Approfondimenti
Grappoli di reminiscenze, senza tempo né confini
A Marittima: qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese
In una recente e differente narrazione, traendo spunto dal casuale incontro con due turisti/ospiti provenienti da S. Francisco, USA, mi soffermavo diffusamente su Marittima e più esattamente sul Rione dell’Ariacorte, dove sono nato e, fra l’altro, annotavo: «Attualmente, con il mio paesello, e specialmente con i residenti, non intrattengo più i rapporti d’intimità e consuetudine viscerale a trecentosessanta gradi, che hanno, invece, caratterizzato le stagioni della mia fanciullezza, adolescenza e prima giovinezza».
Non v’è, invero, contraddizione fra l’anzidetta puntualizzazione e quanto sto per raccontare qui. Semmai, la cronaca freschissima che segue, può considerarsi un’eccezione rispetto al ricordato e consolidato stato d’interazione, in termini complessivi, fra me e la località natia.
Qualche giorno fa, transitando per la piazza del paese in sella al mio scooter color sabbia, ho visto, seduto su una panchina pubblica provvidenzialmente ombreggiata ed esposta a un benefico venticello, un “vecchio” marittimese, Costantino C., il quale vanta e si porta appresso, con disinvoltura, ben novantotto primavere già valicate, per di più guidando ancora, quando occorre, o un’autovettura o un motofurgone “Ape”.
Conosco la citata persona, è proprio il caso di dirlo, da quando sono nato e, lui, giovanottino, abitava, insieme con la sorella Maria, presso la nonna Costantina – i loro genitori erano mancati prematuramente – nell’Ariacorte, a cinquanta metri di distanza da casa mia.
Insomma, a Costantino C., mi lega un’intensa familiarità, sono edotto di tutte le vicende della sua esistenza, da alcuni lustri, in particolare, ho modo di incontrarlo sovente, giacché possiede un giardino, con annesso fabbricato (da poco, l’ha donato ad alcuni nipoti che vi stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione), situato proprio dirimpetto alla mia villetta della “Pasturizza”.
Arrestata d’istinto la marcia del ciclomotore, mi sono avvicinato e seduto accanto, chiedendogli, come approccio, notizie circa lo stato dei lavori edili.
Pochi minuti dopo, si è accostato a noi un altro compaesano, Santo C., appena più giovane di Costantino, e i due, all’unisono, come del resto mi aspettavo, sono immediatamente passati a rievocare un episodio assai lontano, sia come datazione, sia come luogo di svolgimento, evidentemente, però, rimasto indicativo e impresso nella mente, fatto in cui, insieme con loro, io stesso mi ero, in certo qual modo, trovato coinvolto.
Sarà stato il 1963 o il 1964 e lavoravo in banca, a Taranto, da tre anni circa, svolgendo le mansioni di segretario, oggi si dice assistente, di un vicedirettore settorista, il quale, per chiarire, gestiva un determinato portafoglio di clienti.
Insieme con il citato funzionario, compivo spesso visite agli utenti, sia per mera cortesia, sia e soprattutto per ricognizioni dirette sulle loro aziende e le loro attività.
Un giorno c’eravamo portati a domicilio di un operatore agricolo (grosso proprietario di terreni e produttore di vino e olio) di Francavilla Fontana, da molto tempo cliente affidato, vuoi con linee di credito a carattere ordinario e continuativo, vuoi sotto forma di anticipazioni su giacenze di vino e olio, nelle more della loro vendita.
Guarda caso, io non ne ero minimamente a conoscenza, nell’azienda dell’operatore in discorso, da parecchi anni, prestavano attività, sia pure stagionalmente, Costantino e Santo, unitamente ad altri due marittimesi, Peppino e Vitale.
Tutti i già menzionati, quindi, persone di massima fiducia dell’imprenditore francavillese, di casa, alla stregua di famigliari.
Orbene, il mio superiore si era determinato a recarsi nell’azienda di tale cliente, diciamo così, per accertarsi che esistessero effettivamente le giacenze di prodotto su cui era stato da poco concesso un finanziamento e, quindi, si era premurato di dare anche una sommaria occhiata alle relative cisterne.
