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Approfondimenti

A Salve l’Hotel dei migranti

Il nostro reportage in una delle sedi nelle quali l’associazione Arci realizza il progetto di prima accoglienza per gli immigrati richiedenti asilo politico

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I ragazzi hanno appena terminato di studiare. Mi vedono arrivare, mi stringono la mano e sorridono. Sorridono sempre, è il loro modo per comunicare, per dirti che sono contenti di essere qui.


Gli operatori dell'ARCI Rino, Michele e Agnese con alcuni degli ospiti dell'Arca Hotel

Gli operatori dell’ARCI Rino, Michele e Agnese con alcuni degli ospiti dell’Arca Hotel


Michele Contaldi, tre lauree magistrali, uno dei tre operatori dell’Arci, l’associazione che gestisce il progetto, parla con loro: “Non è un avvocato! State tranquilli! Interview is not for Commission but for the newspaper! Ti hanno scambiato per l’avvocato”, mi dice, “sono tutti richiedenti asilo politico e sono in attesa che la Commissione territoriale riconosca loro lo status di rifugiato. I tempi di attesa tuttavia superano di gran lunga quelli previsti dalla legge, prolungando così l’emergenza”.

Arriva un ragazzo nigeriano che s’era perso il discorso e baldanzoso, dritto dritto, fa quello che avevano fatto gli altri: mi dà la mano e mi saluta. E tutti a ridere. Un suo amico in italiano lo richiama: “Ehi! Muntari, che fai? Vieni qui!” Lo chiamano come il giocatore del Milan. In effetti sembra il fratello minore.


L’accoglienza e l’integrazione


L’Arca Hotel di Salve è una delle sedi nelle quali l’associazione Arci realizza il progetto di prima accoglienza per gli immigrati richiedenti asilo politico in attesa di essere trasferiti nei CARA. Il progetto è stato assegnato con bando dalla Prefettura di Lecce. “I ragazzi arrivano qui accompagnati dalla polizia, non hanno nulla se non un documento con i loro dati”, ci racconta Agnese Riso, anche lei operatrice Arci con una laurea in sociologia. Continua: “Noi ci occupiamo di tutto: dai vestiti alle prime necessità, li fotosegnaliamo se non è stato già fatto. La priorità è l’assistenza sanitaria: le cure ospedaliere per i cittadini irregolari privi di risorse economiche viene assicurata tramite il rilascio di un tesserino STP (Stranieri Temporaneamente Presenti). Poi richiediamo anche la tessera sanitaria. Inizia così la loro permanenza nel centro. Molti di loro ci restano per mesi. Vogliamo che si integrino con il territorio che li ospita. Ogni mattina io e Michele facciamo lezioni di italiano presso la sala conferenze che l’Amministrazione comunale ci ha messo a disposizione. Imparare la lingua è il primo passo per l’integrazione. E’ importante per loro uscire, lasciare l’albergo per andare a scuola. Lo fanno volentieri e si aiutano tra di loro e devo dire che danno una grossa mano anche a noi!”.


Il calcio, il vero motore


I ragazzi nel pomeriggio si allenano con gli Amatori Calcio di Marciano e Patù. “Lo sport è una grande opportunità”, dice Rino Letizia, il terzo operatore Arci, uno che lì dentro, se non ci fosse, lo si dovrebbe inventare. Comunica con i ragazzi come se parlasse ad un suo amico, con amore e gentilezza ma anche con decisione: “Andate a studiare che di questo passo l’italiano non lo imparate!”. Loro sorridono e prendono il quaderno tra le mani. Una sana dose di praticità e realtà che rende sincero il rapporto. “Giocare a calcio è un modo per stare insieme agli altri: e sono pure bravi!”, continua Rino. Poi si ferma un attimo e guarda Muddasar, un ragazzo Pakistano: “Insomma… mica tutti. Lui non è proprio un campione” e giù una risata. Ride pure Muddasar. “Ma è bravissimo a costruire i muri in pietra. Il migliore. I ragazzi hanno fatto un corso di formazione professionale per diventare esperti in costruzione di muretti a secco ed hanno rifatto i muri di alcune strade di Salve”. Michele ci tiene a sottolineare che “vengono da tutto il mondo, hanno diverse usanze, culture, religioni e idee, ma si aiutano tra di loro come fratelli, mettono a disposizione il loro tempo per gli altri. Di recente ci sono stati dei nuovi arrivi. Tutti hanno dato una mano, senza risparmiarsi”.


I costi dell’accoglienza


I rifugiati costano allo Stato 30 euro più Iva al giorno. A fronte di tale corrispettivo giornaliero all’immigrato si devono garantire il servizio di assistenza alla persona e di mediazione culturale, la fornitura di beni, servizi di gestione amministrativa, assistenza sanitaria, pulizia e igiene ambientale, l’erogazione dei pasti, e un pocket money di 2,50 euro.

