Approfondimenti
Il fallimento della democrazia
Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…
di Hervé Cavallera
Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.
I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.
Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.
Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.
Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.
L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).
Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.
Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.
Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.
È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.
Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.
Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.
Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).
Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.
Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.
In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.
Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.
Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.
Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.
D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.
Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.
Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.
Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.
Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.
Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.
In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.
Approfondimenti
Sempre più violenza in tv, ma è davvero necessaria?
Anzi, a voler sottilizzare si potrebbe dire che l’impressione di una crescente violenza è accentuata dal richiamo che ne fanno i media in modo da avere un maggior numero di lettori o ascoltatori….
di Hervé Cavallera
Chi segue i mezzi di comunicazione nazionali si rende facilmente conto che una delle caratteristiche dei nostri giorni è, purtroppo, la violenza.
Approfondimenti
Come permutare un iPhone: 5 cose da sapere
Chi ha un iPhone difficilmente cambia tipologia di cellulare. Sarebbe, infatti, come passare da un pc della Apple a uno con sistema Microsoft, a fronte di circuiti che vedono logiche opposte e a cui adattarsi può non essere semplice.
Qualcosa di simile accade quando un italiano guida l’automobile in Inghilterra, dove il senso di marcia è opposto a quello del Belpaese, ovvero a sinistra, per utilizzare una metafora.
Pertanto, il prezzo dello smartphone prodotto dalla società resa iconica da Steve Jobs è generalmente tutt’altro che irrilevante. Una soluzione per ovviare a tale condizione però c’è ed è quella di avvalersi di un servizio di permuta iPhone con cui poi acquistare un apparecchio ricondizionato. Oggi vi raccontiamo di cosa si tratta, soffermandoci su 5 curiosità in particolare.
Il significato della parola “permuta”
Partiamo dal significato della parola permuta: sapete infatti cosa vuol dire? Per cercare di spiegarci nel modo migliore possibile abbiamo deciso di prendere in prestito la definizione offerta dal Vocabolario Treccani:
“Contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro”.
Nel caso dell’iPhone, quindi, si assiste alla cessione del vecchio modello che si desidera cambiare, così da risparmiare sull’acquisto di uno nuovo.
Quale iPhone acquistare in seguito alla permuta
La permuta dell’iPhone può rivelarsi interessante sia per coloro che stanno valutando di ottenere un modello nuovo di pacca sia per quanti considerano l’opzione di avvalersi di modelli ricondizionati, detti anche rigenerati.
Si tratta di una soluzione che presenta diversi vantaggi, complice il fatto che si ha la possibilità di accedere a modelli usati riportati alla condizione originaria grazie a test e interventi di ripristino effettuati da professionisti specializzati. In sintesi, possiamo affermare che gli iPhone rigenerati sono economici, performanti e sottoposti a garanzia.
Perché la permuta di iPhone conviene
La permuta si traduce in genere in uno scambio di telefono, consentendo di ottenerne uno nuovo o ricondizionato – più performante quindi – a condizioni più favorevoli, in termini economici e non solo.
Inoltre, permette di “sbarazzarsi” del vecchio cellulare ricavandone qualcosa e sapendo di adottare un comportamento favorevole per l’ambiente, massimizzando l’investimento e avviando delle operazioni di riuso e riciclo.
Quando conviene permutare un iPhone?
Premesso che la permuta dell’iPhone rappresenta sempre una soluzione interessante, ciò risulta valido soprattutto se lo smartphone versa in buone condizioni, sia nelle parti hardware che in quelle software. Per intenderci, se la custodia è rigata varrà meno di una che non lo è.
Si può pensare che per i telefoni più usurati ci sia qualche chance di ricavare qualcosa di più dalla vendita a privati, ma non è detto che ciò effettivamente si verifichi. La permuta rimane comunque l’opzione che offre maggiori sicurezze.