Sennonché, giusto lì, come ebbero a confidarmi in seguito i miei concittadini, aggiungendo qualche abbozzo d’ilarità, si nascondeva un trucchetto, alquanto rudimentale e, tuttavia, valido a far apparire qualcosa che, in realtà, non esisteva.
E, però, anch’io, dall’altra parte, cioè dall’interno della banca, avevo avuto modo di accorgermi che gli amici marittimesi, o, meglio, le loro firme, erano talora “utilizzati” dal datore di lavoro, per agevolare alcune sue operazioni di finanziamento da parte della banca.
Certo, stagioni non solo antiche ma, specialmente, dai contenuti totalmente diversi, allora la fiducia e la parola erano una cosa seria, nel lecito e anche ai limiti della norma o borderline per stare al linguaggio presente: così abbiamo, l’altro giorno, commentato concordemente, sulla panchina della piazza di Marittima, Costantino, Santo ed io.
Di lì a poco, è arrivato ad aggregarsi alla comitiva un ennesimo “ariacortese”, Costantino N. e, quasi contemporaneamente, Uccio N., geometra in pensione e, fuor d’ogni dubbio, compaesano d.o.c., non essendosi mai allontanato, durante i suoi ottantun anni, dalla natia Marittima. A questo punto, a beneficio di quanti non fossero a conoscenza, mi soffermo su un breve inciso: fra i nomi maggiormente diffusi nella località, ricorrono quelli di Vitale e Costantino o Costantina, a motivo che, collegando i comuni mortali ai santi, S. Vitale, cavaliere nell’esercito romano ai tempi di Nerone, nato a Milano e martirizzato a Ravenna, è il protettore di Marittima, mentre, a compatrona, è stata da vecchia data proclamata la Vergine Maria Santissima di Costantinopoli o Madonna Odegitria.
Costantino, come ho avuto modo di accennare anche in precedenza, faceva parte, penultimo nato, di una famiglia numerosa, ma soprattutto antesignana e allargata, per vicende naturali, in senso laterale o di discendenza.
Difatti, la padrona di casa, in altre parole sua madre, Rosaria, proveniente da Andrano, reduce dal primo matrimonio nel corso del quale le erano nati due figli, Andrea e Giuseppa (Pippina), rimasta vedova ancora giovane, aveva sposato in seconde nozze il marittimese Ciseppe (Giuseppe), reduce, anche lui, da una precedente unione, già padre di tre figli e, parimenti, rimasto vedovo anzitempo.
Rosaria e Giuseppe, novella coppia, procrearono ulteriori quattro figli, Pompilio, Vitale, Costantino e Concetta.
Sì che, a un certo momento, venne a formarsi un nucleo o f0c0lare di undici persone, fra i due coniugi e i nove discendenti arrivati dall’accoppiata di letti.
Molti i ricordi e le annotazioni snocciolati, approfittando della presenza di Costantino, riguardo ai membri della famiglia di Rosaria e Giuseppe ‘u fusu.
Alla fine degli anni Trenta o agli inizi del decennio successivo, la scomparsa di Giuseppe, a causa di una rovinosa caduta mentre era intento a fissare, a un gancio del soffitto, un chiuppu (una sorta di grosso casco, facendo riferimento alle banane) di tabacco già essiccato.
Nel 1945, il matrimonio di Pippina nel canonico abito bianco, di cui, lo scrivente, serba perfettamente il ricordo.
Nel 1947, esattamente il 22 gennaio, le nozze di Andrea (con Valeria), in un giorno in cui, Marittima, registrò il particolarissimo fenomeno di un’abbondante nevicata.
Nel 1951, un’improvvisa e brutta traversia, fortunatamente finita bene, in capo a Vitale, sotto forma di un’infezione da tetano a un piede (precisa, adesso, Costantino, che, all’epoca, lui era assente da Marittima per il servizio militare in Marina, imbarcato su un dragamine di stanza alla Spezia). Dopo, infine, seri problemi agli occhi per l’altro figlio, Pompilio, invero mai risolti.
