.


Con l’aiuto sul posto della tricasina Stefania Sciurti, (presidente dell’Associazione D.A.I. Reagiamo) la portavoce nazionale di Comma 255, Sofia Donato, si è adoperata per organizzare un convegno nel Salento, in programma il prossimo 7 ottobre a Tricase.


Per meglio comprendere le ragioni del collettivo e dei caregiver familiari abbiamo trascorso un pomeriggio con Sofia Donato e Stefania Sciurti e sviscerato gran parte degli aspetti che riguardano chi deve accudire un familiare.


Cosa o chi è il Caregiver Familiare?


Sofia Donato, portavoce nazionale del Collettivo Comma 255


«Rispondere a questa domanda è importantissimo perché troppo spesso gli stessi Caregiver Familiari non sanno di esserlo. Il caregiver familiare è una persona che, ad un certo punto della propria vita, entra nella dimensione di disabilità perché un suo familiare convivente ha un deficit adattivo per una compromissione, originaria o sopraggiunta, della sfera intellettivo relazionale, del ritardo mentale, di un deficit cognitivo. In questi casi un adulto del nucleo familiare convivente deve assumere la responsabilità di quella vita e così nasce il binomio caregiver familiare/persona con disabilità. La vita della persona con disabilità deve essere costruita, in suo nome e conto bisogna costantemente decidere, su esigenze quotidiane di poco conto, come su esigenze sanitarie, come sulla costruzione del suo progetto di vita, passato – presente – futuro. È il caregiver familiare che cerca, costruisce e decide tutta la rete di attività e servizi che ruotano intorno al suo congiunto convivente con disabilità, ed è ancora il caregiver familiare che trasforma quella rete in funzione del sopraggiungere delle diverse esigenze del suo congiunto con disabilità, delle sue diverse tappe di crescita.


Prendere decisioni, anche sanitarie, su un individuo terzo, in assenza di una sua espressa collaborazione, cercare e costruire un comune decodificatore per comunicare con il proprio congiunto e perché questi possa il più possibile riuscire a comunicare con il mondo esterno, dover comprendere le esigenze di chi troppo spesso non sa individuare le proprie sensazioni ed emozioni, ma vive tutto come eccitazione, e doverlo tradurre al mondo, essere sempre in allerta e affrontare ogni accadimento imprevisto e rispondervi in maniera adeguata, sostenere una vita sotto continuo ricatto affettivo, nella consapevolezza che la propria serenità e lucidità, in ogni situazione, contribuisce alla serenità del congiunto con disabilità e quindi da questo dipende tutto il suo ménage quotidiano. Nella necessità di essere traduttori di esigenze, interpreti di bisogni, memoria storica dei propri congiunti con disabilità, il caregiver familiare è costretto a vivere tra una crisi – comportamentale o anche epilettica – del proprio congiunto, ed il rifiuto all’iscrizione nella scuola, tra ricoveri programmati e quelli improvvisi in urgenza, con le continue chiamate dalle scuole perché il discente con disabilità crea problemi e bisogna portarlo via, pena il subire manovre di contenimento quando non addirittura il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), e la continua ricerca di suggerimenti per scegliere tra terapie riabilitative, strategie di crescita, sistemi comunicativi. Una domanda ogni anno si ripresenta davanti al caregiver familiare: “cosa ne farò del mio congiunto con disabilità a partire da settembre?”, preludio a quell’angoscia che accompagna la nostra esistenza del “cosa ne sarà di lui/lei quando io non ci sarò più”. Negli ultimi anni si sente abusare continuamente della definizione di caregiver familiare: attorno alla persona con disabilità agiscono tante figure professionali il cui rapporto è gestito da CCNL, prestatori di cura, in inglese caregiver; esistono i familiari, coloro che in uno spirito di aiuto reciproco, si sostengono. Poi, esistono i caregiver familiari, coloro che sono costretti a rinunciare alla propria individualità per condurre la vita del loro congiunto convivente con disabilità, e sono i caregiver familiari e non altri che l’Italia ha definito con la L. 205/2017 all’art. 1 comma 255 – da cui noi prendiamo il nome».


Per supportare i Caregiver Familiari è nato Comma 255. Ci spiega cos’è e di cosa si occupa?


