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Approfondimenti

Orologi da donna, consigli per indossarli con stile

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Orologi donna

Gli accessori costituiscono una parte importante nel look femminile perché permettono di giocare con i colori degli abiti e dei capelli, valorizzando il viso e l’intera silhouette.


Tra gli accessori più amati spicca l’orologio da polso: funzionale, femminile e stiloso, adatto a ogni occasione e perfetto con qualsiasi mise. Scopriamo insieme come abbinarlo al meglio, scegliendo il modello giusto per ogni outfit, grazie anche ai consigli degli esperti di Gioielli La Perlastorica gioielleria a Taurisano – che troverete qui di seguito.


Stile, evento e mise: ecco come scegliere l’orologio da donna più adatto


La scelta dell’orologio varia in base a diversi elementi: lo stile personale, l’outfit e l’occasione in cui indossarlo. Se si ama lo stile classico e senza tempo, ad esempio, meglio optare per gli orologi analogici con il quadrante in tinta unita e le lancette sottili. Per i colori è possibile spaziare tra l’oro e l’argento con quadrante bianco, nero o blu, per dare un tocco di eleganza in più. Ottima la scelta di un modello a tre sfere con la cassa molto sottile e un cinturino laminato o in pelle. Per quanto riguarda il quadrante, invece, suggeriamo di scegliere un colore molto chiaro impreziosito da strass o piccole pietre preziose o in madreperla, con sfumature rosa.


Se si conduce un tenore di vita dinamico, meglio optare per modelli sportivi che si adattano facilmente a qualsiasi occasione: sono perfetti per lo sport, per l’uso all’aperto e per le più comuni attività quotidiane. In questo caso, è possibile optare per un orologio impermeabile o subacqueo, con una resistenza di 5 o 10 Bar per le immersioni e un cinturino in gomma, stoffa impermeabile o in acciaio: modelli sprint per donne che non si fermano mai.


Quando si ama seguire la moda con le sue tendenze e si è sempre alla ricerca di accessori particolari, suggeriamo di scegliere orologi da donna vintage, perché sono dotati di dettagli di stile originali e colori più accesi che danno un tocco unico a chi li indossa.


Orologio e tendenze moda


Secondo i fashion stylist più famosi, la scelta dell’orologio è strettamente legata all’evento a cui si prende parte. Infatti, se per lavoro si indossano tailleur o abiti molto formali, meglio indossare accessori eleganti, acquistando un orologio raffinato color oro che sia sottile, delicato e poco vistoso.


Nel caso di outfit informali, invece, via libera ai colori e a orologi grandi e vistosi da abbinare a qualche bracciale dello stesso materiale. Come vedremo, sempre più spesso questo accessorio funge anche da gioiello per valorizzare la mise e dare luce all’intera persona.


In generale bisogna ricordare che l’orologio, molto più di bracciali, collane e orecchini, è in grado di raccontare la storia di chi lo indossa, esprimere la sua personalità e gli obiettivi che vuole perseguire. Per questo la scelta non può prescindere dal gusto personale e dallo stile ed essere coerente con la personalità, affinché chi lo usa possa sentirsi a suo agio e sfoggiarlo come un vero e proprio gioiello.

Indossare orologi da donna in modo stiloso? Ecco qualche suggerimento


Le donne, si sa, sono sempre alla ricerca dell’abbinamento perfetto, del tocco di stile che le rende uniche e perfette in qualsiasi occasione e sanno bene che anche un orologio, indossato con gli accessori giusti, può dare risalto al proprio look.


Se si amano i bracciali, ad esempio, è possibile abbinare un orologio in oro con braccialetti esclusivamente color oro. Ciononostante, se l’orologio ha un cinturino in pelle nera o marrone, è necessario assicurarsi che la borsa e le scarpe si abbinino alla tonalità del cinturino.


Un’attenzione particolare va riservata agli orologi molto grandi e appariscenti. In questo caso è preferibile lasciarlo come accessorio unico, abbinato solo a qualche anello per dargli massima attenzione, considerandolo il punto focale del look.


Se l’orologio che avete scelto ha uno stile vintage ma non è molto vistoso, osate pure abbinando bracciali di diversi colori e materiali per dare quel tocco trendy che vi rappresenta. Non dimenticate di considerare anche la statura, se si è minute è bene optare per un modello di piccole dimensioni per evitare di appesantire il polso. Se, invece, si è alte e di grossa statura, è bene scegliere un orologio più grande, scintillante e vistoso.


Attenzione a come si indossa l’orologio


Come accade per gli abiti, le scarpe e gli altri accessori, anche l’orologio ha regole precise che vanno osservate quando si decide di indossarlo. Si ricordi che deve avere le giuste dimensioni ed essere regolato adeguatamente sul polso di chi lo porta. Meglio evitare cinturini troppo larghi che non sono eleganti, ma neanche troppo stretti, perché in questo caso lascerebbe fastidiosi segni sulla pelle.


Un importante suggerimento è quello di posizionarlo dietro l’osso più sporgente del polso perché in questa zona sprigiona tutto il suo charme, facendolo scorgere da sotto la camicia o dai maglioni.


Infine, è fondamentale la scelta del cinturino, che può essere in acciaio, cuoio, pelle, plastica o, infine, in oro. Questa parte dell’orologio rappresenta un vero e proprio biglietto da visita perché è la prima parte che si nota dell’accessorio, ancor prima del quadrante.


