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Attualità

Andrà tutto bene: il messaggio del vescovo di Ugento

Mons. Angiuli: “Speranza certa, che ci viene dal cielo, “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. La pandemia del coronavirus è causa di un pianto che ha coinvolto tutta l’umanità. Non era mai accaduta una catastrofe di tali proporzioni”

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Cari  amici,


lo so che è difficile comprendere e spiegare le parole di Gesù: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Fa parte del linguaggio paradossale del Vangelo. Ma, a pensarci bene, non è la beatitudine del pianto disperato e triste, ma del dolore accompagnato e consolato.


Anche per la Sacra Scrittura “piangere” è un sentimento umano che sgorga spontaneo nel cuore, a motivo della sofferenza o della morte di una persona amata. Così Giacobbe piange quando gli riferiscono che il figlio prediletto, Giuseppe, era stato divorato dalle belve (cfr. Gn 37,34). L’intero popolo di Israele cade in pianto per il sopraggiungere di un grande flagello (cfr. 1Sam 6,19; Ne 1,1-4). Gli amici e la sposa piangono quando lo sposo si dilegua (cfr. Mt 9,15). Per tutti, basti pensare al pianto di Gesù per l’amico Lazzaro, morto e sepolto già da quattro giorni (cfr. Gv 11,  17.39).


Il pianto ha molti volti, molte cause, molte forme. Il dolore pervade il cuore e fa sgorgare le lacrime dagli occhi. In verità, il pianto di Gesù non è causato solo dalla morte fisica, ma anche da quella procurata dal peccato. Anche san Paolo, vede il pianto in funzione catartica per esprimere il dolore di chi desidera slegarsi dalle catene del peccato (cfr. 2Cor 12,21). Piange chi si rende conto che il proprio errore ha comportato l’allontanamento da Dio (cfr. Gc 4,8-9).


La pandemia del coronavirus è causa di un pianto che ha coinvolto tutta l’umanità. Non era mai accaduta una catastrofe di tali proporzioni. Il contagio si è progressivamente diffuso in tutto il mondo, provocando conseguenze drammatiche in tutti i paesi. Ora che siamo tutti sotto questa furiosa tempesta che si è abbattuta sull’intera umanità, si mostra la vacuità del detto: «Mal comune, mezzo gaudio».  Questo flagello ha provocato sofferenze e dolore nei singoli, danni economici e problemi sociali e ha evidenziato frizioni e dissidi tra gli Stati.


Ora, in tutto il mondo, si piange per coloro che muoiono senza poter avere la consolazione della vicinanza dei propri familiari. Si soffre per tutte quelle persone anziane che vivono nelle case di riposo, divenute luoghi di forzato internamento e di contagio per l’inevitabile vicinanza tra le persone. Si geme per il fatto che la malattia porta alla morte anche persone giovani, addirittura bambini di pochi anni, se non di pochi mesi. Ci si addolora per tutti quei medici, infermieri e operatori sanitari che contraggono la malattia nell’esercizio della loro professione fino, talvolta, a morire prima dei loro pazienti.


La beatitudine evangelica, però, non parla solo di pianto, ma anche di consolazione e di conforto (cfr. Gn 37,35). Spinge a rincuorare gli afflitti e i depressi (cfr. 2 Cor 7,6), a infondere coraggio in coloro che sono scoraggiati e perplessi (cfr. 1 Ts 3,2). Anche l’apostolo Paolo, dopo un momento di profonda crisi, comprende che lo scopo della vita consiste nell’annunciare e testimoniare a tutti la “consolazione di Dio”.


Bisogna avere però lo stesso cuore di Cristo. Egli vede il dolore e ne ha compassione. Non è spettatore, ma partecipe delle tragedie umane; non è osservatore, ma compagno nel cammino. Non risponde verbalmente alla sofferenza, ma è vicino alla persona che piange. Soffre egli stesso, assume su di sé il dolore del mondo e, in modi diversi e misteriosi, aiuta tutti ad affrontarlo. Sa, per esperienza personale, che il dolore può anche togliere il respiro fino a soffocare il corpo e a intristire l’anima (cfr. Mc 14,34). Comprende che può rubare la gioia e perfino la fede, trasformando i viventi in morti che camminano.


