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Scuola, alla ricerca dell’attenzione perduta
Vietato l’uso dei cellulari in classe: l’uomo non è più un animale sociale, bensì collegato; ma è un collegamento digitale meramente virtuale, nel quale si rimane risolutamente soli
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Sta suscitando non poco rumore sui social e nelle stesse scuole la notizia della circolare del ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, circolare che vieta agli alunni della scuola elementare e media l’uso del cellulare in classe, potendo essere causa di distrazione. Naturalmente il divieto non riguarda l’utilizzazione di tablet o computer per fini didattici sotto la guida degli insegnanti.
In una società ormai abituata discutere immediatamente di tutto e su tutto, si sono manifestati diversi punti di vista. Tra coloro che sono stati da subito contrari alla circolare c’è chi ha pensato ad un assurdo ritorno al passato, chi ha paventato che l’alunno non possa comunicare eventuali e urgenti bisogni ai genitori e viceversa, chi ha ritenuto che fosse un primo passo contro la libertà di informazione e così via.
In realtà, occorre vedere le cose più serenamente e collegarle sia all’età degli alunni sia al contesto scuola.
Quest’ultima ha il compito primario di formare la personalità degli alunni, ancora minorenni, sia da un punto di vista culturale sia sociale sia morale.
Ne segue di conseguenza, come è sempre stato, che chi va scuola deve essere attento a quello che gli insegnanti spiegano e non deve distrarsi, se non nei momenti della normale ricreazione, come già una volta si sapeva, ricreazione che serve anche a favorire la relazione tra coetanei.
Alla luce di tutto ciò, è chiaro che il cellulare non è qualcosa di insostituibile, anche perché in caso di un reale e impellente bisogno comunicativo scuola e genitori possono benissimo ricorrere ai propri cellulari.
Si aggiunga poi che se qualche alunno non avesse il cellulare, ciò potrebbe generare in lui uno stato di minorità rispetto a quelli che lo possiedono.
E poi ci sono cellulari e cellulari, da quelli meno costosi a quelli più costosi.
Anche questo potrebbe provocare lo stato di disagio per bambini e ragazzi che non lo possiedono o ne hanno qualcuno di bassa qualità.
D’altronde, una volta si ricorreva appunto al grembiule per evitare che si potessero fare confronti tra chi vestiva bene e chi no.
Per tale ragione, il fatto che nessuno in classe abbia il cellulare elimina possibili discriminazioni.
Ma vi è un altro aspetto da evidenziare.
Il cellulare o smartphone non è un mero telefonino.
Come tutti sappiamo è un piccolo computer che consente una infinità di accessi, tanto che, particolarmente nella delicata fase dell’età evolutiva costituita dalla fanciullezza e pubertà, ossia dalla prima adolescenza, sarebbe auspicabile che i genitori curassero con estrema attenzione l’uso che ne fanno i figli.
Si pensi all’accesso ai diversi giochi e dagli esperti da tempo si parla della presenza di una diffusa e pericolosa dipendenza dai videogiochi.
Lo strumento infatti – e noi adulti ben lo sappiamo – non è solo un mezzo di comunicare con qualcuno, ma consente una varietà di notizie, sì che per l’aggiornamento sui fatti quotidiani noi stessi ricorriamo alle informazioni che si trovano tramite lo smartphone.
Così un po’ tutti smanettiamo quasi ossessivamente sul cellulare, acquisendo una complessa dipendenza.
Sotto tale profilo, è chiaro che all’interno dell’ambito scolastico l’uso personale del cellulare può effettivamente produrre delle distrazioni che non sono ammissibili per chi deve seguire delle lezioni. Per tutte queste ragioni, che nella scuola elementare e media si eviti l’uso del cellulare non vi è nulla di male, proprio perché il divieto è in funzione del fatto che gli alunni si possano concentrare sul processo di apprendimento e sui normali rapporti con i compagni di classe.
Tuttavia, proprio il fatto che la notizia della circolare abbia provocato un dibattito complesso in cui sono emersi consensi e dissensi, induce ad ulteriori considerazioni. C’è chi ha percepito il divieto, se non altro in cuor suo, come un impedimento ad un legittimo strumento che si porta sempre con sé.
Il che significa che gli adulti, più che i bambini e i ragazzi, hanno in vario modo associato la propria esistenza all’uso del digitale, e nella fattispecie del cellulare di cui non si riesce a fare a meno.
IL MONDO DELLE PULSIONI
Indubbiamente vi sono motivi più che giustificabili, quale la possibilità di comunicare con chicchessia quando necessario.
Non è solo tale (giustificato) motivo.