Approfondimenti

Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini

 A Marittima: qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese

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In una recente e differente narrazione, traendo spunto dal casuale incontro con due turisti/ospiti provenienti da S. Francisco, USA, mi soffermavo diffusamente su Marittima e più esattamente sul Rione dell’Ariacorte, dove sono nato e, fra l’altro, annotavo: «Attualmente, con il mio paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti d’intimità e consuetudine viscerale a trecentosessanta gradi, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza».
Non v’è, invero, contraddizione fra l’anzidetta puntualizzazione e quanto sto per raccontare qui. Semmai, la cronaca freschissima che segue, può considerarsi un’eccezione rispetto al ricordato e consolidato stato d’interazione, in termini complessivi, fra me e la località natia.

Qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese, Costantino C., il quale vanta e si porta appresso, con disinvoltura, ben novantotto primavere già valicate, per di più guidando ancora, quando occorre, o un’autovettura o un motofurgone “Ape”.

Conosco la citata persona, è proprio il caso di dirlo, da quando sono nato e, lui, giovanottino, abitava, insieme con la sorella Maria, presso la nonna Costantina – i loro genitori erano mancati prematuramente – nell’Ariacorte, a cinquanta metri di distanza da casa mia.

Insomma, a Costantino C., mi lega un’intensa familiarità, sono edotto di tutte le vicende della sua esistenza, da alcuni lustri, in particolare, ho modo di incontrarlo sovente, giacché possiede un giardino, con annesso fabbricato (da poco, l’ha donato ad alcuni nipoti che vi stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione), situato proprio dirimpetto alla mia villetta della “Pasturizza”.

Arrestata d’istinto la marcia del ciclomotore, mi sono avvicinato e seduto accanto, chiedendogli, come approccio, notizie circa lo stato dei lavori edili.
Pochi minuti dopo, si è accostato a noi un altro compaesano, Santo C., appena più giovane di Costantino, e i due, all’unisono, come del resto mi aspettavo, sono immediatamente passati a rievocare un episodio assai lontano, sia come datazione, sia come luogo di svolgimento, evidentemente, però, rimasto indicativo e impresso nella mente, fatto in cui, insieme con loro, io stesso mi ero, in certo qual modo, trovato coinvolto.
Sarà stato il 1963 o il 1964 e lavoravo in banca, a Taranto, da tre anni circa, svolgendo le mansioni di segretario, oggi si dice assistente, di un vicedirettore settorista, il quale, per chiarire, gestiva un determinato portafoglio di clienti.

Insieme con il citato funzionario, compivo spesso visite agli utenti, sia per mera cortesia, sia e soprattutto per ricognizioni dirette sulle loro aziende e le loro attività.
Un giorno c’eravamo portati a domicilio di un operatore agricolo (grosso proprietario di terreni e produttore di vino e olio) di Francavilla Fontana, da molto tempo cliente affidato, vuoi con linee di credito a carattere ordinario e continuativo, vuoi sotto forma di anticipazioni su giacenze di vino e olio, nelle more della loro vendita.

Guarda caso, io non ne ero minimamente a conoscenza, nell’azienda dell’operatore in discorso, da parecchi anni, prestavano attività, sia pure stagionalmente, Costantino e Santo, unitamente ad altri due marittimesi, Peppino e Vitale.

Tutti i già menzionati, quindi, persone di massima fiducia dell’imprenditore francavillese, di casa, alla stregua di famigliari.

Orbene, il mio superiore si era determinato a recarsi nell’azienda di tale cliente, diciamo così, per accertarsi che esistessero effettivamente le giacenze di prodotto su cui era stato da poco concesso un finanziamento e, quindi, si era premurato di dare anche una sommaria occhiata alle relative cisterne.

Sennonché, giusto lì, come ebbero a confidarmi in seguito i miei concittadini, aggiungendo qualche abbozzo d’ilarità, si nascondeva un trucchetto, alquanto rudimentale e, tuttavia, valido a far apparire qualcosa che, in realtà, non esisteva.

E, però, anch’io, dall’altra parte, cioè dall’interno della banca, avevo avuto modo di accorgermi che gli amici marittimesi, o, meglio, le loro firme, erano talora “utilizzati” dal datore di lavoro, per agevolare alcune sue operazioni di finanziamento da parte della banca.
Certo, stagioni non solo antiche ma, specialmente, dai contenuti totalmente diversi, allora la fiducia e la parola erano una cosa seria, nel lecito e anche ai limiti della norma o borderline per stare al linguaggio presente: così abbiamo, l’altro giorno, commentato concordemente, sulla panchina della piazza di Marittima, Costantino, Santo ed io.

Di lì a poco, è arrivato ad aggregarsi alla comitiva un ennesimo “ariacortese”, Costantino N. e, quasi contemporaneamente, Uccio N., geometra in pensione e, fuor d’ogni dubbio, compaesano d.o.c., non essendosi mai allontanato, durante i suoi ottantun anni, dalla natia Marittima. A questo punto, a beneficio di quanti non fossero a conoscenza, mi soffermo su un breve inciso: fra i nomi maggiormente diffusi nella località, ricorrono quelli di Vitale e Costantino o Costantina, a motivo che, collegando i comuni mortali ai santi, S. Vitale, cavaliere nell’esercito romano ai tempi di Nerone, nato a Milano e martirizzato a Ravenna, è il protettore di Marittima, mentre, a compatrona, è stata da vecchia data proclamata la Vergine Maria Santissima di Costantinopoli o Madonna Odegitria.