«Caregiver Familiari Comma 255 è un collettivo spontaneo, nato nel febbraio del 2020 quando per la prima volta, in maniera fugace, qualcuno in Parlamento ha parlato di prevedere un indennizzo economico diretto al caregiver familiare. Alcuni di noi, già in campo da anni, si sono così ritrovati e riuniti. Di lì a poco è scoppiata la pandemia con tutte le sue chiusure che ci hanno gettato nel panico, lasciandoci completamente abbandonati nelle nostre case. Di quel periodo buio non ci ha sconvolto la clausura, a quella siamo abituati, come siamo abituati alla dedizione continua verso il nostro congiunto convivente con disabilità. Ma ci ha colpito l’abbandono totale da parte dello Stato e delle Regioni che di punto in bianco hanno chiuso tutti i servizi alla persona con disabilità contando sulla nostra abnegazione e presenza, senza riconoscerci, in alcun modo, né un contributo, né un ringraziamento pubblico. Nel periodo del covid, che per le nostre famiglie ha significato quasi tre anni di interruzione di ogni attività, ci siamo sostenuti l’un l’altro con videocall quotidiane che duravano anche 4 ore. E via via, da tutto l’arco della penisola e dalle isole, abbiamo cominciato a conoscerci e riconoscerci. Nei monitor degli altri vedevamo riflesse le nostre stesse vite, le nostre stesse fatiche, l’attenzione continua verso i nostri congiunti che richiedono una supervisione ininterrotta, i dubbi e le incertezze uguali per tutti noi, abbiamo cominciato a confrontarci. Un gioco ci proponevamo l’un l’altro: parlami di te. E tempo massimo 20 secondi ogni caregiver familiare passava a parlare del proprio congiunto rimanendovi imbrigliato. Noi non esistiamo più neanche nel nostro stesso immaginario.


Da questo, la presa di coscienza che la questione caregiver familiari impone un cambio di visione e di narrazione perché fino ad ora si è parlato di caregiver familiari in funzione del bisogno assistenziale della persona con disabilità di cui questi si occupa, confondendo le necessità della persona con disabilità con quelle dei caregiver familiari. Ma i caregiver familiari sono cittadini con diritti soggettivi propri. La loro condizione va sostenuta perché ha un valore sociale. È necessario ridurre al massimo lo stress psicofisico che da quella condizione deriva e ridare ai caregiver familiari la dignità di cittadini. L’agire dell’Amministrazione nei confronti del caregiver familiare e della persona con disabilità di cui si occupa, quindi, non può essere per sottrazione e va distinta perché si tratta di individui diversi, ognuno con diritti soggettivi propri».


Quali le finalità che perseguite?


«La nostra è una battaglia di emancipazione e dignità che necessita di una riflessione approfondita da parte della politica che porti ad un cambiamento culturale per essere compresa. È nostro dovere e necessità interloquire con tutti, rimanendo equidistanti dalla politica di parte, senza pregiudizi né scelte di schieramento, convinti che il diritto delle persone sia l’intersezione tra le diverse idee e ideologie. La nostra ambizione è ottenere una legge nazionale che ci ridia dignità e ci sollevi da questa visione della società che ci assoggetta alla nostra condizione di caregiver familiari pretendendo la perdita dei nostri stessi diritti individuali».


Lei insiste molto sul concetto di emancipazione del caregiver familiare. Perché?


«Dopo anni, decenni, vissuti nella condizione di caregiver familiare, spesso senza alcuna prospettiva (mai auspicata né auspicabile) che si decada dal ruolo, in questa società che pretende di farci rientrare nel sistema informale dei servizi e di farci firmare patti con i servizi di prossimità per le mansioni che “dobbiamo” impegnarci ad assolvere, noi caregiver familiari dimentichiamo perfino la nostra propria identità, annichiliti dalla mancanza continua di rispetto della nostra individualità, del nostro ruolo, del dato di realtà per il quale spendiamo la nostra vita per salvaguardare al massimo i diritti e la dignità dei nostri congiunti con disabilità, anche davanti a quei servizi di prossimità che troppo spesso si mostrano oppositivi. Gli stessi che pretendono di sottoporci a corsi di formazione per una vita che conduciamo da decenni e della quale siamo da subito, necessariamente, i registi».


Se capisco bene dobbiamo spostare l’attenzione sull’individuo caregiver familiare. Quali sono, quindi, le esigenze specifiche dei caregiver familiari di cui chiedete il riconoscimento?


Stefani Sciurti (Associazione D.A.I. Reagiamo)


«La prima autonomia di cui un individuo abbisogna è quella economica ed i caregiver familiari non fanno differenza. Ci sono caregiver familiari che hanno dovuto rinunciare al lavoro e vivono con ciò che percepisce il proprio congiunto con disabilità: la persona con disabilità non ha quello che gli spetta ed il suo caregiver familiare vive di stenti. Quando poi la persona con disabilità viene a mancare ed il caregiver familiare, ormai fuori dall’età lavorativa, gli sopravvive, si ritrova in una situazione di totale indigenza e solitudine, senza alcuna prospettiva. Che lo Stato, la Regione, la società tutta, lo accettino o, peggio, lo prevedano, è una aberrazione. Un sostentamento economico diretto al caregiver familiare affiancato ad un sistema di politiche attive del lavoro è l’unica strada possibile per arrivare ad una vera emancipazione ed al recupero, per i caregiver familiari, della dignità di cittadini.


Tenere bene a mente il distinguo fra individuo caregiver familiare e individuo con disabilità consentirebbe poi di comprendere che il caregiver familiare non necessita di servizi. I servizi sono la risposta dovuta alla condizione di disabilità di un individuo. Ma il caregiver familiare non abbisogna di servizi. È deputato a gestirli. Tutti i servizi resi alla persona con disabilità rappresentano, per i caregiver familiari, solo una violazione continua della loro privacy ed una responsabilità gestionale, a cui ob torto collo non ci sottraiamo».