A un dato momento, Costantino, seduto nel gruppo e rivolgendo lo sguardo a Uccio N. che gli stava accanto, ha ritenuto di richiamare i legami di parentela fra lo stesso Uccio e me (le rispettive mamme, Nina e Immacolata, erano cugine di primo grado, figlie di due sorelle, Cristina e Lucia). Aggiungendo, inoltre, che lui medesimo, a seguito del matrimonio, si era apparentato con l’ex geometra, posto che il suocero Giuseppe P. (in vita, operatore ecologico, attacchino e necroforo del Comune di Diso), era, a sua volta, primo cugino del padre di Uccio, Pippi ‘u scanteddra o mesciu Pippi ‘u barbieri, la cui madre, Pasqualina M. detta Nina, era sorella della genitrice di Giuseppe P., Maria Donata M.
I conti degli accostamenti fra parentele o famigliarità quadrano perfettamente, a prova di dati anagrafici e/o di battesimo.
Uccio N., il quale, al momento di aggregarsi, aveva domandato, sorridendo, se, in quella circostanza, fossi io a tenere banco nel gruppo, non ha, poi, rinunciato a intervenire, dicendo la sua a proposito di una sfaccettatura straordinaria insita nel desco domestico del suo nonno paterno, Vitale N. ‘u fiore.
Intorno a quel tavolo da pranzo (parolone esagerate), occupavano posto, ha raccontato Uccio, suo nonno e sua nonna, insieme con un paio di ascendenti e i loro sei figli (cinque maschi e una femmina) e, già così, si arrivava a dieci persone. Inoltre, quasi tutti i giorni, specialmente la sera, si aggiungevano sette nipoti di Pasqualina M., detta Nina, figli di due sue sorelle passate prematuramente a miglior vita e, quindi, rimasti orfani.
Diciassette “avventori”, dunque, alla fine, a intingere il cucchiaio nell’unico piatto posto al centro del tavolo, che doveva servire per l’insieme di commensali, con conseguenti difficoltà, per ciascuno, a far arrivare il cucchiaio alla minestra.
Dire che, l’appetito era tanto e non esistevano altre cose da mangiare, tranne, al caso, un tozzo di frisella o una piccola manciata di fichi secchi.
Eppure, sembra assolutamente inverosimile, si sopravviveva e, mette conto di porre l’accento, negli stati d’animo della gente, albergava ben più serenità di adesso.
Rocco Boccadamo
Approfondimenti
Come permutare un iPhone: 5 cose da sapere
Chi ha un iPhone difficilmente cambia tipologia di cellulare. Sarebbe, infatti, come passare da un pc della Apple a uno con sistema Microsoft, a fronte di circuiti che vedono logiche opposte e a cui adattarsi può non essere semplice.
Qualcosa di simile accade quando un italiano guida l’automobile in Inghilterra, dove il senso di marcia è opposto a quello del Belpaese, ovvero a sinistra, per utilizzare una metafora.
Pertanto, il prezzo dello smartphone prodotto dalla società resa iconica da Steve Jobs è generalmente tutt’altro che irrilevante. Una soluzione per ovviare a tale condizione però c’è ed è quella di avvalersi di un servizio di permuta iPhone con cui poi acquistare un apparecchio ricondizionato. Oggi vi raccontiamo di cosa si tratta, soffermandoci su 5 curiosità in particolare.
Il significato della parola “permuta”
Partiamo dal significato della parola permuta: sapete infatti cosa vuol dire? Per cercare di spiegarci nel modo migliore possibile abbiamo deciso di prendere in prestito la definizione offerta dal Vocabolario Treccani:
“Contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro”.
Nel caso dell’iPhone, quindi, si assiste alla cessione del vecchio modello che si desidera cambiare, così da risparmiare sull’acquisto di uno nuovo.
Quale iPhone acquistare in seguito alla permuta
La permuta dell’iPhone può rivelarsi interessante sia per coloro che stanno valutando di ottenere un modello nuovo di pacca sia per quanti considerano l’opzione di avvalersi di modelli ricondizionati, detti anche rigenerati.
Si tratta di una soluzione che presenta diversi vantaggi, complice il fatto che si ha la possibilità di accedere a modelli usati riportati alla condizione originaria grazie a test e interventi di ripristino effettuati da professionisti specializzati. In sintesi, possiamo affermare che gli iPhone rigenerati sono economici, performanti e sottoposti a garanzia.
