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Islam, l’altra metà della fede

Musulmani in Salento, Pochi luoghi di culto per una fede relegata ancora alle zone d’ombra ed all’autogestione. L’imam di Lecce: «Coltiviamo la convivialità delle differenze». E poi: «Chi sceglie di vivere in Salento sa che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria e separarsi per sempre dai propri cari, a causa dell’assenza di uno spazio cimiteriale islamico»

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di Lorenzo Zito


Non esiste un dato esatto in grado di dirci quanti siano i musulmani in provincia di Lecce; tuttavia, la comunità islamica salentina è in crescita.


L’ultimo censimento risale al 2014, ma resta non del tutto attendibile: all’epoca, furono conteggiati i cittadini provenienti da Paesi islamici e soggiornanti Salento.


Un dato non proprio ortodosso, visto che la provenienza di per sé non rappresenta un passaporto del credo. Sta di fatto che il numero, stabilito in 22mila fedeli, era già di per sé considerevole.


Ci ha parlato di questo dato Saifeddine Maaroufi, imam della comunità islamica di Lecce.


A lui ci siamo rivolti per analizzare la presenza e la vita musulmana in Salento.


Partendo da un punto di domanda: come mai se negli ultimi anni gli arrivi di stranieri sono aumentati (questo sì, lo raccontano i numeri) e molte famiglie musulmane si sono stabilizzate sul territorio, i luoghi di culto continuano ad essere pochi, insufficienti, piccoli e spesso improvvisati?


Facciamo prima un passo indietro, partendo dalla figura dell’imam di Lecce.


Signor Maaroufi, come è iniziata la sua storia in Salento?


«Sono a Lecce da 13 anni, nonostante la mia permanenza sia iniziata quasi per caso. Sono tunisino, vengo da una formazione medica ed ho studiato anche scienze religiose. Durante gli studi, in Tunisia, lavoravo in un call center. Un giorno fui mandato in Italia per fare da formatore ai nuovi operatori che avrebbero lavorato nella nuova sede dislocata di Lecce. Mentre ero qui, in Tunisia scoppiò la Rivoluzione dei Gelsomini, che mi impedì di fare rientro a casa. Da allora mi stabilizzai a Lecce. In seguito, mi ha raggiunto anche la mia famiglia e poi, da un dialogo con la comunità islamica locale, complici i miei studi in scienze religiose, nel 2011 fui scelto come guida spirituale di Lecce».


Chi non conosce la figura dell’imam la immagina un po’ come un vescovo. È corretto?


«Spesso ho riscontrato anch’io come venga fatto questo accostamento, nel tentativo di provare a comprendere meglio questo ruolo. In realtà è qualcosa di diverso, perché nell’Islam non c’è un Clero con una sua struttura gerarchica. Per questo accade che nei Paesi arabi le moschee sono sotto la tutela dello Stato, ed anche il ruolo dell’imam passa da un controllo in un certo senso istituzionale.

Nei Paesi occidentali, come l’Italia, invece, dove tutto questo manca, la scelta dell’imam spetta alla comunità ed è molto legata alle sue conoscenze in ambito religioso. Nel mio caso, poi, pesò anche il fatto che fossi in grado di parlare più lingue, un elemento importante in un territorio che raggruppa fedeli di provenienza eterogenea. Tornando al paragone con la Chiesa va specificato che, nonostante io venga spesso sollecitato a rappresentare pubblicamente la comunità musulmana di tutta Lecce e provincia, non esiste una regola che preveda un ruolo di questo tipo o delle posizioni di subordinazione nei confronti della mia figura».


Qual è la geografia dei luoghi di culto islamici in provincia di Lecce?


«Le moschee presenti in provincia, fuori dalla città di Lecce, sono quattro. Tutte prevalentemente frequentate da fedeli di origine marocchina, infatti la loro esistenza è legata proprio alla presenza di grandi nuclei marocchini che popolano ormai da decenni questi territori. La più vecchia è a Corigliano d’Otranto. Una stanza molto piccola ma che resiste al passare del tempo: è stata aperta negli anni ’80. Un’altra è a Ruffano, dove da lungo tempo si sono stabilizzate tante famiglie di commercianti, anch’essi marocchini. Poi c’è Spongano, paese dove vivono tanti fedeli musulmani impiegati nel mondo dell’edilizia. Qui l’integrazione è passata dal mondo dello sport, attraverso un lungo percorso partito negli anni ‘90 con un’associazione il cui nome, in italiano, significa “I giovani”. Ed infine la moschea di Porto Cesareo, che in questo momento si è trasferita a Veglie. Quest’ultima ha una peculiarità: essendo legata alla natura turistica del luogo, in estate accoglie tanti fedeli che arrivano sul posto per lavorare come venditori ambulanti. A Lecce invece esistono due moschee. Una è nata da poco, sia per dare risposta alla grande richiesta di luoghi di preghiera (i musulmani in città sono circa 7mila) sia per servire una zona scoperta. L’altra è quella in cui mi sono insediato io nel 2011.