A chi rivolgersi
Sono diversi i portali e gli store in presenza che effettuano un servizio di permuta per quanto riguarda l’iPhone. Il consiglio è quello di affidarsi a una realtà specializzata e affidabile, nella quale lavorano dei professionisti qualificati e da cui magari accedere a condizioni favorevoli per il nuovo acquisto. Cosa che avviene soprattutto nel caso dei prodotti rigenerati.
Andrano
Xylella: La morte dei giganti
L’autore, Stefano Martella: «La storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e, di conseguenza, alla distruzione paesaggistica, culturale, economica»
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Con “La morte dei Giganti” Stefano Martella, giornalista (Quotidiano di Puglia) di Andrano, ha ripercorso le fasi che hanno portato alla quasi desertificazione del Salento.
Dopo aver sondato le motivazioni che hanno spinto la magistratura a mettere sotto inchiesta gli stessi scienziati che hanno scoperto il microrganismo patogeno, il volume mostra come la popolazione si sia divisa in due fazioni contrapposte: chi era convinto che la pianta si potesse salvare e chi la reputava spacciata; chi credeva nelle tesi della scienza e chi invece che sia stato ordito un complotto diabolico.
È stato il primo libro dedicato all’argomento ad essere pubblicato. Nasce nel 2022 e, dal volume, è stato tratto un docufilm (“Il tempo dei giganti” diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, prodotto da Dinamo Film e Fluid Produzioni con il contributo di Apulia Film Fund di Apulia Film Commission e Regione Puglia. È stato girato tra Bari, Valle d’Itria, Alliste, Erchie, Lecce, Brindisi, Otranto e Castellana Grotte) che ha ricevuto il consenso unanime di critica e pubblico oltre che numerosi premi.
Come è nata l’idea di questo libro?
«In modo molto semplice: da salentino avevo la contezza di trovarmi al centro di uno dei cambiamenti più importanti della storia dell’homo sapiens. Il Salento ha, aveva, milioni di ulivi millenari, cioè risalenti all’epoca in cui Nerone si suicidò pugnalandosi alla gola o che il Vesuvio seppellì Pompei. Pensare che abbiano deciso di morire nella nostra epoca, è un evento di portata storica. Da giornalista, ritrovandomi nell’epicentro di quanto stava accadendo ho avuto la certezza di essere al centro di un cambiamento epocale. Così come per un cronista per il crollo del muro di Berlino o nel cuore del Vietnam durante la guerra con gli Stati Uniti. Mi sentivo testimone ed osservatore di un grande cambiamento della storia. Era necessario, a mio parere, mettere tutto in un libro provando a fare un’operazione di carotaggio».
In che senso?
«Distanziandomi dalle due grandi curve che si erano create, ovvero una che sosteneva che la Xylella è inguaribile, l’altra invece che si può debellare. Due tifoserie opposte che si urlavano contro senza dialogarsi».
Quali sono i temi centrali trattati?
«Innanzitutto, la simbiosi tra un popolo ed una pianta, un albero. Gli alberi sono da sempre, a tutti gli effetti, pezzi fondamentali della cultura e dell’identità dei popoli. Quindi raffronto le radici antropologiche e spirituali, culturali, storiche di questa pianta con la popolazione salentina, analizzo le origini dell’arrivo del batterio sul territorio e le falle all’interno del sistema di controllo fitosanitario europeo. Faccio un excursus storico su quali siano state le malattie delle piante nella storia. La Xylella non è un fatto del tutto eccezionale ma una delle tante patologie che hanno sconvolto l’esistenza degli uomini. Analizzo la psicosi che si è instaurata all’interno delle persone, quasi fosse uno shock post traumatico, analizzo anche le reazioni più assurde, grottesche e traumatiche che le persone hanno iniziato a mostrare quando gli alberi hanno iniziato a morire. Analizzo le lotte sociali che le donne salentine, le raccoglitrici di olive hanno fatto per emanciparsi da un sistema schiavista, che era quello dell’economia dell’olio rampante. Va ricordato che il Salento era il più grande produttore di olio rampante d’Europa. Il primo anello di questo grandissimo comparto erano proprio le “schiave”, le donne salentine. Un altro capitolo è dedicato alla famosa teoria del complotto».