Perché la permuta di iPhone conviene
La permuta si traduce in genere in uno scambio di telefono, consentendo di ottenerne uno nuovo o ricondizionato – più performante quindi – a condizioni più favorevoli, in termini economici e non solo.
Inoltre, permette di “sbarazzarsi” del vecchio cellulare ricavandone qualcosa e sapendo di adottare un comportamento favorevole per l’ambiente, massimizzando l’investimento e avviando delle operazioni di riuso e riciclo.
Quando conviene permutare un iPhone?
Premesso che la permuta dell’iPhone rappresenta sempre una soluzione interessante, ciò risulta valido soprattutto se lo smartphone versa in buone condizioni, sia nelle parti hardware che in quelle software. Per intenderci, se la custodia è rigata varrà meno di una che non lo è.
Si può pensare che per i telefoni più usurati ci sia qualche chance di ricavare qualcosa di più dalla vendita a privati, ma non è detto che ciò effettivamente si verifichi. La permuta rimane comunque l’opzione che offre maggiori sicurezze.
A chi rivolgersi
Sono diversi i portali e gli store in presenza che effettuano un servizio di permuta per quanto riguarda l’iPhone. Il consiglio è quello di affidarsi a una realtà specializzata e affidabile, nella quale lavorano dei professionisti qualificati e da cui magari accedere a condizioni favorevoli per il nuovo acquisto. Cosa che avviene soprattutto nel caso dei prodotti rigenerati.
Andrano
Xylella: La morte dei giganti
L’autore, Stefano Martella: «La storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e, di conseguenza, alla distruzione paesaggistica, culturale, economica»
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Con “La morte dei Giganti” Stefano Martella, giornalista (Quotidiano di Puglia) di Andrano, ha ripercorso le fasi che hanno portato alla quasi desertificazione del Salento.
Dopo aver sondato le motivazioni che hanno spinto la magistratura a mettere sotto inchiesta gli stessi scienziati che hanno scoperto il microrganismo patogeno, il volume mostra come la popolazione si sia divisa in due fazioni contrapposte: chi era convinto che la pianta si potesse salvare e chi la reputava spacciata; chi credeva nelle tesi della scienza e chi invece che sia stato ordito un complotto diabolico.
È stato il primo libro dedicato all’argomento ad essere pubblicato. Nasce nel 2022 e, dal volume, è stato tratto un docufilm (“Il tempo dei giganti” diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, prodotto da Dinamo Film e Fluid Produzioni con il contributo di Apulia Film Fund di Apulia Film Commission e Regione Puglia. È stato girato tra Bari, Valle d’Itria, Alliste, Erchie, Lecce, Brindisi, Otranto e Castellana Grotte) che ha ricevuto il consenso unanime di critica e pubblico oltre che numerosi premi.
Come è nata l’idea di questo libro?
«In modo molto semplice: da salentino avevo la contezza di trovarmi al centro di uno dei cambiamenti più importanti della storia dell’homo sapiens. Il Salento ha, aveva, milioni di ulivi millenari, cioè risalenti all’epoca in cui Nerone si suicidò pugnalandosi alla gola o che il Vesuvio seppellì Pompei. Pensare che abbiano deciso di morire nella nostra epoca, è un evento di portata storica. Da giornalista, ritrovandomi nell’epicentro di quanto stava accadendo ho avuto la certezza di essere al centro di un cambiamento epocale. Così come per un cronista per il crollo del muro di Berlino o nel cuore del Vietnam durante la guerra con gli Stati Uniti. Mi sentivo testimone ed osservatore di un grande cambiamento della storia. Era necessario, a mio parere, mettere tutto in un libro provando a fare un’operazione di carotaggio».
In che senso?
«Distanziandomi dalle due grandi curve che si erano create, ovvero una che sosteneva che la Xylella è inguaribile, l’altra invece che si può debellare. Due tifoserie opposte che si urlavano contro senza dialogarsi».
Quali sono i temi centrali trattati?