Quali sono le resistenze che il collettivo incontra?


«Tutta la regolamentazione dedicata ai caregiver familiari è originata dalla distribuzione del Fondo a loro dedicato istituito con L.205/2017, art. 1 comma 254, che negli anni è stato rivisto nelle finalità ed aumentato di risorse. In assenza di una legge nazionale le Regioni si sono mosse, invece, in una commistione fra individuo caregiver familiare e individuo con disabilità e seguendo lo schema utilizzato per la distribuzione del fondo per la non autosufficienza, fondo dedicato alle persone con disabilità. Questa logica non considera affatto i diritti individuali del caregiver familiare e sta portando a considerarlo come il sostituto “tuttofare” dei servizi dovuti alla persona con disabilità – da sempre, come si sa, del tutto insufficienti – attribuendogli doveri in un principio di una sua non altrimenti definita “volontarietà” di scelta del suo ruolo di caregiver familiare».


Perché considerate pericoloso e sbagliato utilizzare i principi del FNA per individuare i Caregiver Familiari e valutare gli aiuti che necessitano?


«Riteniamo illogica ed ingiusta qualsiasi commistione fra individuo caregiver familiare e individuo con disabilità, perché non considera i diritti individuali del primo ledendoli.


L’appaiamento fondo non autosufficienza ai criteri di accesso al fondo caregiver familiari di cui alla L. 205/2017 art. 1 comma 254, origina da un Decreto Interministeriale che si sta rinnovando di anno in anno uguale a sé stesso. Ma esso prendeva spunto da “urgenze” individuate a causa del periodo pandemico. Essendo stata dichiarata conclusa la pandemia attendiamo che si rivedano i criteri aprendo una riflessione politica a più ampio raggio e valutando l’evidenza che lo stesso periodo pandemico ha fatto emergere sui diritti e le rivendicazioni di noi caregiver familiari, ampiamente da noi testimoniati, e, auspicabilmente, iniziando a considerare l’indipendenza giuridica dell’individuo caregiver familiare dall’individuo con disabilità.


Va poi considerato che la legge di rango primario che nel nostro ordinamento giuridico definisce la disabilità è la L. 104/1992 ed essa, all’art. 3 comma 3, definisce la disabilità grave. Gravissimo è pertanto una definizione introdotta dal DM del 26 settembre 2016 ma non supportata da legge di rango primario. Detto DM, peraltro, svincola la disabilità dall’essere una condizione di vita, come invece introdotto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (L.18/2009) e riporta l’individuazione degli aventi diritto ad accedere al FNA solo in base a precise patologie o sindromi e livelli di gravità.


La “disabilità” in quanto “condizione di vita” può essere generata da una patologia o da una sindrome, o da un evento traumatico singolo (trauma da parto, incidente, ecc.) La rigida definizione delle patologie ammesse per accedere al FNA e dei livelli di gravità indicati per ogni specifica sindrome o patologie – es. l’autismo solo livello 3 – determina l’esclusione dal Fondo di una numerosa platea di persone con disabilità, soprattutto di coloro la cui condizione invalidante origina da una compromissione della sfera intellettivo relazionale e cognitiva.


La selezione degli ammessi al FNA che ne deriva impone di aprire con celerità e forza un tema di inappropriatezza dei criteri del FNA nella valutazione ed individuazione del Caregiver Familiare, figura che va riconosciuta – a nostro avviso – solo nei casi di condizione di disabilità generata da mancanza di autodeterminazione propria dell’individuo con disabilità».


 Quindi quali sono i principi e criteri che chiedete vengano assunti per regolamentare gli interventi a supporto dei caregiver familiari?


«I criteri che necessariamente bisogna inserire in un processo culturale che dia dignità e valore ai caregiver familiari sono:


  • I caregiver familiari sono cittadini e come tali debbono avere riconosciuti i propri diritti individuali. Non si può quindi continuare a ragionare sui caregiver familiari in funzione delle persone con disabilità.

  • Il caregiver familiare è un familiare, nell’accezione più ampia possibile dei rapporti familiari riconosciuti dalla nostra società, ed è convivente. Il caregiver familiare si misura per lo stress psicofisico che la sua condizione gli comporta; se può chiudere una porta, se ha degli spazi solo suoi, se il suo spazio familiare, la sua casa, il luogo del suo riposo non è condiviso con il suo congiunto con disabilità, non è un caregiver familiare, ma un individuo che, secondo il principio di sussidiarietà e di solidarietà ribadito dal nostro ordinamento al diritto di famiglia, aiuta un suo congiunto. Lo stesso diritto di famiglia al titolo XII prevede le situazioni in cui all’interno del nucleo familiare ci siano “persone prive in tutto o in parte di autonomia” ossia non del tutto capaci di agire. È in questi casi che, per noi, esiste il caregiver familiare; esiste, cioè, laddove la persona con disabilità nasca priva o perda nell’arco della sua vita le facoltà mentali, la capacità di agire e la possibilità di autodeterminarsi in maniera autonoma. È in questi casi che per noi si deve riconoscere alla persona con disabilità l’ausilio del caregiver familiare, ricordando però che il caregiver familiare è un cittadino egli stesso, soggetto di diritti, autonomo rispetto alla persona con disabilità che assiste, e titolare di esigenze specifiche. L’Italia è uno stato di diritto che riconosce i diritti soggettivi ad ognuno dei suoi cittadini.