“Questo è un aspetto importante”, insiste Agnese, “qualcuno crede che ai ragazzi vengano dati trenta euro al giorno. Non è così: hanno a disposizione 2,50 euro per le piccole necessità. È’ bene che si sappia. Se hanno avuto un diniego dalla Commissione la polizia fornisce loro un permesso di lavoro temporaneo e possono dunque lavorare. Lavorare sarebbe il massimo per completare il processo di integrazione”.

“Si parla tanto dei costi dei centri di accoglienza”, dice Anna Caputo presidente provinciale dell’associazione Arci, “ma il problema è legato ai tempi di permanenza dei richiedenti asilo politico che restano nel centro tanto, troppo tempo, in attesa della sentenza delle Commissione che, per problemi burocratici, tarda ad arrivare: sei, otto mesi, anche un anno. Per ridurre la spesa basterebbe accorciare i tempi dell’iter. Lo Stato investe su questi ragazzi, insegna loro la lingua, li accoglie, fa di tutto per integrarli e poi? Poi lo status di rifugiato per la maggior parte di loro resta un sogno perché non ci sono i presupposti. Sicuramente porteranno con loro quello che hanno imparato ma non c’è alcun ritorno dell’investimento fatto. Riducendo i tempi si ridurrebbero i costi e tutto il processo avrebbe un significato”.


E la notte tutto ritorna…


“Queste persone lasciano una terra che non gli appartiene più”, racconta Roberta Micali, la psicologa che segue i ragazzi, “cercando di integrarsi in un’altra, che spesso non hanno scelto, definita da una lingua, norme culturali, abitudini e degli stili di vita spesso completamente diversi dalle proprie, nella quale, non vi è calore ma spesso lunghi periodi di “inesistenza”, discriminazione, emarginazione e giudizio costante. Gli orrori vissuti, sono tenuti faticosamente a bada di giorno, mentre, di notte, si ripresentano con forza raddoppiata. Nella solitudine della veglia, le urla, il rumore delle bombe, riecheggiano nelle loro orecchie, nei sogni terrifici e negli incubi. Il calore e l’accoglienza della popolazione ospitante potrebbe costituire un fattore di protezione da ulteriori stress per la loro salute psichica”. Ed il territorio? “E’ da qualche anno che l’hotel ospita immigrati”, spiega il sindaco di Salve, Vincenzo Passaseo, “L’Amministrazione è vicina a questi ragazzi cercando di soddisfare le eventuali richieste e mettendo a disposizione le proprie strutture, come la sala conferenze per le lezioni ed il campo sportivo. Siamo a disposizione per ogni tipo di necessità”.

Sono ragazzi giovani, senza famiglia, senza nulla, con tanta nostalgia ed una dignità immensa. Oggi vorrebbero restare, domani andare e poi tornare. Lavorare, più semplicemente vivere. Prendere il treno ed andare via, chissà dove. Forse a casa. Ma non possono. Sono profughi di guerra o persone in cerca di una vita migliore. E che differenza c’è? Nessuna. Credo proprio che la cosa sia del tutto indifferente. Del tutto indifferente.


Muddasar: “In Pakistan mi hanno portato via la terra con la forza”


MUDDASARMuddasar ha 26 anni e viene dal Pakistan. È arrivato in Italia nel febbraio del 2014 ed è il più “anziano” del centro. La commissione ha già rigettato la sua domanda di asilo ed ora spera nel ricorso con l’aiuto di un avvocato. “Sono scappato dal Pakistan ed era l’ultima cosa che avrei voluto fare. Mio padre ha lavorato in Germania per molti anni ma nel 2000 è venuta a mancare mia madre e così è ritornato a casa. Siamo stati perseguitati da chi ha voluto in tutti i modi portarci via la nostra terra. In Pakistan la corruzione è ovunque, sopratutto negli organi che dovrebbero essere preposti a proteggerci e a tutelarci. La mia colpa? Non voler cedere ai ricatti. Ci hanno costretto con la forza, con aggressioni, a privarci di quello che avevamo. Mio padre mi ha detto di andare via e di ritrovare la mia libertà. Sono partito ormai da 8 anni. Ho passato 6 mesi in Turchia e sette anni in Grecia dove ho lavorato come cuoco in un ristorante. Lì un avvocato mi ha chiesto tremila euro per aiutarmi ad avere l’asilo politico, ma non mi hanno dato nulla. Non era più possibile stare in Grecia anche perchè i militanti di destra più volte mi hanno aggredito. Allora per duemila euro ho fatto la traversata in barca a vela dalla Grecia qui in Italia. Sto bene a Salve con gli altri ragazzi. Mi piacerebbe lavorare in un ristorante”.