Gesù riconosce che il pianto è la risposta del cuore di fronte ad una situazione difficile. Dal dolore non si scappa. Ma sa anche il dolore può portaci a Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (2Cor 1,3). Egli, infatti, «ci consola in ogni nostra tribolazione, affinché possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque tribolazione con quel conforto con cui siamo confortati noi stessi da Dio» (2 Cor 1,4). La consolazione piena è quella che si sperimenterà in cielo. La vita in Dio, infatti, sarà ricolma di profonda consolazione come racconta la parabola del mendicante Lazzaro che sta nel seno di Abramo, dopo aver vissuto tante sofferenze durante la vita terrena (cfr. Lc 16, 26).


Anche su questa terra c’è spazio per essere “angeli della consolazione”. In tal caso, chi soffre ed è nel pianto e chi si accosta a lui come buon samaritano sono sfiorati da un leggero soffio divino che dona un benefico ristoro al corpo e all’anima. In questa prospettiva, le parole di Benedetto XVI risuonano in tutta la loro verità: «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana […]. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine […]. Soffrire con l’altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della giustizia; soffrire a causa dell’amore e per diventare una persona che ama veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali distruggerebbe l’uomo stesso» (Benedetto XVI, Spe salvi, 38-39).


Dal dolore si può uscire e si può sperimentare la consolazione di Dio e degli uomini: quella che voi, cari medici, infermieri e operatori sanitari state portando nelle corsie e nelle stanze dei vostri ospedali e delle case di cura. Il vostro aiuto serve a guarire il corpo, ma anche a far rinascere la speranza in chi si ripiega sul proprio dolore, si tormenta e cerca di scoprire il senso della sua sofferenza.


Siete “ministri di consolazione e di speranza”. Con la vostra opera, riuscite a rendere feconda anche la sofferenza. Spesso, le doti più preziose come la pazienza, l’umiltà, la perseveranza, il sacrifico disinteressato nascono e maturano all’ombra di una prova. Chi è ferito dalla vita può dar vita a progetti di solidarietà. Nel dolore si verifica la credibilità dell’amore. Unisce più il dolore che il piacere, l’aver sofferto insieme che l’aver gioito insieme.


Essere comunità in questo momento significa prendersi cura gli uni degli altri (cfr. 1Cor, 12,14-26). Lo stiamo sperimentando in questi giorni a livello nazionale e mondiale. L’indifferenza e l’individualismo stanno cedendo il posto alla solidarietà e alla condivisione. Stiamo godendo, anche se in uno stato di ansia e di paura, di una opportuna e salutare occasione per reimparare la fede semplice e riscoprire l’autentica nostra vera umanità nei gesti di ogni giorno. Essi ci accomunano e ci fanno sentire fratelli e sorelle.


Andra tutto bene! È lo slogan ricorrente, scritto e dipinto, gridato e cantato in questi giorni. Con questa speranza certa, che ci viene dal cielo, rimettiamo la nostra vita, dopo questa tempesta imprevista e furiosa, sulla rotta giusta confidando nella presenza viva, consolante e salvifica del Signore Risorto. Per questo con il salmista possiamo dire: «Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra» (cfr. sal 138, 8-10).


Con questa certezza, rivolgo il mio saluto affettuoso e solidale alla grande famiglia dell’Azienda ospedaliera “card. G. Panico” di Tricase e alle Residenze Sanitarie assistenziali, Socio – Sanitarie Assistenziali e alle Case di Riposo, presenti sul territorio, con tutti i responsabili e dirigenti. Il saluto si allarga alle sorelle e ai fratelli ammalati, agli anziani, alle persone in solitudine, agli afflitti da varie prove e necessità: siete una parte privilegiata della Chiesa di Cristo.