Con una battuta – e semplificando un discorso più complesso – possiamo dire che l’uomo oggi più che dialogare con il prossimo con parole o per iscritto, non fa altro che digitare.
Si informa di tutto ed è in contatto con tutti sì da creare personaggi che determinano i costumi (i cosiddetti influencers) con un enorme numero di seguaci (followers).
Del resto, è difficile per ognuno di noi non far parte di gruppi (Facebook, Instagram ecc.) e non ricorrere a WhatsApp.
Per usare un’immagine ad effetto, l’uomo non è più un animale sociale, bensì un animale collegato; ma è un collegamento digitale meramente virtuale, nel quale si rimane risolutamente soli.
Il mondo della informazione non è il mondo né dell’amicizia, né della compartecipazione reale, bensì delle notizie e talvolta delle manifestazioni immediate dei propri punti di vista, delle emotività.
Vi è la possibilità (non astratta) che prevalga il mondo delle pulsioni e non quello della ragione, della ponderatezza.
Per questo credo sia bene che nella scuola continui ad esistere il dialogo interpersonale tra docenti e discenti e che esso non venga turbato da distrazioni artificiali.
L’Intelligenza artificiale dice che…
Cellulari vietati in classe dalla Scuola dell’Infanzia fino alla scuola media: abbiamo chiesto a ChatGPT cosa ne pensasse.
Secondo l’intelligenza artificiale, vietare gli smartphone a scuola può essere giustificato da diverse ragioni legate sia all’educazione che al benessere degli studenti.
Ecco alcune delle motivazioni principali.
Distrazione: gli smartphone possono essere una fonte significativa di distrazione, sia durante le lezioni che nei momenti di studio. La presenza di notifiche, social media e giochi può rendere difficile per gli studenti concentrarsi su ciò che viene insegnato.
Prestazioni accademiche: studi hanno dimostrato che l’uso degli smartphone in classe può avere un impatto negativo sulle prestazioni accademiche. Gli studenti che utilizzano meno il telefono tendono a ottenere risultati migliori.
Cyberbullismo: gli smartphone possono facilitare episodi di cyberbullismo tra studenti. Limitando l’accesso ai dispositivi durante l’orario scolastico, si può contribuire a ridurre questi episodi.
Benessere psicologico: l’uso eccessivo dello smartphone è stato associato a problemi di ansia, depressione e stress tra i giovani. Vietare o limitare l’uso dei dispositivi può aiutare a promuovere un ambiente scolastico più sano e meno stressante.
Socializzazione: durante le pause, l’assenza degli smartphone incoraggia gli studenti a interagire direttamente tra loro, favorendo lo sviluppo di competenze sociali e relazionali importanti.
Sicurezza: gli smartphone possono essere utilizzati per filmare o fotografare altre persone senza il loro consenso, causando potenziali problemi di privacy e sicurezza.
Accesso a contenuti inappropriati: dli smartphone offrono un accesso diretto a internet, dove è possibile trovare contenuti non adatti ai ragazzi. Limitare l’uso dei dispositivi può ridurre il rischio di esposizione a tali contenuti.
In sintesi, per ChatGPT, vietare gli smartphone a scuola mira a creare un ambiente più favorevole all’apprendimento, proteggere il benessere psicologico degli studenti e promuovere una maggiore interazione sociale e concentrazione. Ovviamente questa è solo la posizione dell’AI, il dibattito resta aperto…
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Vittoria annunciata e confermata per Decaro. Affluenza al ribasso: e ora?
Credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema: come mai tanta gente non va più a votare. E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?
di Luigi Zito
Si sono da poco chiuse le urne per le elezioni Regionali in Puglia, l’affluenza in picchiata, come tutte le stime lasciavamo intendere, si è attestata al 41,85%, cinque anni fa al voto partecipò il 56,4 per cento degli elettori.
In Puglia si è registrata la più bassa affluenza di sempre, anche meno delle stesse Regioni dove ieri e oggi si è votato: Campania e Veneto.
La provincia dove si è votato di più è stata Lecce, con una affluenza del 44%; Taranto con 40,60%, Bari 41,31%, Brindisi 41,94%, BAT 41,22, la peggiore Foggia con poco più del 38%.
Le proiezioni non lasciano spazio a “ribaltoni” di sorta.
Antonio Decaro è dato al 70% non raggiungerebbe il 30% Lobuono che ha già ammesso la sconfitta.
Secondo l’instant poll YouTrendper Sky TG24, nel campo progressista guidato da Antonio Decaro Partito Democratico si attesterebbe tra il 25% e il 29%, seguito dalla lista «Decaro Presidente» stimata tra 11,5% e 15,5%.