  • La fattispecie di disabilità su indicata ed esplicitata comporta la mancanza di volontarietà del caregiver familiare nell’assumere la propria funzione. Il caregiver familiare fa una vita per due. Lo sforzo è continuo e totalizzante perché la persona con disabilità non riesce ad individuare, determinare e comunicare cosa voglia, quali sensazioni ed emozioni provi, se una scelta, anche sanitaria, è idonea e rispondente alle sue aspettative. Lo stress psico fisico di un caregiver familiare è continuo: per le scelte che si devono fare per un soggetto terzo che non può contribuire a quelle scelte né esprimerne contrarietà; per la costruzione del tempo del proprio congiunto perché ogni singolo momento della giornata va immaginato, programmato, impegnato e monitorato, e, in assenza di capacità di farlo in autonomia da parte della persona con disabilità, questa responsabilità resta in capo al caregiver familiare.

  • In ultimo, esiste un problema di rappresentanze che vengono ascoltate sui temi dei caregiver familiari a qualsiasi livello istituzionale. Proprio in virtù di un distinguo giuridico fra individui, le organizzazioni ed associazioni rappresentative delle persone con disabilità sono legittimati a qualsiasi intervento in difesa dei diritti delle persone con disabilità ma non è possibile affidare loro la rappresentanza e rappresentatività sui temi dei caregiver familiari.


Di rimando, il riconoscimento dei caregiver familiari nelle condizioni di disabilità da noi individuate consentirebbe a questi di essere riconosciuti come interlocutori e rappresentanti validi per la disabilità intellettivo relazionale e con ritardo cognitivo, condizione di vita di chi certamente non ha capacità propria di partecipare ai tavoli di concertazione e confronto, ma la cui “simbiosi” con il caregiver familiare consente a quest’ultimo di rappresentarli a pieno, come fa in ogni atto quotidiano della vita.


Il caregiver familiare è la persona che più di tutti può rappresentare il proprio congiunto con disabilità intellettivo relazionale e ritardo cognitivo. La sua conoscenza e la “simbiosi” che si crea nel binomio necessitano di un caregiver familiare per portare all’attenzione dell’amministrazione e della politica anche le istanze di quella persona con disabilità. Sono quindi i caregiver familiari gli unici cui va riconosciuta la rappresentanza delle persone che vivono in queste specifiche condizioni di disabilità».


Come spingere questo cambiamento culturale?


«Caregiver Familiari COMMA 255 è e vuole rimanere un movimento spontaneo, che si scioglierà il giorno che avrà ottenuto l’approvazione di una Legge nazionale che ridia dignità ai caregiver familiari. e siamo già contenti che un Disegno di Legge da noi ispirato sia depositato alla Camera dei Deputati (clicca qui). Ma per essere ascoltati a tutti i livelli dell’amministrazione la democrazia ci impone di dimostrare una capacità rappresentativa. Nell’onestà intellettuale che ci contraddistingue riteniamo che questa non sia rappresentata dal costituirci in associazione. Chiediamo solo che chi voglia supportare la nostra battaglia, perché la condivide, sottoscriva il nostro manifesto».


Qual è la situazione in Puglia?


«Tutta la regolamentazione dedicata ai caregiver familiari è originata dalla distribuzione del Fondo istituito con L.205/2017, art. 1 comma 254, che negli anni è stato rivisto nelle finalità ed aumentato di risorse, ma che rimane un fondo dedicato ai caregiver familiari. L’appaiamento FNA ai criteri di accesso al fondo di cui alla L. 205/2017 art. 1 comma 254, origina da un Decreto Interministeriale che si sta rinnovando di anno in anno uguale a sé stesso, pur se nato per “urgenze” individuate a causa del periodo pandemico. Tuttavia, la regione Puglia è una delle poche regioni che, nelle more di una legge nazionale, ha emanato la Legge Regionale 27 Febbraio 2020, N. 3 “Norme per il sostegno del caregiver familiare”. Ma anche questa norma lega il caregiver familiare alla valutazione del bisogno assistenziale della persona con disabilità, disconoscendo in toto il diritto soggettivo del caregiver familiare in quanto persona a sé.


I bandi che si stanno susseguendo in questi anni per l’individuazione ed il sostegno dei caregiver familiari presentano a nostro avviso diverse lacune che continueranno a generare confusione.