Costantino, come ho avuto modo di accennare anche in precedenza, faceva parte, penultimo nato, di una famiglia numerosa, ma soprattutto antesignana e allargata, per vicende naturali, in senso laterale o di discendenza.

Difatti, la padrona di casa, in altre parole sua madre, Rosaria, proveniente da Andrano, reduce dal primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe), reduce, anche lui, da una precedente unione, già padre di tre figli e, parimenti, rimasto vedovo anzitempo.

Rosaria e Giuseppe, novella coppia, procrearono ulteriori quattro figli, Pompilio, Vitale, Costantino e Concetta.

Sì che, a un certo momento, venne a formarsi un nucleo o f0c0lare di undici persone, fra i due coniugi e i nove discendenti arrivati dall’accoppiata di letti.

Molti i ricordi e le annotazioni snocciolati, approfittando della presenza di Costantino, riguardo ai membri della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.

Alla fine degli anni Trenta o agli inizi del decennio successivo, la scomparsa di Giuseppe, a causa di una rovinosa caduta mentre era intento a fissare, a un gancio del soffitto, un chiuppu (una sorta di grosso casco, facendo riferimento alle banane) di tabacco già essiccato.
Nel 1945, il matrimonio di Pippina nel canonico abito bianco, di cui, lo scrivente, serba perfettamente il ricordo.

Nel 1947, esattamente il 22 gennaio, le nozze di Andrea (con Valeria), in un giorno in cui, Marittima, registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata.

Nel 1951, un’improvvisa e brutta traversia, fortunatamente finita bene, in capo a Vitale, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede (precisa, adesso, Costantino, che, all’epoca, lui era assente da Marittima per il servizio militare in Marina, imbarcato su un dragamine di stanza alla Spezia). Dopo, infine, seri problemi agli occhi per l’altro figlio, Pompilio, invero mai risolti.

A un dato momento, Costantino, seduto nel gruppo e rivolgendo lo sguardo a Uccio N. che gli stava accanto, ha ritenuto di richiamare i legami di parentela fra lo stesso Uccio e me (le rispettive mamme, Nina e Immacolata, erano cugine di primo grado, figlie di due sorelle, Cristina e Lucia).  Aggiungendo, inoltre, che lui medesimo, a seguito del matrimonio, si era apparentato con l’ex geometra, posto che il suocero Giuseppe P. (in vita, operatore ecologico, attacchino e necroforo del Comune di Diso), era, a sua volta, primo cugino del padre di Uccio, Pippi ‘u scanteddra o mesciu Pippi ‘u barbieri, la cui madre, Pasqualina M. detta Nina, era sorella della genitrice di Giuseppe P., Maria Donata M.

I conti degli accostamenti fra parentele o famigliarità quadrano perfettamente, a prova di dati anagrafici e/o di battesimo.

Uccio N., il quale, al momento di aggregarsi, aveva domandato, sorridendo, se, in quella circostanza, fossi io a tenere banco nel gruppo, non ha, poi, rinunciato a intervenire, dicendo la sua a proposito di una sfaccettatura straordinaria insita nel desco domestico del suo nonno paterno, Vitale N. ‘u fiore.

Intorno a quel tavolo da pranzo (parolone esagerate), occupavano posto, ha raccontato Uccio, suo nonno e sua nonna, insieme con un paio di ascendenti e i loro sei figli (cinque maschi e una femmina) e, già così, si arrivava a dieci persone. Inoltre, quasi tutti i giorni, specialmente la sera, si aggiungevano sette nipoti di Pasqualina M., detta Nina, figli di due sue sorelle passate prematuramente a miglior vita e, quindi, rimasti orfani.

Diciassette “avventori”, dunque, alla fine, a intingere il cucchiaio nell’unico piatto posto al centro del tavolo, che doveva servire per l’insieme di commensali, con conseguenti difficoltà, per ciascuno, a far arrivare il cucchiaio alla minestra.

Dire che, l’appetito era tanto e non esistevano altre cose da mangiare, tranne, al caso, un tozzo di frisella o una piccola manciata di fichi secchi.

Eppure, sembra assolutamente inverosimile, si sopravviveva e, mette conto di porre l’accento, negli stati d’animo della gente, albergava ben più serenità di adesso.

Rocco Boccadamo

 

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Salento oggi, il dibattito continua

Gli interventi di: Gaia Barletta, leccese, attivista queer e operaia culturale (presidente di 73100 Gaya, organizzazione che si occupa di diversity, equity ed inclusion); Mariella Piscopo di Taurisano, giornalista di viaggi, firma di reportage e guide, esperta di comunicazione food & travel; Paolo Insalata di Felloniche (Castrignano del Capo), presidente dell’associazione Lampus e organizzatore di concerti jazz; Mario Carparelli di Ugento, Docente di Storia della filosofia moderna dell’Università del Salento

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GAIA BARLETTA

Di Lecce. Attivista queer e operaia culturale. Presidente di 73100 Gaya, organizzazione che si occupa di diversity, equity ed inclusion

«Cambiamo prospettiva, diamoci identità mediterranea»

Gaia Barletta (foto © Alessia Rollo)

«Sono una di quelle salentine che ha deciso di restare e di provare a contribuire al cambiamento: sono attivista per i diritti delle persone lgbtqia+ (lesbiche, gay, bisessuali, trans*, queer, intersex, asessuali +) e quest’attitudine nel tempo sta diventando il mio lavoro – intendo l’attivismo, non l’essere persona queer, quello fa parte della mia natura, così come l’essere salentina.