Charles: “Sono cristiano e in Nigeria… Il mio sogno? Peace!”


CHARLESCharles viene dalla Nigeria ed ha 25 anni. E’ in hotel dallo scorso giugno. Parla solo inglese, Michele ed Agnese mi danno una mano.

Sembra il più smaliziato dei tre, con un sorriso contagioso. Ha un braccio rotto e lo mostra soddisfatto: “E’ successo giocando a calcio. Mi alleno a Patù con gli Amatori Calcio”. “È bravino!”, scherza Michele, “forse lo tesserano per il campionato”. E lui: “Forza Lazio!”. Ed io: “Perché la Lazio?” Ride: “Ci gioca Onazi, nigeriano come me!”.

Quello che ci racconta è difficile da credere. Il sorriso non c’è più: “Ho attraversato il Niger ed il Mali fino ad arrivare in Libia, a piedi ed in autobus. Economicamente in Nigeria non stavo male: studiavo e lavoravo come commesso in un super market. Ma appartengo ad una famiglia cristiana e da noi la maggioranza sono musulmani. Persecuzioni religiose e scontri politici mi hanno costretto ad andare via dal mio Paese, dove la guerra non è mai finita ed è sempre lì, in agguato”.

Non dice altro, resta in silenzio. E prima che gli potessimo chiedere altro cambia discorso: “Lo sapete che suono le percussioni ed il basso. Mi piacerebbe suonare ancora!”. “Allora mettiamo su una band con gli altri ragazzi!”, lo stuzzica Agnese. E lui a ridere ancora senza nascondere un po’ di imbarazzo. E quando gli chiedo qual è il suo sogno non esita un secondo: “Peace!” E non c’è bisogno di interprete…


Shobhan: “Nel mio Paese ero al primo anno di Medicina”


SHOBHANShobhan viene dal Bangladesh, ha 22 anni ed è a Salve da agosto. E’ il più piccolo dei tre, lo si vede. Timido e silenzioso. Si accarezza la barba, mi dice che è fiero di portarla. Gli chiedo di che fede è. È musulmano.  “Ma non studio il corano”, si affretta a precisare, “ho la barba come un Imam ma non lo sono. Studiavo medicina, ero al primo anno. Nel mio Paese ho cinque sorelle e quattro fratelli, mia madre è morta. È difficile pensare a loro così lontani. Io sono giovane e cerco di guardare avanti. Vorrei restare qui in Italia e lavorare. Poi anche riprendere i miei studi ma per ora spero che mi ascoltino e che io possa rimanere in Italia”.


I rifugiati in Italia


mappa delle migrazioniLa definizione di rifugiato è contenuta nella Convenzione di Ginevra, firmata da 147 Stati nel 1951, che descrive come rifugiato colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”. Il rifugiato è una persona costretta a chiedere protezione in un Paese straniero, perchè abbandonare il proprio Paese è l’unico modo in cui può salvare la propria vita o libertà. Il diritto di asilo e di chiedere protezione è garantito anche dall’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. In Italia vivono 58mila rifugiati: un numero contenuto rispetto ad altri Paesi dell’Ue, basti pensare ai 571.000 rifugiati che vivono in Germania o ai 193.500 del Regno Unito (fonte UNHCR).


I centri per l’immigrazione


(Fonte Ministero dell’Interno)


Le strutture che accolgono e assistono gli immigrati irregolari sono distinguibili in tre tipologie.


Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA)

Sono strutture allestite nei luoghi di maggiore sbarco, dove gli stranieri vengono accolti e ricevono le prime cure mediche, vengono fotosegnalati, viene accertata l’eventuale intenzione di richiedere protezione internazionale e vengono smistati verso altri centri.

Centri di accoglienza (CDA)

Sono strutture destinate a garantire una prima accoglienza allo straniero irregolare. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l’identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l’allontanamento.

Centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA)

Sono strutture nelle quali viene inviato e ospitato lo straniero richiedente asilo privo di documenti di riconoscimento o che si è sottratto al controllo di frontiera, per consentire l’identificazione o la definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.

Centri di identificazione ed espulsione (CIE)

Tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari. Il Decreto-Legge n. 89 del 23 giugno 2011, convertito in legge n. 129/2011, ha fissato il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri a 18 mesi complessivi.