Ad esempio, la Regione Puglia intende dare delle prescrizioni al Caregiver Familiare anche se definisce la sua attività di sostegno e cura come volontaria. La volontarietà contrasta con la possibilità di imbrigliare in regole e prescrizioni da seguire e soprattutto con l’imposizione di obblighi ben determinati. Addirittura, si sottopone l’attività del caregiver familiare a verifica a cura dell’ambito territoriale sociale e si aggiunge che nel caso in cui emergesse l’inadempimento rispetto agli impegni assunti si procederà alla revoca della misura. Il tutto in assenza di una specifica indicazione dell’inadempimento, che viene indicato in maniera generica, non si conferisce alcun connotato di gravità all’inadempimento ed inoltre non è dato sapere in cosa debba sostanziarsi visto che le prescrizioni sono diverse e individuano ambiti di intervento molto generici:



  • supportare la persona non autosufficiente nella vita di relazione;

  • concorrere al mantenimento delle capacità funzionali della persona non autosufficiente;

  • aiutare la persona non autosufficiente nella mobilità e nel disbrigo delle pratiche amministrative;

  • integrare le sue attività con quelle degli operatori sanitari e socio-sanitari nell’ambito dell’attuazione del Piano Assistenziale Individuale della persona non autosufficiente assistita;

  • collaborare con il case manager nell’ambito dell’attuazione del PAI;

    Non viene considerato il caso in cui il caregiver familiare sia in disaccordo con il case manager e se un eventuale contrasto possa concretizzare un venir meno alle prescrizioni imposte e quindi la revoca del provvedimento.


Non viene indicata l’autorità che dovrebbe procedere all’accertamento della violazione degli obblighi, la durata del procedimento di verifica ed ancora le modalità di difesa del caregiver familiare e l’eventuale possibilità di fare ricorso, con quali modalità e le tempistiche da rispettare.


Anche la pretesa che il caregiver familiare sottoscriva un atto unilaterale di impegno nei confronti del disabile e dell’ambito territoriale quando l’attività prestata viene definita come volontaria e che sia sottoposta a controllo quadrimestrale senza che tale attività di controllo venga minimamente definita nelle modalità integra una violazione della privacy e della libertà con la quale il caregiver familiare presta la propria opera di assistenza e cura.


Inoltre, la misura che sottopone “le normali attività di cura e assistenza del caregiver familiare in favore della persona non autosufficiente” alla verifica a cura dell’Ambito Territoriale Sociale crea una disparità tra i nuclei familiari: il controllo avverrà solo nei casi di nuclei familiari che avranno la necessità di chiedere l’accesso a tale sostegno e lo ottengano. È come dire che laddove l’ente pubblico non eroga servizi può abdicare al proprio ruolo di supervisore, quando, per norma, la persona con disabilità è in carico all’ente locale».


Come pensate si possa intervenire in Puglia?


«Come in tutta la penisola riteniamo necessario un cambiamento di paradigma culturale sul caregiver familiare. Bisogna riportare l’attenzione sul fatto che il caregiver familiare è un individuo egli stesso con diritti soggettivi propri e che non tutte le condizioni di disabilità obbligano l’individuazione di un caregiver familiare.


Questa è una scorciatoia che l’amministrazione pubblica sta trovando per individuare qualcuno a cui demandare tutte le incombenze che i servizi di prossimità non sono in grado di assolvere. E ciò è inaccettabile. Per questo il 7 ottobre, a Tricase, stiamo organizzando un convegno per discutere con l’amministrazione, la sanità, i sindacati e la politica che non si può continuare su questa strada».


Approfondimenti

Vittoria annunciata e confermata per Decaro. Affluenza al ribasso: e ora?

Credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema: come mai tanta gente non va più a votare. E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?

Pubblicato

il

di Luigi Zito 

Si sono da poco chiuse le urne per le elezioni Regionali in Puglia, l’affluenza in picchiata, come tutte le stime lasciavamo intendere, si è attestata al 41,85%, cinque anni fa al voto partecipò il 56,4 per cento degli elettori.

In Puglia si è registrata la più bassa affluenza di sempre, anche meno delle stesse Regioni dove ieri e oggi si è votato: Campania e Veneto.

La provincia dove si è votato di più è stata Lecce, con una affluenza del 44%; Taranto con 40,60%, Bari 41,31%, Brindisi 41,94%, BAT 41,22, la peggiore Foggia con poco più del 38%.

Le proiezioni non lasciano spazio a “ribaltoni” di sorta.

Antonio Decaro, nuovo Governatore di Puglia

Antonio Decaro è dato al 70% non raggiungerebbe il 30% Lobuono che ha già ammesso la sconfitta.

Secondo l’instant poll YouTrendper Sky TG24, nel campo progressista guidato da Antonio Decaro Partito Democratico si attesterebbe tra il 25% e il 29%, seguito dalla lista «Decaro Presidente» stimata tra 11,5% e 15,5%.

Le altre liste della coalizione oscillano tutte tra il 6% e l’8% per «Per la Puglia» e Movimento 5 Stelle, tra il 4% e il 6% per Verdi-Sinistra e tra l’1% e il 3% per i Popolari.

Sul fronte del centrodestra, Luigi Lobuono registra Fratelli d’Italia tra il 18% e il 22%, Forza Italia tra l’8% e l’11% e la Lega tra il 3,5% e il 5,5%.

Le liste minori della coalizione – Noi Moderati, Civici e Sud al Centro – sono tutte comprese tra 0% e 2%.

