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Attualità

Santa Cesarea Terme: lasciatemi dire…

Considerazioni a margine di Annibale Elia, consigliere d’opposizione dal 1975 al 1980 e vice sindaco in tutti gli anni ’80

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Prendendo spunto dal docufilm di Alfredo De Giuseppe, “Santa Cesarea, splendore e disperazione, Annibale Elia che ha vissuto da di dentro numerosi anni della politica del paese (consigliere d’opposizione dal 1975 al 1980 e vice sindaco in tutti gli anni Ottanta) ci ha consegnato alcune sue “considerazioni a margine” che vi proponiamo di seguito.


«Il documentario ci ha mostrato la bellezza di un posto che abbiamo sempre amato.


Splendida la fotografia perché bella è lei: Santa Cesarea dono della creazione. E poi…


Intanto un falso assoluto: nel perimetro urbano del capoluogo comunale, ossia Santa Cesarea non vi è un caso, che sia uno, di costruzione abusiva


Il Comune di Santa Cesarea Terme si è dotato di PRG nel 1970.


Lo stesso può essere oggetto di critica come lo è stato.


Chi lo ha adottato ha forse avuto una visione troppo ottimistica, tant’è che a distanza di 50 anni il maggior numero di comparti non è stato attuato.


Una visione ottimistica ed un indirizzo di scuola urbanistica, allora imperante, che ha permeato lo studio, che non è stato recepito dalla popolazione.


Anzi… il primo comparto realizzato a Vitigliano nel 1981. A Santa Cesarea intorno al 2000.


Questa forse la prima causa di una decadenza via via accentuatasi nel tempo.


Quella che possiamo definire la Santa Cesarea storica è una serie di villette, di palazzi, di abitazioni, tutte in bello stile e che formano il panorama che ammiriamo!


Poi il blocco delle costruzioni durato circa 30 anni ha fatto fuggire da Santa Cesarea quella borghesia che l’aveva resa bella e accogliente.


Aggiungasi le previsioni di PRG che privilegiavano le case o villette a schiera… e l’abbandono (da parte dei borghesi) diventa pressoché totale.


Una parola, per amor di verità, sul blocco: la colpa totale della politica.


Gli assertori del PRG convinti che poi il popolo capirà; i contrari hanno intravisto la possibilità di sostituirsi al comando, cavalcando la protesta e fomentando la paura.


Indicare però i ruderi di quelle che dovevano essere le case dei pescatori come abusivismi edilizi, è un falso storico.


Costruite negli anni 50, lasciate a metà a seguito del fallimento della cooperativa che le aveva ideate e le stava costruendo, ignorate (!) dai proprietari del terreno… non realizzato il comparto previsto nel PRG come Servizi per il turismo e la balneazione.


È sicuramente vero, come si è voluto indicare nel documentario, che le comunità di Cerfignano e Vitigliano non si sono (ancora!) amalgamate.


Ne è prova che soltanto le prime elezioni del dopoguerra hanno visto un sindaco che non fosse di Cerfignano.


Ma se all’origine la perla rifulse, vuol dire che quella causa non è così fondamentale.

Oggi quella che si è voluta chiamare disperazione è dovuta ad una mancanza di visione che, come accennato dal prof. Cuccodoro, non ha voluto tenere e non tiene conto dell’identità di una realtà territoriale.


All’origine della costruzione di Santa Cesarea era quasi obbligatorio, data la ridotta possibilità di mobilità,  trasferirsi per poter lavorare o realizzare una qualsiasi attività: nella prima metà del secolo scorso la popolazione del centro cresceva e negli anni ’50 raggiungeva circa 400 abitanti in inverno.


A conferma vi erano due pluriclassi con circa 30 ragazzi per ognuna.


Con la cresciuta mobilità, e ancor più dopo che la gestione della Terme SpA è divenuta politica (1979) l’occupazione presso le Terme non è stata precipua di chi abitava a Santa Cesarea, anzi si è passati nel tempo, all’inizio 1-1-1, vale a dire uno di Cerfignano, uno di Vitigliano e uno di Santa Cesarea, poi cambiato il segno politico 1-1 (Cerfignano – Vitigliano) ed infine nei tempi più recenti 1 sempre (C).


Una località senza popolazione naturalmente va a decadere. Gli errori della politica sono stati tanti: dalla ripartizione degli investimenti comunali sempre divisi per 3, quando andava bene; dalle case popolari costruite la prima volta a Santa Cesarea, ma poi mai più, anzi venduto un suolo di proprietà dell’ECA e che era destinato a tale utilizzo.


È mancata, in una parola, la cura della Comunità!


E non può sorprendere: oggi surrettiziamente si sta trasferendo perfino il Consiglio Comunale!


Un discorso a parte la gestione delle Terme.


Finché la gestione è stata del privato, è stato suo interesse veder crescere e sviluppare la località.


 Successivamente quando si è insediata la politica nella gestione diretta, per un primo momento ha potuto godere del trend positivo, che era anche positivo nella legislazione. I curisti erano arrivati a 35mila.


Lo studio dell’Università di Bari realizzato nel 1986 prevedeva nel giro di pochi anni un numero di curisti pari ad 80mila.


Si pensò il nuovo Centro Termale, con una possibilità di raddoppio successivo.


Ma gli effetti deleteri della politica che diventa gestione si sentirono subito: nel vecchio stabilimento lievitavano gli addetti, mentre si riducevano i curisti; il nuovo ebbe bisogno subito di una doppia gara, perché nel frattempo l’Amministrazione comunale era cambiata.


Ma se la proprietà della società Terme e quella del nuovo Centro Termale erano entrambe pubbliche, il dominio (vale a dire chi comandava) era completamente diverso.