Le altre liste della coalizione oscillano tutte tra il 6% e l’8% per «Per la Puglia» e Movimento 5 Stelle, tra il 4% e il 6% per Verdi-Sinistra e tra l’1% e il 3% per i Popolari.
Sul fronte del centrodestra, Luigi Lobuono registra Fratelli d’Italia tra il 18% e il 22%, Forza Italia tra l’8% e l’11% e la Lega tra il 3,5% e il 5,5%.
Le liste minori della coalizione – Noi Moderati, Civici e Sud al Centro – sono tutte comprese tra 0% e 2%.
Ora che la frittata è stata fatta, sarebbe opportuno che qualcuno dei nostri politici ci spiegasse come mai meno di un pugliese su due non si è sentito ispirato nell’andare a votare.
Quali sono i veri motivi: disaffezione alla vita pubblica; poca pubblicità; istituzioni lontane dai cittadini; politici ibernati nelle torri d’avorio; consiglieri regionali poco attenti al territorio ed ai veri problemi dei pugliesi, sanità alla stremo (nella puntata di ieri di Report, la Puglia è ultima nella classifica nazionale per i tempi di attesa delle prenotazioni mediche)?
Ora credo sia arrivato il momento che qualcuno si ponga il problema, la nostra non è una di quelle Regioni democraticamente avanzate (come la Svizzera ad esempio), dove ogni 3 x2 ogni quesito viene posto al popolo che, incalzato da tanta sollecitazione, non va più a votare.
E allora non sarebbe opportuno, in questa centrifuga tecnologica del nuovo millennio, che si cominciasse a pensare ad una votazione elettronica?
Sembra, ormai, che l’unico compagno che mai ci abbandona e ci delude nella nostra vita sia il disprezzato cellulare che monitora ogni respiro della nostra giornata: non sarebbe meglio (forse) iniziare a pensare ad un sistema di voto elettronico, in cui ogni votazione, registrazione e conteggio dei voti avviene tramite strumenti digitali?
I vantaggi sarebbero tanti: la velocità del conteggio, la comodità di votare ovunque, si risieda in città o meno, all’estero o in qualsiasi altra parte del mondo; una maggiore possibilità e facilità di far votare persone con disabilità; il risparmio di carta e varie.
Certo le criticità viaggiano alla stessa velocità del web: il rischio di attacchi hacker; la poca affidabilità di molti aggeggi elettronici; garantire la Privacy per tutti (sappiamo bene cosa succede con le fastidiose telefonate dei call che tutti riceviamo sul telefono), e poi la sicurezza.
Ogni innovazione ha pregi e difetti, leggi i Paesi dove hanno già sperimentato il voting, come l’Estonia, il Brasile o l’India che hanno fatto di necessità virtù utilizzando questa novità tecnologica.
Se non iniziamo a pensarci da subito si rischia che, alle prossime elezioni (qualsiasi esse siano), oltre alla penuria di votanti ci ritroveremo anche con Candidati consiglieri e Presidenti eletti che non rappresentano (di fatto) la maggioranza delle volontà dei pugliesi e, se tanto mi dà tanto, tanto vale affidarci alla Dea bendata e sceglierli dal mazzo con una estrazione, risparmieremmo tempo e salute.
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Pompeo Maritati, “Quando i numeri si innamorano (e io ci casco)”
Oggi che sono in pensione, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo, ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”…
L’idea di questo libro nasce in un luogo che, a prima vista, sembrerebbe il meno romantico del mondo: una sala corsi di una grande banca italiana, illuminata da neon impietosi, con pile di dispense, calcolatrici scientifiche e tazzine di caffè che avevano visto giorni migliori.
Era verso la fine degli anni 90, e io, in giacca e cravatta, stavo tenendo un corso di matematica finanziaria a un gruppo di operatori bancari. L’argomento del giorno? Il calcolo delle rate di mutuo con il sistema cosiddetto “alla francese”.
Un nome che evoca baguette, bistrot e chanson d’amour, ma che in realtà nasconde una formula che farebbe piangere anche un ingegnere.