Essere salentina per me oggi significa rendermi conto di poter cambiare la prospettiva sulle cose, allargare l’orizzonte, connettermi con un’identità più ampia che è quella mediterranea. Non so ancora esattamente cosa significhi perché ha a che fare con la storia, anzi con tante storie, che sono quelle di tutte le persone e le popolazioni che nel tempo hanno attraversato -nel bene e nel male- il territorio nel quale siamo noi oggi e che hanno contribuito a formare la nostra identità, quella che rivendichiamo con orgoglio.

Quello che so è che ha a che fare con accoglienza, diversità, rispetto, che sono i valori fondamentali che mi muovono e che provo a diffondere nella mia sfera personale e in quella sociale e lavorativa, cercando di agire in modo da costruire ponti, non da alzare muri perché di certo non abbiamo bisogno di ulteriori conflitti.

Siamo in un momento storico cruciale, nel mezzo di trasformazioni importanti sotto tanti aspetti, primo fra tutti il clima e il Salento è al centro del Mediterraneo che cambia.

Forse è proprio questo il motivo per il quale credo valga la pena esplorare l’identità mediterranea: perché ha che fare con il mare e la sua profondità ma anche per provare a dare una prospettiva nuova alle persone più giovani e alle generazioni future».

Gaia Barletta

MARIELLA PISCOPO

Di Taurisano. Giornalista di viaggi, firma di infiniti reportage e guide, esperta di comunicazione food & travel

«Il Salento è un viaggio interiore, il nostro luogo dell’anima»

Mariella Piscopo

«Non è solo la nostra terra di nascita, il Salento è il nostro luogo dell’anima, un viaggio interiore alla scoperta del sé più autentico.

A partire dalle radici profondissime, come quelle degli ulivi millenari, che ci riportano a casa, anche dopo un lungo periodo, come è accaduto a me, dopo 15 anni di lontananza in giro per l’Italia e il mondo.

A partire dalla spiritualità legata ad antichi valori, che si ripete e rinsalda in ogni festa patronale, nelle processioni pasquali, nei rituali di ringraziamento delle tavole di San Giuseppe, nei canti di passione in griko.

A partire dal calore umano e da quel senso di comunità genuino, che ci fa aprire le porte di casa e aggiungere un posto a tavola per chiunque o a far salire in macchina il turista che ci chiede indicazioni per accompagnarlo direttamente a destinazione.

A partire dallo spirito del nostro territorio che è magico e misterioso, tra megaliti, torri, resti messapici, castelli medievali, cattedrali barocche, masserie fortificate, grotte preistoriche e cripte suggestive.

Un posto unico, dove due mari si incontrano e la luce è così avvolgente da lasciare senza parole.

A partire dalla campagna e dalla ricchezza dei suoi ortaggi, dalle tavole imbandite che meglio non si può, dai prodotti poveri sublimati in ricette di deliziosa semplicità, come le frise condite con olio, pomodorini e origano, che ogni salentino porta con sé
ovunque vada.

E il pesce, i crostacei, i molluschi con un sapore, che è difficile trovare altrove.

A partire dalla lentezza, dalla semplicità, dal silenzio della controra nei paesini che sembrano deserti, dal miraggio di fuga a portata di mano, come quando si percorre la litoranea Otranto-Leuca e tra il blu del cielo e il cristallo del mare si ammira l’azzurro in tutte le sue sfumature.

Senza parole, con gli occhi incantati e il volto pieno di stupore».

Mariella Piscopo

PAOLO INSALATA

Di Felloniche (Castrignano del Capo). Presidente Associazione Culturale Lampus e organizzatore di concerti jazz

«Uniti nelle disuguaglianze. Confidiamo nelle nuove generazioni»

Paolo Insalata

«Che hanno in comune un leucano con un foggiano?

Beh, salvo l’appartenenza alla stessa regione, direi ben poco, considerando il fatto che le due località sono distanti quanto lo sono Roma e Parma: mondi completamente diversi!

Tutto cambia lungo quei 400 km di distanza: paesaggi, tradizioni, cultura, cucina e financo i dialetti.

Se non fosse per l’avvento della lingua italiana, un andriese e un gallipolino, non si capirebbero mai!

Restringendo il confronto nella sola provincia di Lecce, con i suoi circa 300 paesi (tra comuni e frazioni), le differenze tra gli abitanti si assottigliano ma non si annullano, rimanendo spesso molto evidenti.

E allora, cosa accomuna i “salentini”?

Al primo posto vedo l’attaccamento alla propria terra e il vanto di sbandierare con fierezza la propria appartenenza al Salento.

Avendo vissuto per oltre trent’anni da Roma in su, ho conosciuto poche persone orgogliose della propria terra quanto i salentini.

Cercando altri elementi che ci accomunano, penso alla fede calcistica “pe lu Lecce”, alla passione per “piatti forti” della cucina locale (dal pasticciotto a ciciri e tria, sagne torte, fave e cicorie, ecc…), all’orgoglio di vivere in un paesaggio illuminato da una luce straordinaria che fa brillare una costa meravigliosa, al privilegio di vivere circondati dal barocco.

Un’altra nota caratteristica dei salentini è la loro capacità di inserirsi nel tessuto sociale dei luoghi lontani dal Salento in cui si trasferiscono per lavoro, non sentendosi mai pesci fuor d’acqua ma suscitando spesso espressioni di amicizia e simpatia nei locali.