Ora che la frittata è stata fatta, sarebbe opportuno che qualcuno dei nostri politici ci spiegasse come mai meno di un pugliese su due non si è sentito ispirato nell’andare a votare.

Quali sono i veri motivi: disaffezione alla vita pubblica; poca pubblicità; istituzioni lontane dai cittadini; politici ibernati nelle torri d’avorio; consiglieri regionali poco attenti al territorio ed ai veri problemi dei pugliesi, sanità alla stremo (nella puntata di ieri di Report, la Puglia è ultima nella classifica nazionale per i tempi di attesa delle prenotazioni mediche)?

Ora credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema, la nostra non è una di quelle Regioni democraticamente avanzate (come la Svizzera ad esempio), dove ogni 3 x2 ogni quesito viene posto al popolo che, incalzato da tanta sollecitazione, non va più a votare.

E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?

Sembra, ormai, che l’unico compagno che mai ci abbandona e ci delude nella nostra vita sia il disprezzato cellulare che monitora ogni respiro della nostra giornata: non sarebbe meglio (forse) iniziare a pensare ad un sistema di voto elettronico, in cui ogni votazione, registrazione e conteggio dei voti avviene tramite strumenti digitali?

I vantaggi sarebbero tanti: la velocità del conteggio, la comodità di votare ovunque, si risieda in città o meno, all’estero o in qualsiasi altra parte del mondo; una maggiore possibilità e facilità di far votare persone con disabilità; il risparmio di carta e varie.

Certo le criticità viaggiano alla stessa velocità del web: il rischio di attacchi hacker; la poca affidabilità di molti aggeggi elettronici; garantire la Privacy per tutti (sappiamo bene cosa succede con le fastidiose telefonate dei call che tutti riceviamo sul telefono), e poi la sicurezza.

Ogni innovazione ha pregi e difetti, leggi i Paesi dove hanno già sperimentato il voting, come l’Estonia, il Brasile o l’India che hanno fatto di necessità virtù utilizzando questa novità tecnologica.

Se non iniziamo a pensarci da subito si rischia che, alle prossime elezioni (qualsiasi esse siano), oltre alla penuria di votanti ci ritroveremo anche con Candidati consiglieri e Presidenti eletti che non rappresentano (di fatto) la maggioranza delle volontà dei pugliesi e, se tanto mi dà tanto, tanto vale affidarci alla Dea bendata e sceglierli dal mazzo con una estrazione, risparmieremmo tempo e salute.

📍 Segui il GalloLive News su WhatsApp 👉 clicca qui

 

 

Continua a Leggere

Approfondimenti

Pompeo Maritati, “Quando i numeri si innamorano (e io ci casco)”

Oggi che sono in pensione, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo, ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”…

Pubblicato

il

L’idea di questo libro nasce in un luogo che, a prima vista, sembrerebbe il meno romantico del mondo: una sala corsi di una grande banca italiana, illuminata da neon impietosi, con pile di dispense, calcolatrici scientifiche e tazzine di caffè che avevano visto giorni migliori.

Era verso la fine degli anni 90, e io, in giacca e cravatta, stavo tenendo un corso di matematica finanziaria a un gruppo di operatori bancari. L’argomento del giorno? Il calcolo delle rate di mutuo con il sistema cosiddetto “alla francese”.

Un nome che evoca baguette, bistrot e chanson d’amour, ma che in realtà nasconde una formula che farebbe piangere anche un ingegnere.

Eravamo immersi in coefficienti, tassi d’interesse, progressioni geometriche e quel misterioso “ammortamento” che, più che un piano di rimborso, sembrava una lenta agonia numerica. E proprio mentre stavo spiegando la logica dietro la distribuzione degli interessi nel tempo, uno degli uditori – un tipo sveglio, con l’aria di chi aveva già capito tutto, ma voleva vedere se anche io lo avevo capito se ne uscì con una frase che mi colpì come una freccia di Cupido: “È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Silenzio. Sorrisi. Qualche risatina. Io, ovviamente, feci il classico gesto da docente navigato: annuii con un mezzo sorriso, come a dire “bella battuta, ma torniamo seri”. E così fu. Riprendemmo la lezione, tornai a parlare di rate, di formule, di Excel. Ma quella sera, solo in albergo, mentre il minibar mi offriva una bottiglietta d’acqua a prezzo da champagne e la TV trasmetteva repliche di quiz dimenticati, quella frase tornò a bussare alla mia mente.

“È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”

Ma certo! Perché no? Perché non pensare che dietro le formule ci siano storie? Storie di attrazione, di repulsione, di corteggiamenti matematici, di triangoli amorosi (non solo geometrici), di numeri che si cercano, si sfuggono, si fondono. Un’idea folle, certo.

Accostare l’innamoramento, quel sentimento poetico, irrazionale, profondo, all’aridità dei numeri, che per definizione sono freddi, impersonali, astratti. Ma forse proprio per questo l’idea mi sembrava irresistibile.

Così iniziai a scrivere. A spizzichi e bocconi, tra una riunione e una trasferta, tra un bilancio e un report. Annotavo storielle, dialoghi, immagini. Immaginavo lo Zero e l’Uno in crisi di coppia, il Due che cerca equilibrio, il Pi greco che seduce tutti ma non si concede a nessuno. Poi, come spesso accade, la vita prese il sopravvento.