Eravamo immersi in coefficienti, tassi d’interesse, progressioni geometriche e quel misterioso “ammortamento” che, più che un piano di rimborso, sembrava una lenta agonia numerica. E proprio mentre stavo spiegando la logica dietro la distribuzione degli interessi nel tempo, uno degli uditori – un tipo sveglio, con l’aria di chi aveva già capito tutto, ma voleva vedere se anche io lo avevo capito se ne uscì con una frase che mi colpì come una freccia di Cupido: “È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”
Silenzio. Sorrisi. Qualche risatina. Io, ovviamente, feci il classico gesto da docente navigato: annuii con un mezzo sorriso, come a dire “bella battuta, ma torniamo seri”. E così fu. Riprendemmo la lezione, tornai a parlare di rate, di formule, di Excel. Ma quella sera, solo in albergo, mentre il minibar mi offriva una bottiglietta d’acqua a prezzo da champagne e la TV trasmetteva repliche di quiz dimenticati, quella frase tornò a bussare alla mia mente.
“È come se alcuni numeri si fossero innamorati.”
Ma certo! Perché no? Perché non pensare che dietro le formule ci siano storie? Storie di attrazione, di repulsione, di corteggiamenti matematici, di triangoli amorosi (non solo geometrici), di numeri che si cercano, si sfuggono, si fondono. Un’idea folle, certo.
Accostare l’innamoramento, quel sentimento poetico, irrazionale, profondo, all’aridità dei numeri, che per definizione sono freddi, impersonali, astratti. Ma forse proprio per questo l’idea mi sembrava irresistibile.
Così iniziai a scrivere. A spizzichi e bocconi, tra una riunione e una trasferta, tra un bilancio e un report. Annotavo storielle, dialoghi, immagini. Immaginavo lo Zero e l’Uno in crisi di coppia, il Due che cerca equilibrio, il Pi greco che seduce tutti ma non si concede a nessuno. Poi, come spesso accade, la vita prese il sopravvento.
Gli impegni si moltiplicarono, le cartelle si accumularono, e quei fogli finirono in fondo a un cassetto. Lì rimasero, silenziosi, per anni. Fino a oggi.
Oggi che sono in pensione, e che ho tempo per ascoltare le idee che bussano piano, che posso permettermi di scrivere senza Excel aperto in sottofondo. Ho ritrovato quei fogli, li ho riletti, e mi sono detto: “Perché non completarlo? Perché non dare voce a quei numeri innamorati?”
E così è nato questo libro. Un libro che non pretende di insegnare matematica, ma di farla sorridere. Un libro che non vuole dimostrare teoremi, ma raccontare storie. Un libro che, se tutto va bene, vi farà guardare i numeri con occhi nuovi.
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Luglio 1931: “Quando a Tricase, sul Quadrano, c’erano le Colonie”
Una storia intrigante di un secolo fa: nasce su uno sperone roccioso, su uno dei più bei scorci di Tricase Porto. Da opificio per tabacchine a colonia, durante il fascismo; da casa al mare a discoteca nei anni 70…
di Ercole Morciano
La costruzione conosciuta col nome di “colonie” nasce a Tricase-Porto, sul promontorio del “Quadrano”, tra fine Ottocento e primi del Novecento, come magazzino per la prima lavorazione del tabacco in foglie per conto della ditta greca Hartog & C., proveniente da Salonicco, come quella dei f.lli Allatini.
Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.
Costruire un magazzino per la lavorazione del tabacco al porto, mentre comportava indubbi benefici per la ditta proprietaria, costringeva le operaie tabacchine a portarsi da Tricase alla marina per lavorare in ogni condizione metereologica e ne siamo certi a piedi nudi, come purtroppo imponevano i tempi.
Proprio da Tricase, dove le tabacchine erano le meno pagate della provincia e oberate dal cottimo, nel 1905 partì la protesta che infiammò tutta la Terra d’Otranto con uno sciopero che portò ad un lieve miglioramento delle paghe e all’abolizione del famigerato cottimo.

Le tabacchine di Tricase erano “toste” e il loro vessillo scarlatto, recuperato per merito del consigliere comunale socialista Luigi Cavalieri, è ora esposto nella sala consiliare di palazzo Gallone.Tutte le donne del popolo di Tricase erano all’epoca coraggiose e determinate: nel 1917, in piena prima guerra mondiale, sfidarono le dure leggi di guerra che punivano gli assembramenti e scesero in piazza per reclamare pane, pace, lavoro e il rientro dal fronte dei loro uomini, figli-mariti-fratelli-fidanzati.
Le ditte greche Allatini e Hartog, verosimilmente in seguito agli scioperi di cui sopra, decisero di vendere i loro stabilimenti tricasini mettendo fine ad un periodo che, pur foriero di benefici, si caratterizzava per la durezza con cui le lavoratrici venivano trattate e per lo sfruttamento cui erano sottoposte.
Quello dei F.lli Allatini fu acquistato nel 1909 dal neonato consorzio cooperativo, poi Acait, di cui diventò la sede, mentre quello della ditta Hartog, in Tricase-Porto, passò in proprietà della famiglia del direttore dell’Acait, dott. Filippo Nardi.