La società è molto cambiata dal dopoguerra ad oggi e sono cambiati anche i “salentini” che con l’emigrazione per lavoro o studio, l’avvento della televisione e dei nuovi media, hanno perso i tratti tipici di una cultura prevalentemente contadina fatta di famiglie numerose, lavoro e dinamiche solidaristiche proprie delle piccole comunità.

Ogni famiglia salentina ha parenti più o meno vicini che hanno lasciato il Salento e che, quando ci tornano (se tornano), dopo l’università, o a fine carriera lavorativa o per le vacanze, non sono più i salentini che erano prima di allontanarsi dalla loro terra.

Non solo: spesso, essendo stati permeati da nuove esperienze che ne hanno modificato la personalità, non ci si ritrovano più!

Alla luce di queste considerazioni, si può ancora parlare di “identità salentina”?

Forse si, ma a mio parere si tratta di un’identità non basata sulle affinità ma sui contrasti e sulle disuguaglianze!

Questo crea un grosso problema: le differenze spesso dividono, suscitano sospetto e diffidenza e sono un freno enorme allo sviluppo e alla crescita di una comunità ingessata in un presente un po’ miope e statico, oggi poco propenso al cambiamento.

Oggi è, di massima, così, ma la mia sensazione è che le nuove generazioni daranno a breve una spallata alla mentalità arroccata nella difesa del proprio campanile rompendo il muro della diffidenza e aprendosi con coraggio al confronto e alla collaborazione, apprezzando il valore delle differenze, riconoscendone le potenzialità e non i limiti.

Con un pizzico di fiducia e grazie all’insediamento sempre crescente dei “nuovi salentini” provenienti dalle più disparate latitudini, prontissimi ad apportare linfa nuova al Salento, il futuro che intravedo per il Salento è decisamente più che florido e creativo!».

Paolo Insalata

MARIO CARPARELLI

Di Ugento. Docente di Storia della filosofia moderna all’Università del Salento. È il più giovane esponente della tradizione storiografica salentina su Giulio Cesare Vanini

«Scommettere sul Salento è stato il mio modo di amarlo»

Mario Carparelli (foto Adnkronos)

«Potrà sembrare banale, ma per me essere salentini, oggi, dovrebbe significare, prima di tutto, non essere provinciali.

Purtroppo, nelle opposte fazioni – quella degli esaltatori e quella dei denigratori “a prescindere” del Salento – c’è un fondo di provincialismo. E, aggiungerei, anche di “riduzionismo”.

Intendo dire che sia gli uni che gli altri, tanto gli “apocalittici” quanto gli “integrati”, riducono il Salento a pochi elementi distintivi e identificativi, se non a vere e proprie caricature.

Al contrario e per fortuna, il Salento è una terra ricca e dalle molteplici anime, che custodisce tante storie straordinarie, piccole e grandi, antiche e moderne.

Io sono stato battezzato da don Tonino Bello e sono uno studioso di Giulio Cesare Vanini. Quanti territori possono permettersi il lusso di vantare tra le proprie radici due simili giganti?

Eppure, quanti salentini possono affermare di conoscere veramente e profondamente queste due straordinarie figure?

Ecco, l’orgoglio e l’amore per il Salento devono poggiare sulla cultura e sulla consapevolezza, non sulla semplice appartenenza. Oggi più che mai.

Da questo punto di vista, ritengo che i turisti e i sempre più numerosi “salentini d’adozione” ci abbiano molto aiutato: ci hanno aperto gli occhi, ci hanno insegnato a vedere ciò che non riuscivamo più a vedere, a sorprenderci e a meravigliarci nuovamente di ciò che davamo ormai per scontato.

È così che, anche grazie a loro, abbiamo riscoperto il Salento. Ho studiato filosofia a Firenze e, durante gli anni dell’università,
ho vissuto anche a Milano.

Non ho mai, però, nutrito dubbi sul fatto che sarei tornato. Che la mia casa e il mio futuro fossero qui. Scommettere sul Salento è stato il mio modo di amare il Salento.

E lo è ancora oggi.

Ai tanti ragazzi che, per professione, ho il privilegio di incontrare sul mio cammino, quando mi chiedono un consiglio su cosa fare “da grandi” non smetto mai di ripetere: non abbiate paura di scommettere sulla vostra terra.

Lo credo fermamente.

Ci sono tanti settori con margini di crescita e miglioramento enormi, a partire dalla sostenibilità e dalla cultura.

A patto di uscire alla logica degli “oceani rossi”, provando invece a immaginare e creare “oceani blu” come il nostro mare, tanto per citare il capolavoro di W. Chan Kim e Renée Mauborgne».

Mario Carparelli

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Sanità, come paghi mangi

Il Servizio Sanitario Nazionale sta perdendo una delle caratteristiche distintive e il suo punto di forza: l’accesso universalistico. Di contro, l’incapacità della sanità pubblica di far fronte alla richiesta di prestazioni mediche ha favorito il proliferare di struture convenzionate o del tutto private. Interviste all’assessore regionale Rocco Palese, all’ex direttore dell’Asl Lecce Franco Sanapo (oggi medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina) ed a Suor Margherita Bramato, direttrice generale dell’ospedale “Cardinale G. Panico” di Tricase

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di Giuseppe Cerfeda

Complice anche l’innalzamento dell’aspettativa di vita, negli ultimi anni è aumentata a dismisura la richiesta di prestazioni sanitarie a fronte di una sempre maggiore difficoltà da parte della sanità pubblica di soddisfare la domanda. Conseguenza quasi fisiologica di tale quadro, il proliferare di cliniche, case di cura, centri medici, poliambulatori specialistici privati e/o convenzionati. Questo è accaduto
su tutto il territorio nazionale ed il Salento non fa eccezione.