Al che anziché sviluppare sinergie si è pervenuti alla situazione che è sotto i nostri occhi… disperati.


E quando poi è cambiata anche la legislazione riguardante le cure termali tutto è diventato più difficile.


Non è quindi la apertura ai privati dello sfruttamento delle acque termali la panacea di tutti i mali, come pare voglia suggerire il documentario.


Non riusciamo a comprendere altro suggerimento!


Negli anni ’90 fu fatto anche un tentativo in tal senso, abbandonato dagli stessi privati…


L’inversione del trend deve venire dalla politica, partendo dalla cura della comunità che insiste su Santa Cesarea, che sola può gestire quei servizi essenziali indispensabili per la comunità medesima e per tutti coloro che periodicamente si aggiungono come curisti o villeggianti».




Attualità

Via alle ispezioni della cavità in zona Puzzu a Tricase

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Sono iniziate stamani le ispezioni del pozzo rinvenuta nel borgo antico di Tricase, in zona Puzzu, la scorsa settimana (leggi qui)

A calarsi sono i componenti del Gruppo Speleologico Tricase. Restituiranno tutte le informazioni utili che emergeranno sulla cavità, a partire anche dall’esatta profondità, stimata in circa 25 metri al momento del ritrovamento, avvenuto durante i lavori di riqualificazione del centro storico.

Per le vie del centro cittadino intanto stamattina è rimbalzata la falsa notizia secondo cui qualcuno sarebbe caduto accidentalmente nel pozzo. Nulla di vero: trattasi appunto delle operazioni ispettive avviate nella giornata odierna.

La locale Protezione Civile ed una ambulanza sono sul posto preventivamente, pronte a intervenire in caso di necessità.

Le foto

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Approfondimenti

Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Attualità

«La mafia salentina è sempre viva»

Intervista a Francesco Mandoi, ex magistrato salentino già Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia: «Vi spiego tutto»

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di Sefora Cucci

Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato” (Besa editrice).  Questo il titolo del libro di Francesco Mandoi, ex magistrato salentino che è stato Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia, in libreria dal 25 aprile.

Da allora, il suo autore è coinvolto in un tour di presentazione e divulgazione che sta facendo il giro dell’intera Puglia, toccando moltissimi paesi, ad esempio Molfetta, Castellaneta, Cutrofiano, Manduria, Lecce, Novoli, Nardò, Trepuzzi e Ugento.

Una vita spesa al servizio dello Stato. «Il destino ha voluto che potessi fare il mestiere che amavo e grazie al mio lavoro posso dire di aver raggiunto, come sosteneva Primo Levi, “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”», dichiara il dott. Mandoi, che abbiamo intervistato.

Lei rifiuta l’etichetta di magistrato antimafia. Perchè?

«Non amo quella definizione perché la magistratura, nella sua essenza, non è mai stata né pro né contro qualcosa. La giustizia non dovrebbe essere partigiana e un magistrato non è e non deve essere un militante. Aggiungere l’aggettivo “antimafia” rischia di creare una grande confusione, perché il più delle volte viene utilizzato quasi per fini retorici, politici o mediatici. Sembra quasi indicare implicitamente che esista una categoria di magistrati “speciali” che svolgono un lavoro più nobile o significativo rispetto ad altri. Chi combatte la mafia non lo fa per vanità, ma per dovere. Etichettare qualcuno come “antimafia” non solo isola quel magistrato dal contesto più ampio della giustizia, ma sminuisce il valore del lavoro degli altri. Sono sempre più convinto che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi solitari, ma di una società consapevole e unita».

Dalla recente relazione DIA relativa al 2024 emerge che i clan storici del Salento continuano ad esercitare il controllo sul territorio. Quali armi allora?

«Ho letto con sincera preoccupazione i dati emersi i quali, non fanno altro che raffermare la mia idea che la SCU non è mai finita nel nostro territorio. Anzi, molto più correttamente dovremmo parlare di mafia salentina perché nel corso del tempo ha assunto vari nomi; perché sa, la mafia è camaleontica ed è in grado di adattarsi a qualunque scenario, mantenendo sempre gli stessi obiettivi. Alle attività tipiche (estorsione, spaccio, riciclaggio, ecc.) se ne aggiunge un’altra, altrettanto preoccupante: quella relativa al controllo delle attività turistiche».

Cosa possiamo fare?

«Denunciare e sensibilizzare. Questi non sono due verbi vuoti ma si caricano del significato che diamo loro: mettere la pulce nell’orecchio delle forze dell’ordine è possibile, purché ci sia fiducia nelle istituzioni. Dobbiamo stimolare alla collaborazione. Cosa serve? Uomini, mezzi, collaborazione, credibilità nello Stato e soprattutto recuperare la fiducia nei confronti delle Istituzioni che in questo momento storico va via via perdendosi. Occorre recuperare quella fiducia perché si sta diffondendo una cultura del ‘chi me lo fa fare?’ che è l’anticamera della cultura dell’omertà».

Le recenti riforme sulla giustizia e i disegni di legge qualificano una situazione in cui, da più parti, è stato lanciato un allarme al pericolo di lesione dello stato di diritto. Lei cosa ne pensa?

«Il pericolo è estremamente reale. Sono molto preoccupato. Il rapporto tra cittadino e Stato si deve basare sulla fiducia. Se questa viene a poco a poco minata, quanta credibilità rimane? Il rischio è di mettere in crisi lo stato di diritto perché la gente non crede. É scettica. E scetticismo si riscontra verso i recenti atti, pensiamo al decreto sicurezza, ormai legge. Al di là di possibili profili di illegittimità costituzionale, mi sembra fatto solo per ragioni demagogiche. E se si è scelta questa strada, significa che l’80% della legge serve solo a livello demagogico».

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