Approfondimenti

Illuminare balconi e terrazzi: idee d’effetto anche per chi non ha il giardino

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Luci Natalizie

L’illuminazione esterna durante il periodo delle festività rappresenta un gesto di condivisione della gioia e un modo per estendere il calore domestico oltre le mura dell’abitazione. Spesso si crede che la creazione di allestimenti luminosi d’impatto sia un privilegio riservato a chi possiede ampi giardini, ma balconi e terrazzi, anche se di piccole dimensioni, offrono opportunità creative straordinarie. Con un’attenta pianificazione e l’utilizzo di soluzioni adatte, è possibile trasformare questi spazi in veri e propri palcoscenici luminosi. L’impiego strategico delle lucine di Natale è fondamentale per infondere magia e visibilità anche negli angoli più ristretti.

La sicurezza e la scelta dei materiali

Prima di procedere con qualsiasi allestimento luminoso esterno, è imperativo considerare gli aspetti legati alla sicurezza e alla durabilità. L’uso di prodotti certificati e specificamente contrassegnati per l’uso in esterni (con grado di protezione IP adeguato, generalmente IP44 o superiore) è essenziale per resistere all’umidità, alla pioggia e alle variazioni termiche. È altresì prudente optare per soluzioni a basso consumo energetico, come le luci LED, che non solo garantiscono una lunga vita operativa ma riducono anche l’impatto sulla bolletta elettrica. La scelta di alimentatori e prolunghe anch’essi resistenti alle intemperie assicura che l’installazione sia stabile e priva di rischi.

L’arte di definire i contorni

L’illuminazione efficace di un balcone o di un terrazzo si basa sulla capacità di definire e valorizzare i contorni dello spazio disponibile. Invece di installare le luci in modo casuale, è opportuno concentrarle lungo le ringhiere, le cornici delle finestre o i bordi del pavimento. Le catene luminose disposte orizzontalmente lungo la ringhiera creano un effetto visivo ordinato e accogliente, che demarca elegantemente lo spazio. Per un effetto più sontuoso e stratificato, si possono utilizzare le stalattiti luminose o le tende di luci, facendole scendere verticalmente dalla parte superiore del balcone. Queste soluzioni offrono una densità luminosa immediata e trasformano la facciata dell’edificio in una vera e propria tela festiva.

Sfruttare la verticalità e gli elementi esistenti

Nei piccoli terrazzi, la verticalità è la chiave per massimizzare l’impatto senza sacrificare lo spazio calpestabile. È possibile decorare le pareti esterne, se consentito dal regolamento condominiale, con reti luminose che simulano un effetto di cielo stellato o con motivi sagomati a tema festivo. I vasi e le fioriere esistenti possono diventare parte integrante dell’allestimento: luci a batteria possono essere posizionate all’interno dei vasi o avvolte attorno alle piante sempreverdi. L’utilizzo di rami luminosi inseriti in fioriere decorative offre un’alternativa sofisticata all’albero tradizionale, creando punti luce alti e sottili che non occupano spazio in larghezza.

L’uso di elementi decorativi a pavimento

Anche se lo spazio è limitato, è possibile introdurre elementi luminosi a pavimento che aggiungano profondità e magia. Le lanterne da esterno, alimentate a batteria o con candele a LED, possono essere posizionate negli angoli o vicino alla porta d’ingresso. Queste lanterne offrono una luce calda e diffusa che evoca un senso di intimità e accoglienza. Un’altra idea d’effetto è l’utilizzo di proiettori laser o LED a tema festivo, che proiettano fiocchi di neve o figure natalizie direttamente sulla parete esterna dell’edificio. Questa soluzione crea un grande impatto visivo con un ingombro fisico minimo.

Colore e temperatura: la scelta del tono emotivo

La temperatura del colore delle luci natalizie ha un’influenza decisiva sul tono emotivo dell’allestimento. Le luci bianco caldo, che tendono al giallo, sono preferite per creare un’atmosfera tradizionale, accogliente e rassicurante, che ricorda il tepore dei focolari. Al contrario, le luci bianco freddo o quelle blu e viola creano un effetto più moderno, glaciale ed elegante. Per un risultato armonioso, è generalmente consigliato non mescolare troppe temperature di colore diverse nello stesso spazio. La coerenza cromatica è essenziale per evitare un effetto caotico e per rafforzare la sensazione di ordine e cura nell’allestimento.

Soluzioni pratiche per l’alimentazione

Nei balconi dove le prese elettriche esterne sono insufficienti o assenti, le soluzioni a batteria o a energia solare sono una risorsa preziosa. Le catene luminose a batteria, spesso dotate di timer incorporato, consentono di programmare l’accensione e lo spegnimento, ottimizzando il consumo e liberando l’utente dall’onere di collegare o scollegare le luci ogni sera. I pannelli solari, sebbene meno performanti nelle brevi giornate invernali, sono ideali per i punti esposti al sole, offrendo una soluzione ecologica e totalmente autonoma dal punto di vista energetico. L’attenzione alla praticità operativa è fondamentale per assicurare che l’allestimento luminoso sia fonte di gioia e non di stress gestionale.