Gli impegni si moltiplicarono, le cartelle si accumularono, e quei fogli finirono in fondo a un cassetto. Lì rimasero, silenziosi, per anni. Fino a oggi.

Oggi che sono in pensione, e che ho tempo per ascoltare le idee che bussano piano, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo. Ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”

E così è nato questo libro. Un libro che non pretende di insegnare matematica, ma di farla sorridere. Un libro che non vuole dimostrare teoremi, ma raccontare storie. Un libro che, se tutto va bene, vi farà guardare i numeri con occhi nuovi.

Continua a Leggere

Approfondimenti

Luglio 1931: “Quando a Tricase, sul Quadrano, c’erano le Colonie”

Una storia intrigante di un secolo fa: nasce su uno sperone roccioso, su uno dei più bei scorci di Tricase Porto. Da opificio per tabacchine a colonia, durante il fascismo; da casa al mare a discoteca nei anni 70…

Pubblicato

il

di Ercole Morciano

La costruzione conosciuta col nome di “colonie” nasce a Tricase-Porto, sul promontorio del “Quadrano”, tra fine Ottocento e primi del Novecento, come magazzino per la prima lavorazione del tabacco in foglie per conto della ditta greca Hartog & C., proveniente da Salonicco, come quella dei f.lli Allatini.

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi. 

Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.

Proprio da Tricase, dove le tabacchine erano le meno pagate della provincia e oberate dal cottimo, nel 1905 partì la protesta che infiammò tutta la Terra d’Otranto con uno sciopero che portò ad un lieve miglioramento delle paghe e all’abolizione del famigerato cottimo. 


Le tabacchine di Tricase erano “toste” e il loro vessillo scarlatto, recuperato per merito del consigliere comunale socialista Luigi Cavalieri, è ora esposto nella sala consiliare di palazzo Gallone.Tutte le donne del popolo di Tricase erano all’epoca coraggiose e determinate: nel 1917, in piena prima guerra mondiale, sfidarono le dure leggi di guerra che punivano gli assembramenti e scesero in piazza per reclamare pane, pace, lavoro e il rientro dal fronte dei loro uomini, figli-mariti-fratelli-fidanzati.

Le ditte greche Allatini e Hartog, verosimilmente in seguito agli scioperi di cui sopra, decisero di vendere i loro stabilimenti tricasini mettendo fine ad un periodo che, pur foriero di benefici, si caratterizzava per la durezza con cui le lavoratrici venivano trattate e per lo sfruttamento cui erano sottoposte. 

Quello dei F.lli Allatini fu acquistato nel 1909 dal neonato consorzio cooperativo, poi Acait, di cui diventò la sede, mentre quello della ditta Hartog, in Tricase-Porto, passò in proprietà della famiglia del direttore dell’Acait, dott. Filippo Nardi.

“Villa Nardi”, nel primo lustro degli anni ’30”, è denominato l’ex tabacchificio Hartog, costruito sullo sperone roccioso sovrastante la baia del “Quadrano” e caratterizzato da una vasta costruzione a piano terra, con vari ambienti adibiti alla lavorazione, al deposito, agli uffici e alle abitazioni.

Edificato con conci di carparo, volte a stella, vaste aree di pertinenza, su un sito tra i più panoramici di Tricase-Porto, l’ex tabacchificio, detto ufficialmente “Villa Nardi”, fu sede di colonie elio-talasso-terapiche durante il fascismo nel triennio 1932-34.

PERCHE’ LE COLONIE

Il regime fascista sosteneva il sorgere delle colonie estive per due ragioni: una di carattere socio-sanitario per prevenire e contrastare malattie dell’infanzia molto diffuse nelle classi popolari (rachitismo, tubercolosi, avitaminosi…) e l’altra di carattere propagandistico attinente l’educazione e la formazione dei cosiddetti coloni, “Balilla e Piccole Italiane”, ovviamente in gruppi separati, di forte impronta nazionalista, bellicista, con particolare riguardo al culto della personalità verso il dittatore Mussolini, in analogia con quanto avveniva già nella scuola di stato.

A Tricase-Porto vi erano state colonie elioterapiche già negli anni ’20; questa storia inizia invece nel luglio 1931 con una visita alla Colonia di Terracina, provincia di Littoria (ora Latina), dell’ispettore scolastico Raffele Valletta, presidente della Federazione della Mutualità scolastica della provincia di Lecce.

Nasce così nell’ispettore Valletta l’idea di impiantare una colonia estiva in provincia quale filiazione di quella laziale, molto lontana per mandarvi i ragazzi/e delle famiglie salentine.

Il 3 agosto 1932 egli riceve l’approvazione prefettizia che autorizza la Federazione Provinciale M.S. ad “aprire una colonia estiva per bambini/e di 7-12 anni, nella marina porto di Tricase, presso ‘Villa Nardi’ che sarà intitolata ad Achille Starace”. 