«Innanzitutto, la simbiosi tra un popolo ed una pianta, un albero. Gli alberi sono da sempre, a tutti gli effetti, pezzi fondamentali della cultura e dell’identità dei popoli. Quindi raffronto le radici antropologiche e spirituali, culturali, storiche di questa pianta con la popolazione salentina, analizzo le origini dell’arrivo del batterio sul territorio e le falle all’interno del sistema di controllo fitosanitario europeo. Faccio un excursus storico su quali siano state le malattie delle piante nella storia. La Xylella non è un fatto del tutto eccezionale ma una delle tante patologie che hanno sconvolto l’esistenza degli uomini. Analizzo la psicosi che si è instaurata all’interno delle persone, quasi fosse uno shock post traumatico, analizzo anche le reazioni più assurde, grottesche e traumatiche che le persone hanno iniziato a mostrare quando gli alberi hanno iniziato a morire. Analizzo le lotte sociali che le donne salentine, le raccoglitrici di olive hanno fatto per emanciparsi da un sistema schiavista, che era quello dell’economia dell’olio rampante. Va ricordato che il Salento era il più grande produttore di olio rampante d’Europa. Il primo anello di questo grandissimo comparto erano proprio le “schiave”, le donne salentine. Un altro capitolo è dedicato alla famosa teoria del complotto».
Hai parlato con tante persone per la tua ricerca, per il libro, ma anche dopo, nei diversi incontri a cui hai partecipato. Che idea ti sei fatto di tutta la vicenda?
«Che da salentini ci siamo svegliati tardi e tardi ci siamo resi conto che questa pianta non era immortale. Avevamo dato per scontato che questa pianta, lì da millenni, potesse vivere per sempre. Sotto certi aspetti aveva sconfitto la più grande condanna per gli uomini, cioè il tempo. Mentre le persone nascevano, consumavano la loro vita fino alla fine dei loro giorni, gli ulivi rimanevano. Diventavano un grande lascito, da generazione in generazione, creando una grande memoria collettiva e divenendo un tratto identificativo del Salento. Tutto questo è originale sotto certi aspetti. Per la prima volta l’uomo si è scoperto a provare dei sentimenti nei confronti delle piante. Siamo sempre stati abituati, come specie a provare dei sentimenti per la morte di parenti, amici o comunque di appartenenti alla nostra specie. Da qualche tempo avevamo già sentimenti nei confronti degli animali di affezione. Le piante erano invece considerate un po’ come la carta da parati del mondo. Tale sentimentalismo nei confronti degli alberi ci fa comprendere come la nostra stessa esistenza sia in realtà legata al destino delle piante. Ritengo, poi, ci sia ancora molto da lavorare nell’ambito della comunicazione scientifica. Il mondo della scienza è una grande conquista della civiltà occidentale. I ricercatori, nostri scienziati sono una risorsa fondamentale nella nostra civiltà. Mai come in questo periodo c’è stata comunicazione scientifica. Allo stesso tempo, però, mai come in questo periodo aumentano le teorie antiscientifiche. Anche questa è una chiave da analizzare, perché l’epidemia è una cosa scientifica. Xyella è poco precedente, per esempio, all’arrivo del Covid ed anche in quel caso sono nate teorie del complotto. Teorie che, banalmente, rivedo anche nell’altra classica questione identitaria del Salento, il ritorno del lupo sul nostro territorio. Stanno nascendo teorie cospirative che vogliono il lupo non arrivato spontaneamente, ma portato da qualcuno che aveva non meglio precisati torbidi interessi».
Secondo te come andrà a finire tutta questa storia? Come si potrà chiudere il cerchio?
«Partendo da un dato di fatto: la monocoltura, è stata un errore storico. Non potevamo certo prevedere quanto accaduto, ma la storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e di conseguenza alla distruzione paesaggistica, culturale, economica. Quindi il futuro dovrà passare da una diversificazione culturale e anche dalla riscoperta di antiche culture che la monocultura dell’olivo aveva castrato. Altro aspetto importante, a proposito di riforestazione, è il cambiamento climatico, di cui il Salento è hotspot, cioè un luogo, all’interno del Mediterraneo, dove le mutazioni climatiche sono più evidenti, accelerate e più forti. Quindi, qualsiasi ragionamento dovrà tenere conto che la nostra è una terra che sta andando verso un clima molto diverso rispetto a quello del passato».
Con annessi e connessi: emergenza incendi, disboscamento, inquinamento e chi più ne ha più ne metta. Siamo senza speranza?