“Villa Nardi”, nel primo lustro degli anni ’30”, è denominato l’ex tabacchificio Hartog, costruito sullo sperone roccioso sovrastante la baia del “Quadrano” e caratterizzato da una vasta costruzione a piano terra, con vari ambienti adibiti alla lavorazione, al deposito, agli uffici e alle abitazioni.
Edificato con conci di carparo, volte a stella, vaste aree di pertinenza, su un sito tra i più panoramici di Tricase-Porto, l’ex tabacchificio, detto ufficialmente “Villa Nardi”, fu sede di colonie elio-talasso-terapiche durante il fascismo nel triennio 1932-34.
PERCHE’ LE COLONIE
Il regime fascista sosteneva il sorgere delle colonie estive per due ragioni: una di carattere socio-sanitario per prevenire e contrastare malattie dell’infanzia molto diffuse nelle classi popolari (rachitismo, tubercolosi, avitaminosi…) e l’altra di carattere propagandistico attinente l’educazione e la formazione dei cosiddetti coloni, “Balilla e Piccole Italiane”, ovviamente in gruppi separati, di forte impronta nazionalista, bellicista, con particolare riguardo al culto della personalità verso il dittatore Mussolini, in analogia con quanto avveniva già nella scuola di stato.
Nasce così nell’ispettore Valletta l’idea di impiantare una colonia estiva in provincia quale filiazione di quella laziale, molto lontana per mandarvi i ragazzi/e delle famiglie salentine.
Il 3 agosto 1932 egli riceve l’approvazione prefettizia che autorizza la Federazione Provinciale M.S. ad “aprire una colonia estiva per bambini/e di 7-12 anni, nella marina porto di Tricase, presso ‘Villa Nardi’ che sarà intitolata ad Achille Starace”.
Valletta nomina direttrice l’insegnante leccese, Giovanna Astore che il 15 agosto 1932, alle 8.15, prende in carico i “coloni” dalla stazione di Lecce per “rilevare gli altri lungo le fermate della linea Lecce-Zollino-Maglie-Tricase”.
COME FUNZIONAVANO LE COLONIE
Nell’Archivio di Stato di Lecce, tra le carte riguardanti la colonia di Tricase, si conservano l’elenco dei capi del corredo necessario, l’orario delle attività e la “vittizzazione”.
Orario: 6, sveglia; 6-7 pulizia personale; 7-7.30, primo pasto; 8-12, alla spiaggia; 12.30-13.30, secondo pasto; 13.30-16, ricreazione o riposo; 16-19, passeggiata e merenda; 19.30-20.00, terzo pasto; 20.15, silenzio.
Ai piccoli coloni verrà somministrata: la mattina, caffè-latte, marmellata e pane; a pranzo, minestra, pietanza, frutta e pane; per merenda, pane, marmellata, od altro; a cena, pietanza, formaggio od altro, frutta e pane.
Le carte d’archivio ci dicono che l’anno seguente la direzione passò al neo-presidente della Federazione di Lecce Michelangelo Sansonetti, che confermò il personale dell’anno precedente con i relativi incarichi.
Risulta anche che l’assistenza medica era prestata dal dott. Alessandro Caputo, mentre quella religiosa era assicurata dal parroco di Tricase Porto, don Michele Nuccio.
Dalla relazione finale del presidente, densa della reboante e pomposa retorica di regime, di cui si trascrivono alcuni stralci, si apprendono i particolari sulla vita della colonia: “educare i fascisti di domani come li vuole il DUCE [sic], sani, forti, disciplinati e pronti a tutto osare”; durante l’alzabandiera: “Gli occhietti [dei bambini] si levano, il braccio si alza nel saluto romano, e un nome vibra nel coro argentino; DUCE.
Mentre una folla di passanti sosta commossa, più che incuriosita, e riverente si scopre il capo” e si ferma finché non vede di bambini rientrare in colonia “marzialmente cantando Giovinezza”.
Le parole più altisonanti le troviamo nella esaltazione della figura di Benito Mussolini: “Finita la funzione religiosa, di ritorno [dalla chiesa] in colonia, i nostri bambini, dal canto sacro all’inno Giovinezza, passano tra due fitte ali di popolo, suscitando un delirio di entusiasmo per Colui che con tanto interesse e amore attende alla sanità della stirpe… il cui nome resta scolpito nel cuore di tutti…”.
GLI ABUSI
Non è possibile scrivere tutto per motivi di spazio, ma si apprende dalle relazioni archiviate che non mancavano gli abusi.
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