Hai parlato con tante persone per la tua ricerca, per il libro, ma anche dopo, nei diversi incontri a cui hai partecipato. Che idea ti sei fatto di tutta la vicenda?
«Che da salentini ci siamo svegliati tardi e tardi ci siamo resi conto che questa pianta non era immortale. Avevamo dato per scontato che questa pianta, lì da millenni, potesse vivere per sempre. Sotto certi aspetti aveva sconfitto la più grande condanna per gli uomini, cioè il tempo. Mentre le persone nascevano, consumavano la loro vita fino alla fine dei loro giorni, gli ulivi rimanevano. Diventavano un grande lascito, da generazione in generazione, creando una grande memoria collettiva e divenendo un tratto identificativo del Salento. Tutto questo è originale sotto certi aspetti. Per la prima volta l’uomo si è scoperto a provare dei sentimenti nei confronti delle piante. Siamo sempre stati abituati, come specie a provare dei sentimenti per la morte di parenti, amici o comunque di appartenenti alla nostra specie. Da qualche tempo avevamo già sentimenti nei confronti degli animali di affezione. Le piante erano invece considerate un po’ come la carta da parati del mondo. Tale sentimentalismo nei confronti degli alberi ci fa comprendere come la nostra stessa esistenza sia in realtà legata al destino delle piante. Ritengo, poi, ci sia ancora molto da lavorare nell’ambito della comunicazione scientifica. Il mondo della scienza è una grande conquista della civiltà occidentale. I ricercatori, nostri scienziati sono una risorsa fondamentale nella nostra civiltà. Mai come in questo periodo c’è stata comunicazione scientifica. Allo stesso tempo, però, mai come in questo periodo aumentano le teorie antiscientifiche. Anche questa è una chiave da analizzare, perché l’epidemia è una cosa scientifica. Xyella è poco precedente, per esempio, all’arrivo del Covid ed anche in quel caso sono nate teorie del complotto. Teorie che, banalmente, rivedo anche nell’altra classica questione identitaria del Salento, il ritorno del lupo sul nostro territorio. Stanno nascendo teorie cospirative che vogliono il lupo non arrivato spontaneamente, ma portato da qualcuno che aveva non meglio precisati torbidi interessi».
Secondo te come andrà a finire tutta questa storia? Come si potrà chiudere il cerchio?
«Partendo da un dato di fatto: la monocoltura, è stata un errore storico. Non potevamo certo prevedere quanto accaduto, ma la storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e di conseguenza alla distruzione paesaggistica, culturale, economica. Quindi il futuro dovrà passare da una diversificazione culturale e anche dalla riscoperta di antiche culture che la monocultura dell’olivo aveva castrato. Altro aspetto importante, a proposito di riforestazione, è il cambiamento climatico, di cui il Salento è hotspot, cioè un luogo, all’interno del Mediterraneo, dove le mutazioni climatiche sono più evidenti, accelerate e più forti. Quindi, qualsiasi ragionamento dovrà tenere conto che la nostra è una terra che sta andando verso un clima molto diverso rispetto a quello del passato».
Con annessi e connessi: emergenza incendi, disboscamento, inquinamento e chi più ne ha più ne metta. Siamo senza speranza?
«Come sempre accade dopo una crisi, dalla vicenda Xylella possiamo imparare tanto. Una cosa che dobbiamo imparare in fretta è che il paesaggio non è immutabile nel tempo ma si trasforma a seconda di decisioni nostre. Ad esempio, la monocultura dell’olivo prima non c’era e il paesaggio del Salento era composto da querce, lecci, frassini… Tutti abbattuti per darci all’economia dell’olio rampante e dell’olivo. Adesso l’olivo, almeno quello monumentale, ha ceduto il passo per mano di una fitopatia e, direttamente o indirettamente, degli uomini. Il paesaggio è sempre in evoluzione, fondamentale è provare a renderlo più resiliente possibile».
Giuseppe Cerfeda
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