«Come sempre accade dopo una crisi, dalla vicenda Xylella possiamo imparare tanto. Una cosa che dobbiamo imparare in fretta è che il paesaggio non è immutabile nel tempo ma si trasforma a seconda di decisioni nostre. Ad esempio, la monocultura dell’olivo prima non c’era e il paesaggio del Salento era composto da querce, lecci, frassini… Tutti abbattuti per darci all’economia dell’olio rampante e dell’olivo. Adesso l’olivo, almeno quello monumentale, ha ceduto il passo per mano di una fitopatia e, direttamente o indirettamente, degli uomini. Il paesaggio è sempre in evoluzione, fondamentale è provare a renderlo più resiliente possibile».
Giuseppe Cerfeda
Approfondimenti
Xylella: Il fuoco invisibile
Lo scrittore del libro tra i 12 finalisti del Premio Strega 2024, Daniele Relli: «Necessario ricostruire la fiducia fra mondo scientifico, istituzioni e popolazione Con un po’ più di fiducia nei ricercatori, forse, non saremmo arrivati a questo punto»
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Un dramma ecologico e sociale raccontato in un incalzante romanzo a più voci.
È quello che fa Daniele Rielli in “Il fuoco invisibile” (tra i 12 finalisti del Premio Strega 2024), cercando di capire cosa è accaduto agli ulivi della sua famiglia originaria di Calimera, ricostruendo le vicende legate all’arrivo della Xylella, il batterio che ha causato la più grave epidemia delle piante al mondo.
Tutto inizia a Gallipoli, quando gli ulivi cominciano a seccare e morire in un modo mai visto prima. Si mette in moto un vortice di avvenimenti che prende velocità fino a diventare inarrestabile.
Almeno 21 milioni di ulivi, tra cui molti alberi secolari e millenari, un patrimonio insostituibile, sono morti.
È come se l’intero Salento fosse stato bruciato da un gigantesco fuoco invisibile.
Nell’incipit della nostra intervista Daniele Rielli racconta come è nata l’esigenza di scrivere “Il fuoco invisibile”: «Mio nonno a Calimera era un olivicoltore. All’arrivo della Xylella mio padre, anche se di mestiere ha fatto altro dopo essersi traferito al nord ed aver conosciuto mia madre, ne è rimasto assai turbato. Così il dramma che ha colpito tutto il Salento è stato vissuto anche nella nostra casa su al nord».
Ecco spiegato cosa ha spinto lo scrittore, nato a Bolzano e residente a Roma, ad occuparsi di quanto avveniva nel Salento.
Quali sono i temi de “Il fuoco invisibile”?
«Il libro racconta la storia di quello che è successo attraverso, in primis, la nostra vicenda familiare. Poi il racconto si espande ai vari protagonisti della vicenda. Quindi ai ricercatori, che hanno scoperto la malattia e sono stati ingiustamente accusati per alcuni anni di averla diffusa. Accusa pesante e, ovviamente, non vera ma che, sulle loro vite, ha avuto un effetto molto, molto grave. Lo racconto perché sono persone che ho conosciuto in questi anni: persone per bene ed anche molto brave nel loro lavoro. Questa è una pagina nera della giustizia in Italia. Ho conosciuto anche tante persone che hanno cercato di fare qualcosa per contrastare l’emergenza. Penso, ad esempio, a Giovanni Melcarne, di Gagliano del Capo, uno dei produttori d’eccellenza del Salento che ha sempre cercato di portare l’opinione pubblica su posizioni un po’ più vicine alla scienza. Questo, quando, all’inizio, sia tra la popolazione che tre le istituzioni, si sosteneva che la malattia non fosse così grave o che, addirittura, non esistesse affatto, che fosse un complotto. Giovanni è una di quelle persone che, invece, ha sempre tenuto la barra dritta e ha cercato di trovare soluzioni concrete. Melcarne è uno dei protagonisti del libro così come tanti altri. Ho cercato di fare un po’ la geografia umana di questo disastro, dando voce a tanti che non avevano avuto occasione di parlare. Tanto hanno, invece, parlato i politici, che spesso, però, non hanno detto le cose giuste. Mentre persone più capaci non hanno avuto voce in capitolo».