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Approfondimenti

Marina, 36 anni, per Sant’Egidio a Bangui, Centroafrica: “Vicina agli ultimi della terra”

“A 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro, ma poi…

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L’INTERVISTA ESCLUSIVA

di Luigi Zito

A quale scintilla primitiva si affida l’animo umano quando la fiamma d’amore si accende, si sviluppa, si infiamma e riluce sino a risplendere luminosamente?
E qual è la moneta che ripaga la gratificazione che plasma il nostro cuore, che lo trasforma da cima a fondo, e che lo muove a donarsi agli altri?

Non credo sia solo una mia curiosità, è un affanno che accompagna la vita, che frequentemente ci pone davanti a simili dilemmi. È un tarlo capire cosa muove il sole e le stelle: cosa spinge una giovane donna a lasciare la zona comfort della sua vita per aprirsi al mondo, donarsi e aiutare chi è in difficoltà ed ha più bisogno?
Ancor più se, per farsi piccola per diventare grande, ha scelto di farlo a migliaia e migliaia di chilometri da casa.

È il caso di Marina Ciardo, 36 anni, di Tricase, che da anni vive a Bangui, Repubblica Centroafricana ed è Capo Progetto per l’Associazione Sant’Egidio.

Marina, di buon grado, ha amabilmente risposto a mie precise sollecitazioni.

«VOLEVO CAMBIARE IL MONDO»

«“Cosa vuoi fare dopo la scuola?”. Questa era la fatidica domanda che parenti, amici e insegnati mi ripetevano verso la fine del quinto anno delle superiori. Forse il lavoro che svolgo oggi è proprio la risposta a quella domanda che allora mi trovava impreparata. Non ci avevo mai pensato prima, ma su una cosa ero certa: volevo viaggiare, conoscere nuove culture e usanze diverse dalla mia, cercare di capire quello che, probabilmente, mi è ancora inspiegabile, divertirmi e, soprattutto, provare a cambiare il mondo! Si perché a 17/18 anni si vuole cambiare il mondo e pensi sia possibile! Così, sfogliando una guida delle facoltà universitarie, ho scoperto il corso di laurea in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale a Parma.

E allora mi sono detta: “Ma si, dai! proviamoci”, d’altronde potrebbe unire due strade: quella dell’economia, già intrapresa alle superiori (e che tanti dei miei affetti mi spingevano a proseguire, perché così trovi subito lavoro), e quella della cooperazione internazionale, un mondo inesplorato ma affascinante».

«LA MIA AFRICA»

Come sei arrivata in Africa, a Bangui?

«Non faccio altro che ripetermi, se oggi sono qui, in Africa, é anche grazie al mio professore di Storia ed economia dei Paesi in via di sviluppo, che ci ha sempre spronato a fare un’esperienza nel campo della cooperazione, precisando anche che il lavoro del cooperante non è per tutti: o lo ami o lo subisci. Concludendo poi con un’amara postilla: “Molti dei miei studenti sono giunti alla laurea magistrale ma, di fatto, non hanno mai intrapreso quella strada”.

Incoraggiata e sostenuta dalla mia famiglia, durante l’estate del secondo anno universitario ho deciso di fare una esperienza diretta, sono entrata in contatto con l’Ong Coope – Cooperazione Paesi Emergenti -, e ho vissuto un mese straordinario in un piccolo villaggio a sud della Tanzania, Msindo.

Allora, ho realizzato chiaramente: «Questo è ciò che voglio fare! Conoscere una realtà così diversa dalla mia, vedere la gioia delle persone che, nonostante la consapevolezza delle difficoltà giornaliere, continuano a lottare, sorridendo, con impegno, voglia di farcela, aggrappati alla vita come mai avevo visto fare prima. Dando una mano, facendo piccole cose, ho vissuto momenti e emozioni che stravolgono. Questo mi ha fatto sentire utile. A volte è bastato anche solo aver aggiustato una staccionata in una scuola».

Finita quell’esperienza, cosa è successo?

«Sono rientrata in Italia e ho assaporato per la prima volta il mal d’Africa di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare. Così ho continuato il percorso universitario prima a Parma e poi a Torino. Una volta specializzata in Economia dello sviluppo e cooperazione internazionale, ho assolto il servizio civile in Madagascar, poi il primo lavoro con la Ong Emergency (in repubblica Centroafricana e nel Kurdistan iracheno), successivamente con il Cuamm (Medici con l’Africa) nel Sud Sudan e, infine, da quasi 6 anni, nuovamente nella repubblica Centroafricana con la Comunità di Sant’Egidio».