Al mio arrivo eravamo in una piccola sala, in uno spazio concesso dal Comune nella zona 167/B. Nel 2014, con un’apposita colletta, abbiamo raggiunto i fondi necessari ed acquistato una palazzina a due piani nel quartiere San Pio.

La nostra moschea oggi è qui: abbiamo scelto questa zona perché è il quartiere multietnico per eccellenza di Lecce e volevamo essere il più possibile vicini alla comunità musulmana.

Abbiamo una grande sala di preghiera, una sala per le donne, dedichiamo degli spazi ai corsi di lingua araba per bambini ed apriamo le porte anche a chi professa altre fedi, per favorire la conoscenza reciproca. Durante il Ramadan, ogni sera accogliamo circa 70 fedeli che vengono a rompere il digiuno in compagnia».


Come mai ci sono così poche moschee sul territorio?

«La presenza di una moschea è legata alla spontanea iniziativa dei cittadini di fede musulmana. Il contesto non sempre aiuta a compiere questo passo, soprattutto dal punto di vista burocratico. La nostra religione non è riconosciuta ufficialmente dallo stato, nonostante in Italia vi siano oltre 2 milioni di musulmani (quasi la metà italiani). Questo ha delle conseguenze pratiche che vanno, ad esempio, dal non potersi assentare dal lavoro per celebrare i giorni di festa islamici, perché non riconosciuti, al dover utilizzare canali non convenzionali per praticare le attività di culto. Accade allora che, proprio per quanto detto, le moschee sul territorio nascono dall’impegno di associazioni fondate musulmani che però, su carta, sono costrette ad avere finalità diverse da quelle reali, agendo in una sorta di zona grigia».


Le istituzioni locali aiutano? Le amministrazioni vengono incontro alla comunità islamica?


«Non sempre, o non abbastanza. Prevale l’ottica utilitaristica. Troppe volte si sente dire “quanti sono i musulmani che votano nella nostra città?”.

Senza il voto, non si ha peso civile nelle scelte e viene meno l’ascolto delle istituzioni. Anche molte amministrazioni che condividono quelle idee che vengono incontro ai bisogni della comunità islamica finiscono per non far nulla, per paura di esporsi a critiche. Per fortuna, l’apertura mentale dei salentini compensa, mantenendo questa una terra d’accoglienza».


Come vivono in Salento i cittadini stranieri musulmani?


«La “convivialità delle differenze” professata da Don Tonino Bello ha fatto breccia nel cuore dei salentini, che da decenni accolgono i fratelli musulmani che arrivano da ogni dove.

Ricordo gli anni in cui gli attentati terroristici nelle grandi città europee avevano seminato panico e islamofobia: anche allora i salentini ci sono stati vicini, perché hanno imparato a conoscere le persone. Il fatto stesso che non esistano quartieri ghetto nel nostro territorio è segno e strumento di convivialità.

Lo straniero qui è il vicino di casa o il commerciante del mercato cui ci si rivolge ogni settimana. Non è un caso se tante famiglie straniere hanno messo radici in Salento, fermando qui quel viaggio migratorio che molte volte prosegue verso il nord Europa o, ancora, spegnendo il sogno del rientro in patria».


Lontano da casa, arrivati qui in Italia, come cambia il rapporto con la fede? Si affievolisce o aumenta?


«Molto spesso cresce. È come se fosse un tratto identitario che, a maggior ragione lontano dalla propria terra, i fedeli vogliono preservare. Vedo tanti giovani avvicinarsi molto di più alla fede dopo esser arrivati in Italia. Questo è uno degli elementi che, qui in Salento, ha reso la

nostra una comunità religiosa salda».


E il rapporto con la Chiesa cattolica?


«È ottimo, c’è un bel dialogo. La Chiesa è impegnata anche nelle attività di prima accoglienza, e questo è un elemento che genera un proficuo contatto sin dall’arrivo del migrante».