Rocco Palese, assessore regionale alla Sanità

L’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese, conferma la paresi del servizio pubblico nazionale: «La parte pubblica è enormemente burocratizzata. Chi ha bisogno è costretto a prendere appuntamento con il medico di base; stabilito che ha bisogno di una visita specialistica, dovrà andare al Cup per la prenotazione; dopo la visita specialistica dovrà rifare la trafila per il referto… Mbah, uno si fa quattro conti: se per una radiografia, ad esempio, con 40 euro si riesce in un giorno a fare tutto, vale la pena perdere tempo dietro la sanità pubblica? Senza contare il problema delle liste d’attesa e quindi del tempo che il paziente dovrà aspettare prima di poter finalmente soddisfare i suoi bisogni».

«Come forse mai accaduto prima», ammette Palese, «il servizio sanitario pubblico sta attraversando una fase di profonda crisi rispetto alla sua caratteristica principale che è l’accesso universalistico alle prestazioni, che dovrebbero essere garantite dalla parte pubblica perché non tutti si possono permettere quella spesa per curarsi».

L’assessore regionale evidenzia poi un altro aspetto: «Pur essendo la nostra una provincia a bassa capacità fiscale, con poco reddito, anche da noi si sta diffondendo il fenomeno delle assicurazioni. Prendiamo ad esempio i dentisti: un congruo numero, almeno il 30% dei pazienti che si rivolgono a loro per curarsi, hanno l’assicurazione».

Secondo Palese, sono diverse le cause che stanno determinando l’aumento dell’offerta privata al netto del servizio pubblico: «Innanzitutto vi è stata un’impennata dopo il Covid che ha molto sensibilizzato sulla necessità di screening, controlli cardiologici, ecc. Poi ci sono ragioni di natura diversa che riguardano l’invecchiamento della popolazione che quindi abbisogna di più di cure mediche. Non solo, un ruolo importante lo riveste anche l’aumento dei pazienti cronici. Una volta la cronicità riguardava per la stragrande maggioranza persone con handicap, con malattie rare o diabetici. Oggi, anche grazie allo sviluppo delle cure oncologiche l’aspettativa di vita in media, è più alta. Così come ci sono più opportunità di sopravvivere ad un infarto o ad altre patologie. Grazie a Dio direi oggi si vive di più. Tradotto, però, ci sono più malati cronici che devono essere assistiti».

Ci stiamo, forse, americanizzando?

«Sembrerebbe di si e la cosa non mi piace affatto! Il nostro servizio sanitario è considerato tra i migliori del mondo proprio per il suo accesso universalistico. Siamo in un contesto di tempesta perfetta. Il Covid oltre ad aver mietuto vittime, ha terremotato il servizio sanitario pubblico e rimetterlo in piedi è particolarmente difficile perché non abbiamo risorse sufficienti, i medici sono pochissimi e la richiesta di prestazioni cresce a dismisura».

Secondo lei questo è l’inizio della fine della sanità pubblica?

«Guai! Io continuo a crederci. Siamo davanti ad una criticità enorme, la più grande dal 1978, quando è nato il servizio sanitario nazionale, ma dobbiamo reagire, vincere la sfida e riportare la sanità pubblica ai livelli pre-Covid, o superiori».

Anche prima del covid era manifesto il problema delle liste d’attesa che oggi paiono una montagna impossibile da scalare. In tutta Italia sono stati finanziati più di tre miliardi basteranno per arrivare in vetta?

«È una falsità!», tuona Rocco Palese, «positivo l’investimento, ma non dicano che quei soldi servono per abbattere le liste d’attesa: 2,4 miliardi copriranno i costi del rinnovo dei contratti di tutto il personale; 500 milioni riguardano ’applicazione del nuovo tariffario delle prestazioni sanitarie a partire dal 1° gennaio 2024. Per le liste d’attesa restano circa 500 milioni, di cui poco più di trenta (32-34 milioni di euro) arriveranno in Puglia. Una goccia in mezzo al mare».

Franco Sanapo: «Necessaria radicale e coraggiosa riforma del sistema»

Franco Sanapo, medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina ed ex direttore sanitario dell’Asl Lecce

Sulla questione pubblico-privato nella sanità abbiamo interpellato Franco Sanapo già direttore sanitario dell’Asl Lecce e oggi medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina che opera all’interno della Clinica dal 2011. La Clinica San Francesco è un ospedale Privato Accreditato (Convenzionato) con il Sistema Sanitario Nazionale. Ha due linee di attività: Ricovero per acuti (60 posti letto per Medicina, Chirurgia Generale, Ginecologia, Otorinolaringoiatria, Urologia e Oculistica), Attività Ambulatoriali (Radiologia, Laboratorio Analisi, Chirurgia Generale, Chirurgia Vascolare, Ostetricia e Ginecologia, Otorinolaringoiatria)

Mi può confermare la tendenza dei cittadini salentini a un ricorso massiccio alle prestazioni a pagamento e, quindi, a un proliferare di strutture private che rispondono a questa domanda di salute?

«Il fenomeno credo sia in linea con l’andamento generale nell’intera nazione. Confermo pertanto l’incremento della spesa sanitaria che i nostri cittadini sopportano di tasca propria non trovando risposte di salute nel sistema pubblico. Confermo anche il proliferare di strutture private, prevalentemente ambulatoriali, che erogano prestazioni sanitarie a pagamento».