Come opera la comunità di Sant’Egidio?

«Principalmente in due settori: il primo riguarda la salute, attraverso il programma Dream: cura le malattie croniche come l’epilessia, il diabete, l’ipertensione, l’HIV, l’asma e malattie renali leggere; il secondo è rappresentato dal programma Pace e Riconciliazione che, in modo costante e discreto promuove la pace.

È ben noto il ruolo di mediatore della Comunità di Sant’Egidio tra le parti in conflitto in RCA. La firma dell’Accordo Politico per la Pace, il 19 giugno 2017 a Roma, tra il governo centrafricano e 13 gruppi politico-militari è stato un momento cruciale nella storia del Paese. Questo accordo ha avviato, di fatto, il processo di dialogo e disarmo, che ha avuto un secondo e altrettanto importante momento con la firma degli Accordi di Khartoum nel febbraio 2019».

Qual è il tasso di povertà dove ti trovi? Di cosa c’è più bisogno? La situazione politico-economica, carestie? Guerre?

«Situata nel cuore dell’Africa, la Repubblica Centroafricana (RCA) è, dopo la Somalia e il Sud Sudan, è il paese più povero al mondo.
Nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano è 191° su 193 paesi presi in esame; il 60%, dei circa sei milioni di abitanti, vive con meno di un dollaro al giorno.
Si registra, purtroppo, uno tra i più alti tassi di mortalità materno-infantile e la popolazione ha in media un’aspettativa di vita piuttosto bassa (intorno ai 54 anni). Nonostante la posizione strategica e le risorse naturali presenti sul territorio, il Paese affronta da decenni una profonda instabilità politica che ha minato lo sviluppo economico e sociale.

Sono innumerevoli i colpi di Stato, le rivolte e i conflitti armati. Negli ultimi anni il Governo centrale ha avuto un controllo limitato sul territorio, soprattutto nelle regioni settentrionali e orientali, dove sono presenti gruppi ribelli e milizie locali. Non mancano le interferenze straniere che si manifestano con la presenza di milizie mercenarie, protagoniste talvolta discontri armati e violazioni dei diritti umani.

È un Paese che vive principalmente grazie ad agricoltura, estrazione di diamanti e oro e industria del legname. La crescita economica è ostacolata da mancanza di infrastrutture, insicurezza e instabilità politica. Questi elementi, combinati con una povertà estrema e la carenza di servizi essenziali, hanno generato una grave crisi umanitaria. Le donne e i bambini i più vulnerabili, esposti come sono a violenze, malnutrizione e mancanza di istruzione. Sono cresciuta molto con ogni organizzazione, sia a livello personale che professionale, ma la lunga permanenza a Bangui, mi ha permesso di contribuire alla formazione dei giovani locali, che desiderano migliorare la situazione del loro Paese».

IMPOTENZA E DOLORE

«Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata»

Ci racconti un aneddoto, un avvenimento, che ti ha toccata particolarmente?

«Sono stati anni impegnativi, difficili, che hanno permesso la nascita di amicizie profonde, anche con pazienti per me speciali, che oggi non ci sono più. Il senso di impotenza e il dolore per la loro perdita ti svuota, ti consuma, ti fa credere di non poter andare avanti. Il confronto con quanto è fuori dal tuo controllo ti fa sentire inadeguata. Forse è proprio questa la sfida ma credo che tutto questo mi stia forgiando. Essere testimone, lottare, nel bene e nel male, provoca una forza mista a rabbia che spinge ogni giorno a dare il meglio, anche se a volte non è abbastanza.

A Bangui sono arrivata nel gennaio del 2020, con la prospettiva di starci un anno o poco più, invece, a quasi 6 anni dal mio arrivo, mi ritrovo qui a scrivere questa mia storia e, forse, tracciare anche un bilancio.

Quando parlo con i nuovi colleghi (qui c’è un turnover molto intenso, la permanenza media è da 6 mesi a un paio d’anni), inevitabile che chiedano: “Da quanto tempo sei qui?”. E alla mia risposta, “Quasi 6 anni”, mi incalzano: “Perché?!”.
Non so spiegarlo in poche parole: conservo un “album di emozioni” e da brava amministratrice ho difficoltà a tradurlo in parole. Il fantastico team dell’associazione é un ingrediente fondamentale per questa ricetta di resistenza/resilienza».

TRA MALATTIE E COPRIFUOCO

Covid e altre malattie, come le affrontate?