Cosa manca, cosa cambieresti sul lato pratico e su quello umano?


«Su quello umano coltiverei ancora l’ascolto per incentivare ulteriormente la vicinanza tra le comunità.

Su quello pratico ci sarebbe molto da fare. Partirei sicuramente dalla possibilità di avere uno spazio cimiteriale islamico. A Lecce e provincia non ve ne sono. Il più vicino è nel Barese. È una grande mancanza che si porta dietro un grande dolore per le famiglie musulmane. Chi sceglie di vivere in Salento lo fa nella consapevolezza che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria. Questo, oltre a comportare delle spese elevate e delle procedure non semplici, significa doversi separare per sempre dalla propria famiglia che ha messo radici in questa splendida terra».


L’Islam e il Salento, l’analisi del prof. Hervé Cavallera, clicca qui


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Sempre più violenza in tv, ma è davvero necessaria?

Anzi, a voler sottilizzare si potrebbe dire che l’impressione di una crescente violenza è accentuata dal richiamo che ne fanno i media in modo da avere un maggior numero di lettori o ascoltatori….

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di Hervé Cavallera

Chi segue i mezzi di comunicazione nazionali si rende facilmente conto che una delle caratteristiche dei nostri giorni è, purtroppo, la violenza.

Prof Hervè Cavallera

E in questa sede non si allude a quella della criminalità organizzata, ma a quella che si manifesta nelle mura domestiche e nei gruppi giovanili.
Le cronache nazionali riportano una serie di delitti efferati tra coniugi o compagni separati o in via di separazione, tra genitori e figli, tra adolescenti. E non si può che rimanere stupiti di fronte ad episodi di estrema crudeltà, spesso lucidamente concepiti.
In una società altamente scolarizzata, ricca di una cultura millenaria e intrisa della religione dell’amore quale è quella cristiana, il ricorso all’assassinio per un dissapore pur grave non può che suscitare sgomento.
Certo, si potrebbe osservare che nel libro della Genesi la storia del mondo comincia con l’assassinio di Abele da parte di suo fratello Caino, ma ciò serve, anche per la conseguente condanna divina, ad imprimere nel lettore il senso di non dover commettere il peccato.
E sia la religione sia il diritto hanno da sempre condannato chi ricorre alla violenza, anche se le violenze ci sono sempre state.
Anzi, a voler sottilizzare si potrebbe dire che l’impressione di una crescente violenza è accentuata dal richiamo che ne fanno i media in modo da avere un maggior numero di lettori o ascoltatori.
La cronaca nera attira l’attenzione e indubbiamente vi è un consistente dilungarsi sugli eventi sanguinari. Il che non è propriamente bene, perché potrebbe generare emulazione o rendere consuetudinario ciò che invece dovrebbe essere un fatto lontano dalla norma ed esecrabile.
Insomma, è doveroso dare la notizia, ma non è del tutto utile soffermarsi a lungo e sui dettagli, e soprattutto è opportuno sottolineare la gravità dell’accaduto in modo da farlo respingere da ogni animo.
Ma – e si ritorna al punto – è davvero tanto cresciuta la violenza nei comportamenti umani?
Ora, secondo i dati ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica), l’Italia non è tra i Paesi europei in cui accadono più omicidi. Nel 2021 l’Italia occupava, per omicidi, il ventiduesimo posto (0,51 omicidi per 100mila abitanti) tra i 27 Paesi dell’Unione Europea.
Nel 2023 il tasso di omicidi ha registrato un leggero aumento rispetto al 2021 (0,52 per 100 mila abitanti) e pare non sia cresciuto nell’anno in corso.  Il che potrebbe servire non dico a tranquillizzarci, ma almeno a sapere che la nostra Italia non è il paese europeo con maggiori assassini.
Il fatto poi che ai delitti venga dato grande risalto può dipendere sia dal fare notizia di per sé sia anche da una intrinseca consapevolezza della gravità dell’atto. Se ne parla perché non si può tacere della presenza della violenza, dell’errore, del male.
Se ne parla perché si comprende che occorre comunque porvi rimedio, al di là degli interventi della legge che sono sempre – e ovviamente – a posteriori, ossia vengono dopo il fattaccio. Di qui il bisogno di ripensare in maniera più articolata e incisiva il ruolo dei consultori familiari.
Vero è che il senso di violenza si percepisce anche in episodi apparentemente secondari.
Basti pensare ad insegnanti picchiati dai genitori degli alunni e ai medici picchiati dai pazienti (che – permettendomi un gioco di parole – pazienti non sono). Vi è cioè la sensazione di un disordine sociale in aumento, anche nei movimenti di piazza.
E il discorso riguarda allora qualcosa di più profondo che è poi il malessere della società contemporanea in cui la velocità e la facilità della comunicazione (aspetti in sé positivi se usati con oculatezza) producono una sovrapposizione di piani in cui tutto si mescola e il vero convive con il falso, il necessario con il superfluo, la competenza con l’opinione.
La possibilità di uscire dal guazzabuglio esistenziale del presente non può che trovarsi allora nella riconsiderazione delle competenze e nel rispetto del prossimo.
Quest’ultimo è l’elemento indispensabile che consente in primo luogo, secondo i dettami della religione e del diritto, la convivenza civile.
Rispettare il proprio prossimo diventa l’imperativo categorico del presente se non si vuole scivolare in una anarchia di sentimenti che si tramutano poi nella follia della violenza.
E accanto a questo l’attenzione, conseguente, per le competenze in modo che i social non costruiscano ingannevoli idoli o attese fuorvianti.
In fondo, si tratta di riaffermare la diffusione della ragione e della consapevolezza, ma il buon senso non sempre è di questo mondo.
Si tratta di un discorso solo apparentemente semplice perché intende recuperare in una società sempre più materialistica, relativistica e individualistica il senso della comunità, la quale significa condivisione e rispetto, e che da tempo immemorabile è stato compito della famiglia e della scuola, istituzioni determinanti per lo sviluppo di personalità responsabili.
E se oggi si assiste ad una diffusa violenza dipende anche dal fatto che le due istituzioni per diversi motivi attraversano un momento difficile.
Non a caso la scuola è talvolta considerata come una mera azienda produttrice di titoli, mentre nella vita di coppia spesso al matrimonio si sostituisce l’unione e aumenta in maniera preoccupante la denatalità.
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Come permutare un iPhone: 5 cose da sapere