La mia ammirazione commossa e grata a voi medici, infermieri, operatori sanitari, responsabili delle strutture di accoglienza. A tutti l’incoraggiamento fraterno e il sostegno della preghiera. Ogni giorno con dedizione e sacrifici, siete strenuamente impegnati al confine tra la vita e la morte, nel difficile e inedito compito di gestire anche un lutto, inesistente in precedenza, perché il malefico virus nega vicinanza, l’ultimo saluto e la preghiera condivisa dei familiari.


Un grazie di cuore a tutti gli infaticabili volontari, esposti in prima linea e a vari livelli nella lotta quotidiana al Covid -19, in sintonia con le Autorità civili e militari. A voi, cari ammalati e sofferenti, desidero assicurare il mio paterno affetto e dire una parola di speranza: siete membra preziose del corpo mistico di Cristo.


Un pensiero riconoscente rivolgo ai Padri Trinitari, alle suore Marcelline e a don Giorgio Margiotta, cappellano dell’ospedale, per la dedizione e l’accompagnamento fraterno che riservate ai malati e tutti coloro che prestano la loro opera all’ospedale Panico di Tricase e al Centro di Riabilitazione di Gagliano. La Vergine Maria vi sostenga in questa vostra delicata e speciale missione.


Invito tutti ad affidarci alla “Madonna del divin pianto” e a invocarla con questa preghiera:


Vergine santa,


segnata dal dolore del tuo Figlio,


sulla via del Calvario e sotto la croce


hai custodito Gesù con la tua fede.


Il suo sangue e le sue lacrime


hanno bagnato il tuo volto,


e ti hanno resa partecipe


del mistero della redenzione.


Donna forte,


che hai asciugato tante volte

le lacrime del tuo Figlio,


mostra a noi le sue divine lacrime


segno dell’amore non amato,


e richiamaci alla conversione del cuore


e all’accoglienza della misericordia del Padre.


Madre di Dio,


data a noi come madre dal Figlio,


infondi in noi la sublime certezza


che non siamo soli nel dolore.


Condividi le nostre croci,


asciuga le nostre lacrime


e donaci la tua materna consolazione.


Vergine del divin pianto,


guarda con compassione gli ammalati,


conforta le loro famiglie


dona coraggio e umana sapienza


ai medici, infermieri e operatori sanitari,


rivesti del tuo spirito materno le suore


perché si prendano cura


delle ferite del corpo e dello spirito.


A tutti infondi serenità e pace


oggi e nel tempo che verrà! Amen.


 


Dal Palazzo Vescovile


2 aprile 2020


Festa di S. Francesco da Paola


 


Il Vescovo Vito


Attualità

Via alle ispezioni della cavità in zona Puzzu a Tricase

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Sono iniziate stamani le ispezioni del pozzo rinvenuta nel borgo antico di Tricase, in zona Puzzu, la scorsa settimana (leggi qui)

A calarsi sono i componenti del Gruppo Speleologico Tricase. Restituiranno tutte le informazioni utili che emergeranno sulla cavità, a partire anche dall’esatta profondità, stimata in circa 25 metri al momento del ritrovamento, avvenuto durante i lavori di riqualificazione del centro storico.

Per le vie del centro cittadino intanto stamattina è rimbalzata la falsa notizia secondo cui qualcuno sarebbe caduto accidentalmente nel pozzo. Nulla di vero: trattasi appunto delle operazioni ispettive avviate nella giornata odierna.

La locale Protezione Civile ed una ambulanza sono sul posto preventivamente, pronte a intervenire in caso di necessità.

Le foto

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Approfondimenti

Sotto un cumulo di rifiuti e pannelli

Con la Civiltà dei consumi si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione

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di Hervé Cavallera

È da anni ormai che da più parti si lamenta che nel Salento sta crescendo il cumulo di rifiuti industriali con grave inquinamento per l’ambiente.

Né meno semplici sono i problemi connessi alle discariche dei rifiuti comunali, a prescindere dalle discariche illecite che non mancano.

Ma non basta.

A tutto questo si deve aggiungere la consistente presenza di pannelli solari e pannelli fotovoltaici in tutto il territorio, sul cui smaltimento è difficile prevedere; una presenza peraltro favorita dalla debole strategia nell’affrontare la Xylella fastidiosa.