Può fornire qualche stima, per inquadrare l’entità del fenomeno?

«Non sono in condizioni di fornire dati provinciali o regionali di quanto spendono di tasca propria i nostri cittadini per curarsi o quante sono le nuove strutture private sanitarie che in questi ultimi anni sono proliferate. Certamente hanno avuto una enorme impennata, basta guardare nei nostri comuni o in quelli vicini per rendersene conto. Il dato nazionale del 2022 indica un esborso da parte dei cittadini – che già finanziano la sanità pubblica e quella convenzionata con l’Irpef – di 41 miliardi e 503 milioni, per circa un quarto (25%) della spesa complessiva che supera i 170 miliardi. Posso tuttavia fornire il trend di crescita della spesa sanitaria a pagamento che rilevo dalla mia postazione lavorativa, che pure ha una attività convenzionata pagata dallo Stato. In un decennio (2012 -2022) le prestazioni ambulatoriali a pagamento hanno avuto un incremento molto rilevante. Non so se in altre strutture convenzionate si sia registrato lo stesso fenomeno, ho tuttavia il sentore che la Clinica sia in numerosa e ottima compagnia».

Perché i cittadini pagano una prestazione sanitaria invece di pretenderla e riceverla da una struttura sanitaria pubblica o convenzionata?

«Il meccanismo è semplice. Nelle strutture pubbliche le attività ambulatoriali e le radiologie sono prese d’assalto, gli addetti (specialisti e personale infermieristico o tecnico) sono pochi o mal organizzati, le attese sono lunghe, a volte superano i 12 mesi. Nel privato convenzionato la ASL assegna una somma annuale definita e invalicabile. Facciamo l’esempio di una struttura convenzionata per l’attività di endoscopia digestiva (gastroscopia o colonscopia) e ammettiamo che per quelle attività siano assegnati 120 mila euro, che significa, in dodicesimi, 10 mila euro al mese. Accade che intorno alla metà del mese, quello stanziamento è esaurito e non è possibile erogare la prestazione, con la conseguenza che slitta in avanti la data di prenotazione che ha già accumulato prenotazioni del mese precedente. L’effetto delle lunghe liste di attesa nel pubblico è la possibilità, per chi se lo può permettere, al ricorso alle prestazioni a pagamento in favore dei medici specialisti pubblici che erogano Attività Libero Professionali Intramoenia (ALPI) negli ospedali pubblici o negli ambulatori della ASL. L’effetto nel privato: o aspetti mesi e mesi se vuoi fare la visita o prestazione strumentale con la ricetta, oppure paghi e fai subito la prestazione. Da qui il proliferare di strutture di “privato puro”, vale a dire strutture che erogano prestazioni sanitarie solo a pagamento».

Secondo lei quali sono le cause di questo fenomeno in così rapida crescita?

«Le cause sono molte. A partire lo scarso finanziamento pubblico del Sistema Sanitario Nazionale. L’Italia destina poco più del 6,8% del PIL alla spesa sanitaria, al di sotto della media dei paese OCSE (nazioni con le economie più forti) e molto al di sotto della media europea. Se compariamo la spesa delle maggiori nazioni europee vediamo che Francia e Germania destinano alla sanità quasi l’11% del PIL, il Regno Unito circa il 10% e la Spagna il 9%. Ricordo che ogni punto di Prodotto Interno Lordo (PIL) significano miliardi su miliardi.
Il Sistema Sanitario Italiano, poi, è prevalentemente un sistema universalistico inserito nel mare magnum del Pubblico impiego che, come tale, ha sacche di inefficienze che affliggono tutta la pubblica amministrazione.
E ancora: l’inappropriatezza delle prestazioni. Non è un concetto astratto. Significa che se lo stato riconosce tutto a tutti (ti chiami John Elkann o Mario Rossi) gratis ognuno si sente in diritto di ricorrere al sistema a prescindere dalla reale necessità (appropriatezza), ingolfando il sistema già in crisi economica di suo. E, di conseguenza, il collasso dei Pronto Soccorso e le liste di attesa lunghissime per avere una prestazione. Nei sistemi sanitari differenti dal nostro, quelli finanziati non con la tassazione generale (IRPEF), ma con le Assicurazioni Sanitarie Sociali Obbligatorie – Germania, Svizzera, Francia, Olanda, Belgio e altre nazioni europee – l’efficienza del sistema è superiore e non si assiste a quanto rileviamo in Italia. Se non si mette mano alla riforma del nostro sistema, rendendolo più simile al modello europeo più virtuoso (modello tedesco), puoi mandare a governare la sanità anche il miglior manager del mondo, il fallimento è garantito. Il nostro sistema risponde a una governance di tipo politico (perché amministra i soldi di tutti). Il modello sanitario alla tedesca risponde a una governance di tipo economico. Notoriamente la politica cerca il consenso, le assicurazioni, seppure sociali obbligatorie, cercano l’efficienza e la sostenibilità».

Ci stiamo americanizzando?

«No, per fortuna! Perché siamo inseriti in una cultura europea che ha fatto del Walfare, contro le storture del liberismo selvaggio, il punto di forza e coesione sociale. Ma se non si mette mano alla modifica del sistema sanitario il rischio è elevato: chi può si cura, chi non può aspetta, con tutte le conseguenze in termini di aspettativa e qualità di vita».