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iPhone 13

Chi ha un iPhone difficilmente cambia tipologia di cellulare. Sarebbe, infatti, come passare da un pc della Apple a uno con sistema Microsoft, a fronte di circuiti che vedono logiche opposte e a cui adattarsi può non essere semplice.

Qualcosa di simile accade quando un italiano guida l’automobile in Inghilterra, dove il senso di marcia è opposto a quello del Belpaese, ovvero a sinistra, per utilizzare una metafora.

Pertanto, il prezzo dello smartphone prodotto dalla società resa iconica da Steve Jobs è generalmente tutt’altro che irrilevante. Una soluzione per ovviare a tale condizione però c’è ed è quella di avvalersi di un servizio di permuta iPhone con cui poi acquistare un apparecchio ricondizionato. Oggi vi raccontiamo di cosa si tratta, soffermandoci su 5 curiosità in particolare.

Il significato della parola “permuta”

Partiamo dal significato della parola permuta: sapete infatti cosa vuol dire? Per cercare di spiegarci nel modo migliore possibile abbiamo deciso di prendere in prestito la definizione offerta dal Vocabolario Treccani:

“Contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all’altro”.

Nel caso dell’iPhone, quindi, si assiste alla cessione del vecchio modello che si desidera cambiare, così da risparmiare sull’acquisto di uno nuovo.

Quale iPhone acquistare in seguito alla permuta

La permuta dell’iPhone può rivelarsi interessante sia per coloro che stanno valutando di ottenere un modello nuovo di pacca sia per quanti considerano l’opzione di avvalersi di modelli ricondizionati, detti anche rigenerati.

Si tratta di una soluzione che presenta diversi vantaggi, complice il fatto che si ha la possibilità di accedere a modelli usati riportati alla condizione originaria grazie a test e interventi di ripristino effettuati da professionisti specializzati. In sintesi, possiamo affermare che gli iPhone rigenerati sono economici, performanti e sottoposti a garanzia.

Perché la permuta di iPhone conviene

La permuta si traduce in genere in uno scambio di telefono, consentendo di ottenerne uno nuovo o ricondizionato – più performante quindi – a condizioni più favorevoli, in termini economici e non solo.

Inoltre, permette di “sbarazzarsi” del vecchio cellulare ricavandone qualcosa e sapendo di adottare un comportamento favorevole per l’ambiente, massimizzando l’investimento e avviando delle operazioni di riuso e riciclo.