«Nel 2020 abbiamo trascorso il periodo del covid e il mio primo periodo con questa nuova realtà lavorativa. Non abbiamo sofferto come in Italia, le restrizioni erano blande, c’era solo la paura di essere contagiati e stare male, e allora sì che sarebbe stato un problema, vista l’assenza di ospedali specializzati.
Il 2021 c’è stato un tentativo di colpo di Stato, Bangui era stata dichiarata “Ville mort” (città morta), una città “ibernata” per un paio di settimane e sotto coprifuoco (se ti trovavano per strada non chiedevano un documento o ti facevano una multa, rischiavi di essere ammazzata), che lasciava pochissimo spazio per lo svago, gli amici, per lamentarsi del caldo, delle zanzare, della mancanza d’acqua e degli sbalzi di elettricità che rischiavano di bruciare quello che lasciavi innescato alla presa della corrente».

Ci descrivi una tua giornata tipo?

«Ci si sveglia prendendo il caffè (rigorosamente Quarta!), cercando di mettere in ordine le priorità della giornata, con la consapevolezza che, nel momento in cui metterai piede in ufficio, verrai assalita da mille imprevisti: problemi con le banche, con le macchine, lentezze inesorabili dei Ministeri e cose che si rompono: qui molte cose si rompono con una velocità incredibile.

Seguo principalmente due progetti: il Programma Dream (gestiamo una clinica e un padiglione di ospedale e curiamo circa 3mila pazienti cronici e una media di 100 nuove donne incinte al mese che accompagniamo nel percorso prenatale. Tutti i servizi sanitari sono a pagamento, mentre il nostro programma prevede gratuità e presa in carico in modo olistico del paziente).

E poi abbiamo avviato, da 3 anni, delle campagne di vaccinazione porta a porta per i bambini da 0 a 2 anni.
Per il progetto “mediazione di pace”, mi limito a seguire l’ufficio per evitare problemi di carattere amministrativo e logistico».

“Basta! Mollo tutto e torno in Italia!”, l’hai mai pensato?

«Mi succede spesso, anche più volte nello stesso giorno.
Ci sono periodi in cui mi abbatto e non sopporto il peso della missione, in cui riesco a vedere e sottolineare solo i problemi, i ritardi, le frustrazioni, che raramente mancano durante una giornata di lavoro.
Mi hanno molto aiutato e sostenuto le amicizie qui a Bangui.

Avere delle persone che in un quadro nero intravedono un punto bianco e riescono a fartelo vedere e apprezzare, non è scontato.
È questa la forza che mi è stata trasmessa giorno per giorno, che mi aiuta a inquadrare l’amore per questa professione, mi fa andare avanti e ammirare questo quadro caravaggesco: sebbene prevalgano le ombre, la presenza di luce, minima ma potente (carica di quanto si è realizzato), è dominante».

COSA FARAI DA GRANDE?

Hai già deciso cosa farai in futuro?

«Bisogna sempre tenere alto il morale delle truppa: nel mentre si accavallano le emozioni, il leitmotiv mi ritorna in mente, mentre mi ritrovo a scrivere questa storia, a pochi giorni dalla mia partenza, al momento definitiva, da Bangui.
Questa è la parte relativa al lavoro, ma non c’è solo questo.

A Bangui è presente anche un gruppo locale della Comunità di Sant’Egidio, giovani centroafricani che, malgrado le difficoltà, cercano di vivere lo spirito evangelico della Comunità del Santo.

Lo fanno nella gratuità e nell’amicizia, prestano servizio ai poveri, ai bambini di strada, alla scuola di pace e alla cura degli anziani soli e senza sostegno. Mi emoziona vedere che esistono dei giovani che sperano e lavorano per un futuro diverso per il loro Paese.

Dopo quasi 10 anni di lavoro non so ancora dare una risposta alla domanda che Gabriella mi pone “ogni 2 per 3”: Cosa vuoi fare da grande?! So che voglio continuare, e mi impegnerò al 100% per fare in modo di soddisfare almeno in parte quel desiderio di “cambiare le cose” in meglio. Aiutare, vedere la gente sorridere, scoprire la bellezza delle diversità, affinchè quello che ha spinto una giovane salentina ad affrontare questo mestiere, si avveri.

Ecco la mia risposta: «Non so cosa farò da grande, ma il mio lavoro mi piace e continuerò a farlo».

COME AIUTARE

Come possiamo aiutare la tua comunità?