L’attuale situazione delle difficoltà dei Pronto Soccorso, letteralmente presi d’assalto, delle lunghe liste di attesa per ricoveri programmati, per visite specialistiche e prestazioni strumentali è sanabile?

«Si attraverso due meccanismi. Il primo: impiegare più soldi (molti miliardi) ogni anno per assumere medici specialisti, personale sanitario e attrezzature, per aumentare i budget delle strutture convenzionate. A ammodernare l’edilizia sanitaria delle strutture pubbliche e fornirle di strumentazione moderna. Il secondo: mettere mano a una radicale e coraggiosa riforma dell’attuale sistema sanitario governato dalla politica e passare a quello europeo, più efficiente. Il primo meccanismo mi pare irrealizzabile perché o si aumentano le tasse (e nessuno lo vuole) o si aumenta il già mostruoso debito pubblico italiano. Il secondo sarebbe possibile se si abbandonano pregiudizi ideologici».

E la nostra Regione che amministra la Sanità con i trasferimenti economici?

«È vittima dei meccanismi che ho descritto prima, perché viene finanziata (male) dallo Stato. Pochi soldi per la sanità, disavanzo economico annuale e inefficienze sono sotto gli occhi di tutti. Con qualunque partito e con qualunque assessore».

Suor Margherita Bramato: «Pubblico e privato devono coesistere»

Suor Margherita Bramato, direttore generale Azienda ospedaliera “Cardinale Panico”

La premessa di Suor Margherita Bramato, direttrice generale dell’Azienda Ospedaliera “Cardinale G. Panico” di Tricase, è che «la presenza delle strutture private è una possibilità di libera scelta, per chi vuole e ne ha l’opportunità, di accedere a proprie spese alle prestazioni sanitarie. Riguardo alle strutture convenzionate, invece, ritengo siano necessarie. Sono per il sistema misto perché il pubblico, da solo, non potrà mai reggere. è importante, in una democrazia, l’apporto dei privati, soprattutto quelli no profit che condividono la mission dell’assistenza al paziente e quindi siano di supporto, di integrazione o, addirittura, all’interno delle reti. Il nostro, ad esempio, è un ospedale classificato ed è nelle reti. Quindi, dal punto di vista dei servizi, siamo equiparati al pubblico».

Si teme che si arrivi al punto in cui si potrà curare solo chi ne ha la possibilità economica.

«È una questione di organizzazione. Premesso che la rete dell’urgenza-emergenza segue una sua via di priorità, è chiaro che se manca il personale, che è un dato di fatto oggettivo, il sistema va in tilt. Ci vorrebbe un’organizzazione ferrea e la giusta vigilanza sull’adeguatezza delle prescrizioni, perché la programmazione e l’organizzazione reggano».

Non è anche una questione di risorse?

«Certamente. Perché, come dicevo, soffriamo di carenza di personale, oltre ad essere spesso prigionieri anche di una serie infinite di normative che limitano la disponibilità. Quello che è successo di recente con i medici del pronto soccorso barese, puniti (la sanzione è stata poi annullata, NdA) per aver lavorato troppo durante il covid grida vendetta. C’è una discrasia anche all’interno dell’organizzazione governativa: da una parte si chiede di fare il massimo, dall’altra sorgono questioni particolari come quelle vissute da quei medici. Credo che nella vita occorra trovare il giusto equilibrio. Anche per la questione delle liste d’attesa: il problema è a monte, bisogna lavorare cioè sull’appropriatezza delle prescrizioni e distinguere l’emergenza da tutto ciò che può aspettare. Ad ogni modo, il pubblico da solo non ce la può fare ed è necessaria l’integrazione del privato no profit e di quello convenzionato. L’ideale sarebbe un’integrazione reale, senza paura che uno possa prevalere sull’altro, ciascuno al proprio posto in rete con le risorse che ha e tutti al servizio del paziente. In questo modo avremmo un servizio sanitario nazionale efficiente, armonioso e utile alla popolazione. Ribadisco, però, ci vuole a monte una vigilanza sull’adeguatezza delle prescrizioni, altrimenti non si risolverà mai il problema delle liste d’attesa».

Secondo lei esiste il rischio di un’americanizzazione della nostra sanità?

«Il sistema potrebbe non portare a questo se ben gestito, ben equilibrato e ben vigilato».

Oggi il sistema è ben gestito?

«Secondo me non sempre. Si lavora in emergenza e si cerca di tamponare. Occorrerebbe preventivamente avere una certa organizzazione, personale a disposizione… invece nel servizio sanitario nazionale ci rincorriamo sempre. Anche noi, che facciamo parte della rete, purtroppo siamo costretti a lavorare un po’ così, facendo sempre i conti con la carenza finanziaria».

Quindi i fondi non sono sufficienti…

«Assolutamente! Da 12 anni abbiamo il tetto bloccato. In queste condizioni avremmo dovuto chiudere l’ospedale già da un pezzo! Resistiamo, facendo i salti mortali, solo per rispetto al territorio, ai suoi abitanti e alla mission lasciateci in eredità dal Cardinale Panico. Si dovrebbe anche considerare che negli ultimi 15 anni la sanità ha fatto passi avanti enormi con l’utilizzo della tecnologia, dalle protesi di ultima generazione alla robotica, all’intelligenza artificiale. Tutte cose costose. È anche per questo, oltre ai rincari di cui tutti siamo a conoscenza, che i fondi non possono essere gli stessi di 15 anni fa».

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