Quando conviene permutare un iPhone?

Premesso che la permuta dell’iPhone rappresenta sempre una soluzione interessante, ciò risulta valido soprattutto se lo smartphone versa in buone condizioni, sia nelle parti hardware che in quelle software. Per intenderci, se la custodia è rigata varrà meno di una che non lo è.

Si può pensare che per i telefoni più usurati ci sia qualche chance di ricavare qualcosa di più dalla vendita a privati, ma non è detto che ciò effettivamente si verifichi. La permuta rimane comunque l’opzione che offre maggiori sicurezze.

A chi rivolgersi

Sono diversi i portali e gli store in presenza che effettuano un servizio di permuta per quanto riguarda l’iPhone. Il consiglio è quello di affidarsi a una realtà specializzata e affidabile, nella quale lavorano dei professionisti qualificati e da cui magari accedere a condizioni favorevoli per il nuovo acquisto. Cosa che avviene soprattutto nel caso dei prodotti rigenerati.

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Andrano

Xylella: La morte dei giganti

L’autore, Stefano Martella: «La storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e, di conseguenza, alla distruzione paesaggistica, culturale, economica»

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Con “La morte dei GigantiStefano Martella, giornalista (Quotidiano di Puglia) di Andrano, ha ripercorso le fasi che hanno portato alla quasi desertificazione del Salento.

Dopo aver sondato le motivazioni che hanno spinto la magistratura a mettere sotto inchiesta gli stessi scienziati che hanno scoperto il microrganismo patogeno, il volume mostra come la popolazione si sia divisa in due fazioni contrapposte: chi era convinto che la pianta si potesse salvare e chi la reputava spacciata; chi credeva nelle tesi della scienza e chi invece che sia stato ordito un complotto diabolico.

È stato il primo libro dedicato all’argomento ad essere pubblicato. Nasce nel 2022 e, dal volume, è stato tratto un docufilm (“Il tempo dei giganti” diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, prodotto da Dinamo Film e Fluid Produzioni con il contributo di Apulia Film Fund di Apulia Film Commission e Regione Puglia. È stato girato tra Bari, Valle d’Itria, Alliste, Erchie, Lecce, Brindisi, Otranto e Castellana Grotte) che ha ricevuto il consenso unanime di critica e pubblico oltre che numerosi premi.

Come è nata l’idea di questo libro?

«In modo molto semplice: da salentino avevo la contezza di trovarmi al centro di uno dei cambiamenti più importanti della storia dell’homo sapiens. Il Salento ha, aveva, milioni di ulivi millenari, cioè risalenti all’epoca in cui Nerone si suicidò pugnalandosi alla gola o che il Vesuvio seppellì Pompei. Pensare che abbiano deciso di morire nella nostra epoca, è un evento di portata storica. Da giornalista, ritrovandomi nell’epicentro di quanto stava accadendo ho avuto la certezza di essere al centro di un cambiamento epocale. Così come per un cronista per il crollo del muro di Berlino o nel cuore del Vietnam durante la guerra con gli Stati Uniti. Mi sentivo testimone ed osservatore di un grande cambiamento della storia. Era necessario, a mio parere, mettere tutto in un libro provando a fare un’operazione di carotaggio».

In che senso?

«Distanziandomi dalle due grandi curve che si erano create, ovvero una che sosteneva che la Xylella è inguaribile, l’altra invece che si può debellare. Due tifoserie opposte che si urlavano contro senza dialogarsi».

Quali sono i temi centrali trattati? 

«Innanzitutto, la simbiosi tra un popolo ed una pianta, un albero. Gli alberi sono da sempre, a tutti gli effetti, pezzi fondamentali della cultura e dell’identità dei popoli. Quindi raffronto le radici antropologiche e spirituali, culturali, storiche di questa pianta con la popolazione salentina, analizzo le origini dell’arrivo del batterio sul territorio e le falle all’interno del sistema di controllo fitosanitario europeo. Faccio un excursus storico su quali siano state le malattie delle piante nella storia. La Xylella non è un fatto del tutto eccezionale ma una delle tante patologie che hanno sconvolto l’esistenza degli uomini. Analizzo la psicosi che si è instaurata all’interno delle persone, quasi fosse uno shock post traumatico, analizzo anche le reazioni più assurde, grottesche e traumatiche che le persone hanno iniziato a mostrare quando gli alberi hanno iniziato a morire. Analizzo le lotte sociali che le donne salentine, le raccoglitrici di olive hanno fatto per emanciparsi da un sistema schiavista, che era quello dell’economia dell’olio rampante. Va ricordato che il Salento era il più grande produttore di olio rampante d’Europa. Il primo anello di questo grandissimo comparto erano proprio le “schiave”, le donne salentine. Un altro capitolo è dedicato alla famosa teoria del complotto».