Valletta nomina direttrice l’insegnante leccese, Giovanna Astore che il 15 agosto 1932, alle 8.15, prende in carico i “coloni” dalla stazione di Lecce per “rilevare gli altri lungo le fermate della linea Lecce-Zollino-Maglie-Tricase”.

COME FUNZIONAVANO LE COLONIE

Nell’Archivio di Stato di Lecce, tra le carte riguardanti la colonia di Tricase, si conservano l’elenco dei capi del corredo necessario, l’orario delle attività e la “vittizzazione”. 

Orario: 6, sveglia; 6-7 pulizia personale; 7-7.30, primo pasto; 8-12, alla spiaggia; 12.30-13.30, secondo pasto; 13.30-16, ricreazione o riposo; 16-19, passeggiata e merenda; 19.30-20.00, terzo pasto; 20.15, silenzio. 

Ai piccoli coloni verrà somministrata: la mattina, caffè-latte, marmellata e pane; a pranzo, minestra, pietanza, frutta e pane; per merenda, pane, marmellata, od altro; a cena, pietanza, formaggio od altro, frutta e pane. 

Le carte d’archivio ci dicono che l’anno seguente la direzione passò al neo-presidente della Federazione di Lecce Michelangelo Sansonetti, che confermò il personale dell’anno precedente con i relativi incarichi.  

Risulta anche che l’assistenza medica era prestata dal dott. Alessandro Caputo, mentre quella religiosa era assicurata dal parroco di Tricase Porto, don Michele Nuccio. 

Dalla relazione finale del presidente, densa della reboante e pomposa retorica di regime, di cui si trascrivono alcuni stralci, si apprendono i particolari sulla vita della colonia: “educare i fascisti di domani come li vuole il DUCE [sic], sani, forti, disciplinati e pronti a tutto osare”; durante l’alzabandiera: “Gli occhietti [dei bambini] si levano, il braccio si alza nel saluto romano, e un nome vibra nel coro argentino; DUCE. 

Mentre una folla di passanti sosta commossa, più che incuriosita, e riverente si scopre il capo” e si ferma finché non vede di bambini rientrare in colonia “marzialmente cantando Giovinezza”. 

Le parole più altisonanti le troviamo nella esaltazione della figura di Benito Mussolini: “Finita la funzione religiosa, di ritorno [dalla chiesa] in colonia, i nostri bambini, dal canto sacro all’inno Giovinezza, passano tra due fitte ali di popolo, suscitando un delirio di entusiasmo per Colui che con tanto interesse e amore attende alla sanità della stirpe… il cui nome resta scolpito nel cuore di tutti…”. 

GLI ABUSI

Non è possibile scrivere tutto per motivi di spazio, ma si apprende dalle relazioni archiviate che non mancavano gli abusi.

Per esempio, “quando veniva l’ispettore della Mutualità, Pomarici, il pranzo era a base di aragoste che non dovevano mai mancare sulla mensa e altre ne faceva comprare, a spese della direttrice, da portare a casa”.
La direttrice poi abitava in colonia con i suoi 4 figli e tutti “si trattavano molto bene in quanto che staccavano i migliori pezzi della carne acquistata per i coloni e se la preparavano secondo i loro gusti”.
E tutto questo nonostante i controlli a sorpresa, un giorno alla settimana, del presidente Sansonetti che lasciava il figlio in colonia per vigilare: ma la direttrice “approfittava della poca esperienza del giovane” tanto che un suo “conoscente venne ad abitare nella colonia in una delle stanze riserbate alla vedova Nardi [Maria Raeli], al quale veniva somministrato clandestinamente il vitto della colonia”.
FINO A QUANDO FUNZIONO’ LA COLONIA
La colonia funzionò anche nel 1934 e doveva proseguire anche nell’anno seguente perché i moduli per l’iscrizione furono inviati dal presidente Sansonetti ai comuni della provincia l’1 maggio del 1935.
Se non che, di lì a poco, il 15 maggio, si ebbe a Tricase la rivolta, con lo sciopero delle tabacchine, la morte di 5 persone, gli arresti e tutto il resto e pertanto non risulta che quell’anno la colonia si sia tenuta.
Il fabbricato delle “colonie”, nella seconda metà degli anni ’30, cambiò di proprietà perché allo scoppio della guerra mondiale, nel giugno 1940, venne requisito per fini bellici ai nuovi proprietari: Adriana Contegiacomo in Cortese e Donato Antonaci-Dell’Abate ai cui eredi, salvo le alienazioni intercorse, appartiene ancora oggi.
Purtroppo non andarono in porto i tentativi per fare dei fabbricati una struttura turistica ma si ricorda che, nella parte Contegiacomo-Cortese, dove dal dopoguerra in poi abitarono d’estate non poche famiglie tricasine, ha funzionato negli anni ’70 una discoteca (Le Palme) molto frequentata dai giovani per ballare e ascoltare musica all’aperto, in uno dei luoghi più suggestivi di Tricase.
Ringrazio di cuore il collezionista Mario Scorrano per la foto inedita e per le carte datemi in visione.
Continua a Leggere
Pubblicità
Pubblicità

Più Letti