«Con una donazione a:

COMUNITÀ DI S. EGIDIO ACAP – ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCI – IBAN: IT36Q0200805074000060045279

Causale: Programma Dream Centrafrica»

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Approfondimenti

Air Fryer: trucchi per migliorare la cottura dei cibi

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Patate al forno

Negli ultimi tempi le abitudini alimentari di tantissime famiglie sono state stravolte dall’ingresso in casa di un elettrodomestico che ha fatto grandi promesse: garantire piatti golosi come quelli fritti ma leggeri come quelli al forno. Tuttavia, padroneggiare la tecnica di una friggitrice ad aria che sfrutta un vortice di calore ad alta velocità non è immediato come sembra e i primi esperimenti possono rivelarsi non ottimali se non si conoscono le tecniche giuste.

Spesso si dà la colpa allo strumento per una panatura che si stacca o per un interno rimasto crudo, ignorando che la causa reale è una gestione sbagliata degli spazi o dell’umidità residua sugli alimenti. Imparare a bilanciare questi elementi è l’unica via per ottenere risultati paragonabili alla cucina professionale.

Come diventare esperti

Per diventare dei veri esperti nell’utilizzo della propria friggitrice ad aria vi basterà adottare pochi semplici trucchi capaci di garantire una doratura esterna impeccabile su ogni tipo di alimento. Seguendo queste indicazioni scoprirete che la air fryer è uno strumento incredibile, soprattutto se si sceglie un modello avanzato tecnologicamente, come ad esempio quelle di Moulinex, con cui potrete spaziare liberamente in cucina, realizzando ottimi contorni di verdure grigliate e persino dolci da forno complessi senza alcuna difficoltà.

Asciugare bene gli ingredienti e dosare l’olio con intelligenza

La regola d’oro per evitare l’effetto bollito è eliminare ogni traccia di acqua dagli alimenti prima della cottura. Inserendo nel cestello prodotti ancora umidi, l’evaporazione impedirà la formazione della crosta esterna, quindi è importante tamponare accuratamente carne, pesce e ortaggi con carta assorbente fino a renderli perfettamente asciutti.

Passando ai condimenti, bisogna sfatare il mito che l’olio non possa essere utilizzato se si vuole cucinare un piatto salutare: una minima quantità è infatti essenziale per attivare la doratura e proteggere il cibo dal calore secco dell’aria. Invece di versare l’olio direttamente dalla bottiglia, l’ideale è utilizzare un nebulizzatore spray per distribuire uno strato sottile e uniforme su tutta la superficie degli ingredienti. Questo piccolo trucco, oltre a evitare il fumo causato dall’olio in eccesso, aiuta anche le spezie e il sale ad aderire meglio alla superficie dell’alimento, evitando che la forza dell’aria le stacchi dal cibo appena accendete la macchina.

Non riempire troppo il cestello e adattare le temperature

Un errore molto comune dettato dalla fretta è quello di riempire il cestello fino all’orlo, sovrapponendo il cibo. La friggitrice ad aria lavora grazie al circolo veloce dell’aria e se ostruite il passaggio ammucchiando gli ingredienti, la parte centrale rimarrà cruda o fredda. Per ottenere una cottura omogenea è sempre meglio cuocere in più riprese disponendo tutto in un unico strato senza affollare troppo lo spazio.

Inoltre, avendo una camera di cottura compatta e una ventola molto potente, la macchina genera un calore molto più aggressivo rispetto agli elettrodomestici standard. Di conseguenza, le istruzioni di cottura pensate per la cucina tradizionale vanno necessariamente adattate abbassando la temperatura di circa venti gradi e riducendo il tempo di cottura del venti per cento rispetto al forno statico. Ricordate poi l’importanza di intervenire durante il processo: estrarre il cestello a metà cottura per scuotere energicamente le patatine o girare le fettine di carne è un passaggio obbligatorio per garantire che ogni lato venga esposto al calore e si colori uniformemente.

Attenzione alla carta forno e alla pulizia costante

Molti appassionati tendono a utilizzare la carta forno per evitare di sporcare, ma se non gestita bene questa abitudine può compromettere il risultato. Coprire interamente la griglia sul fondo, infatti, blocca il flusso d’aria che arriva dal basso, impedendo al cibo di cuocere correttamente nella parte inferiore. Se volete usarla, la soluzione migliore è acquistare i fogli già forati o sagomare la carta in modo intelligente, facendo attenzione a non inserirla mai durante il preriscaldamento per evitare che finisca sulla resistenza bruciandosi.

Infine, un altro aspetto che incide sul sapore dei piatti è la pulizia dello strumento. I residui di grasso e le briciole che cadono sul fondo tendono a bruciare nelle cotture successive, generando fumo e odori sgradevoli che possono alterare il gusto di cibi delicati, motivo per cui è buona norma lavare i componenti dopo ogni singolo utilizzo. Utilizzando spugne non abrasive e detergenti delicati riuscirete a proteggere il rivestimento antiaderente del cestello, evitando che i cibi si attacchino in futuro.

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