Hai parlato con tante persone per la tua ricerca, per il libro, ma anche dopo, nei diversi incontri a cui hai partecipato. Che idea ti sei fatto di tutta la vicenda? 

«Che da salentini ci siamo svegliati tardi e tardi ci siamo resi conto che questa pianta non era immortale. Avevamo dato per scontato che questa pianta, lì da millenni, potesse vivere per sempre. Sotto certi aspetti aveva sconfitto la più grande condanna per gli uomini, cioè il tempo. Mentre le persone nascevano, consumavano la loro vita fino alla fine dei loro giorni, gli ulivi rimanevano. Diventavano un grande lascito, da generazione in generazione, creando una grande memoria collettiva e divenendo un tratto identificativo del Salento. Tutto questo è originale sotto certi aspetti. Per la prima volta l’uomo si è scoperto a provare dei sentimenti nei confronti delle piante. Siamo sempre stati abituati, come specie a provare dei sentimenti per la morte di parenti, amici o comunque di appartenenti alla nostra specie. Da qualche tempo avevamo già sentimenti nei confronti degli animali di affezione. Le piante erano invece considerate un po’ come la carta da parati del mondo. Tale sentimentalismo nei confronti degli alberi ci fa comprendere come la nostra stessa esistenza sia in realtà legata al destino delle piante. Ritengo, poi, ci sia ancora molto da lavorare nell’ambito della comunicazione scientifica. Il mondo della scienza è una grande conquista della civiltà occidentale. I ricercatori, nostri scienziati sono una risorsa fondamentale nella nostra civiltà. Mai come in questo periodo c’è stata comunicazione scientifica. Allo stesso tempo, però, mai come in questo periodo aumentano le teorie antiscientifiche. Anche questa è una chiave da analizzare, perché l’epidemia è una cosa scientifica. Xyella è poco precedente, per esempio, all’arrivo del Covid ed anche in quel caso sono nate teorie del complotto. Teorie che, banalmente, rivedo anche nell’altra classica questione identitaria del Salento, il ritorno del lupo sul nostro territorio. Stanno nascendo teorie cospirative che vogliono il lupo non arrivato spontaneamente, ma portato da qualcuno che aveva non meglio precisati torbidi interessi».

Secondo te come andrà a finire tutta questa storia? Come si potrà chiudere il cerchio? 

«Partendo da un dato di fatto: la monocoltura, è stata un errore storico. Non potevamo certo prevedere quanto accaduto, ma la storia ci insegna che le monoculture hanno sempre esposto le civiltà a una fitopatia e di conseguenza alla distruzione paesaggistica, culturale, economica. Quindi il futuro dovrà passare da una diversificazione culturale e anche dalla riscoperta di antiche culture che la monocultura dell’olivo aveva castrato. Altro aspetto importante, a proposito di riforestazione, è il cambiamento climatico, di cui il Salento è hotspot, cioè un luogo, all’interno del Mediterraneo, dove le mutazioni climatiche sono più evidenti, accelerate e più forti. Quindi, qualsiasi ragionamento dovrà tenere conto che la nostra è una terra che sta andando verso un clima molto diverso rispetto a quello del passato».

Con annessi e connessi: emergenza incendi, disboscamento, inquinamento e chi più ne ha più ne metta. Siamo senza speranza?

«Come sempre accade dopo una crisi, dalla vicenda Xylella possiamo imparare tanto. Una cosa che dobbiamo imparare in fretta è che il paesaggio non è immutabile nel tempo ma si trasforma a seconda di decisioni nostre. Ad esempio, la monocultura dell’olivo prima non c’era e il paesaggio del Salento era composto da querce, lecci, frassini… Tutti abbattuti per darci all’economia dell’olio rampante e dell’olivo. Adesso l’olivo, almeno quello monumentale, ha ceduto il passo per mano di una fitopatia e, direttamente o indirettamente, degli uomini. Il paesaggio è sempre in evoluzione, fondamentale è provare a renderlo più resiliente possibile».

Giuseppe Cerfeda

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