Hai parlato di processo alle streghe…
«Una delle reazioni tipiche nella storia dell’uomo è quella di cercare qualcuno a cui dare la colpa di fronte alle epidemie, alle malattie inaspettate. Questo è quello che nel Salento è successo con gli scienziati a livello collettivo prima che giudiziario. Tali credenze, diffuse prima sui social e poi tra la popolazione, hanno ricordato un po’ la caccia alle streghe. Alla fine, per fortuna, è stato dimostrato che i ricercatori avevano fatto solo il loro lavoro ed anche bene».
Dopo aver ascoltato le parti in causa, gli addetti ai lavori, che idea ti sei fatto personalmente di tutta questa vicenda?
«Sicuramente è stata un’occasione persa. Ora esiste un programma di contenimento che costa anche tanti soldi, ma è giusto che ci sia. Il fatto è che, ormai, su un territorio talmente diffuso diventa difficile pensare di contenere l’epidemia in maniera efficace mentre, all’inizio, si trattava di un territorio molto ristretto, tra l’altro circondato su tre lati dal mare, e si poteva tentare seriamente di contenere e di debellare la malattia. Questo non è stato fatto per una serie di errori umani ed è un peccato perchè l’Italia avrà che fare nei prossimi decenni con questo batterio che ha causato tanti danni e continuerà a causarne. Cosa che si poteva evitare».
Come pensi finirà tutta questa storia?
«Per il Salento è già finita e bisogna pensare al capitolo successivo: piantare delle varietà resistenti e ricostruire, almeno in parte, l’agricoltura. Poi diversificare perché la monocoltura, dal punto di vista ambientale, non è il massimo e, soprattutto, espone a dei rischi. Aver avuto due sole cultivar, la “Cellina” di Nardò e la “Ogliarola Salentina”, sul 60% del territorio, ha posto un problema di biodiversità e l’arrivo di un patogeno, che ha attaccato quelle due varietà, ha messo in ginocchio tutto il Salento. Non sarebbe accaduto se ci fossero state coltivazioni diverse. Ora si dovrà recuperare una parte di olivicoltura per mantenere viva una tradizione secolare, al contempo, cercare nuove culture da affiancare all’ulivo. Questo per quanto riguarda il Salento. Per il resto della Puglia e, in prospettiva, il resto d’Italia, bisogna cercare di contenere seriamente, nella speranza che arrivi al più presto una cura definitiva contro questo batterio. Prima o poi si arriverà, bisogna solo capire quando».
Oggi si discute del fatto che il Leccino, la varietà resistente alla Xylella su cui si sta puntando, a differenza degli ulivi nostri di una volta, necessiti di tanta acqua, che noi non abbiamo…
«Con le coltivazioni storiche d’ulivo salentine, era problematico fare un olio di qualità perché erano alti e molto grandi. Quindi era difficile raccogliere le olive dall’albero o, meglio, era molto costoso. Quindi si tendeva a produrre un olio lampante, aspettando che le olive cadessero, a discapito della qualità dell’olio. Con quegli alberi era difficile fare diversamente. Ora, con delle piante più piccole, con delle coltivazioni impostate in maniera diversa, sarà più facile produrre olio di qualità anche se, effettivamente, consumano più acqua… Si guadagna da un lato, si perde dall’altro. Da considerare anche che se per la produzione precedente occorrevano 90mila ettari, oggi con delle piante giovani si può arrivare alla stessa produzione e di qualità migliore con 20-25mila ettari».
Daniele Rielli si congeda con un auspicio per il futuro: «L’eredità di questa storia dovrebbe essere un rapporto migliore tra opinione pubblica e comunità scientifica. Spero si sia capito, ad esempio, che quello che può dire un ricercatore in pensione, non è necessariamente l’opinione dell’intera comunità scientifica. Bisogna andare a vedere qual è il consenso diffuso su un argomento. Quello sulla Xylella è sempre stato lo stesso, sin dall’inizio. Purtroppo, sono stati molti amplificati i pareri di pochissime persone che davano delle false speranze, sostenendo tesi non fondate. E questo ha avuto un costo importante. A mio avviso è necessario ricostruire la fiducia fra mondo scientifico, istituzioni e popolazione. Con un po’ più di fiducia nei ricercatori, forse, non saremmo arrivati a questo punto».
Giuseppe Cerfeda
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