Gli effetti della diffusione del batterio insieme alla decrescita della coltivazione delle campagne hanno condotto alla desertificazione di gran parte del Salento con la conseguenza che la distesa di olivi secolari è stata sostituita da quella di pannelli fotovoltaici, mentre nella incantevole striscia di mare che va da Otranto a Santa Maria di Leuca si propone con forza la realizzazione di un gigantesco parco eolico offshore.

Senza entrare nei dettagli, è chiaro che va manifestandosi uno scenario che una volta si sarebbe definito apocalittico e che in fondo è tale. Si tratta allora di cercare di comprendere cosa sta affettivamente accadendo.

Il punto chiarificatore da tenere in massimo conto è lo sviluppo della tecnologia.

Chi è anziano sa molto bene cosa è accaduto a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso con la fascinosa affermazione della società dei consumi, la quale, però, ha fatto venir meno ogni sostenibilità.

L’usa e getta è divenuta una realtà sempre più frequente e la diffusione del materiale in plastica, in particolare, è diventata inarrestabile con tutti i problemi che nel tempo si sono manifestati, rivelandosi una fonte di inquinamento drammatico nelle acque (dai laghi agli oceani) e negli stessi viventi, poiché frammenti di plastica di dimensioni di pochissimi millimetri si trovano ormai nei corpi dei viventi.

E il discorso si potrebbe ampliare estendendolo ai pannelli solari e fotovoltaici dismessi, ai tanti oggetti che quotidianamente buttiamo via.

Si può e si deve essere diligenti nella gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, ma il problema dello smaltimento permane.

Per dirla in breve, si è passati da comunità che tendevano a conservare e utilizzare la gran parte degli oggetti (si pensi alle vecchie brocche e agli utensili di terracotta) ad una collettività in cui gli oggetti si rinnovano in continuazione.

SOCIETÀ DEI CONSUMI

È chiaro che tutto questo corrisponde all’affermazione di una società del consumo sotto la spinta della scienza e della tecnica; è la società del capitalismo avanzato con tutti i suoi indubbi vantaggi, ma con la conseguente produzione di rifiuti che sono ormai difficilmente smaltibili.

L’artificiale non si dissolve nella natura come invece avveniva per l’antica spazzatura e ciò genera la diffusione non solo delle grandi discariche, ma di un inquinamento sempre più pericoloso. Ed è un fenomeno che ovviamente non riguarda solo il Salento, ma si estende in tutte le parti del mondo, soprattutto in quelle più industrializzate.

Così il 5 giugno è stata dichiarata dall’ONU “Giornata mondiale dell’ambiente” e quest’anno tale giornata è dedicata alla lotta all’inquinamento da plastica.

Sotto tale profilo, essendo un processo legato alla funzionalità e alla comodità – espressioni appunto della tecnologia – esso appare invincibile in quanto è difficile qualunque ritorno al passato, a società che possono essere giudicate arcaiche. Certo, è lecito e doveroso cercare di ricorrere a dei rimedi. Non si può rimanere inerti di fronte a dei guasti che mettono discussione la salute e la stessa continuità della vita.

Per poter porre rimedio ai pericoli in corso sarebbe auspicabile la produzione di oggetti smaltibili e inoltre di maggior durata.

LA LOGICA DEL MERCATO

Gli strumenti di cui ci serviamo dovrebbero essere più durevoli.

E ciò è sicuramente fattibile, anche se va contro la logica del profitto propria della realtà industriale, la quale richiede invece il rapido consumo di ogni prodotto e un continuo rilancio in un mercato che continuamente si rinnova.

La logica del mercato, insomma, impone una produzione sempre nuova e di breve durata. Una produzione apparentemente o realmente più funzionale, ma che va oltre la tutela dell’ambiente.

E qui il discorso si potrebbe estendere al processo di cementizzazione che diventa sempre più esteso a discapito della permanenza della flora e della fauna, con palazzi destinati peraltro ad avere una minore durata nel tempo.

Come si vede, quello che deve essere messo in primo luogo in discussione non è tanto il problema della discarica in una determinata località o di un hub energetico, quanto quello della natura del “progresso” ossia di uno sviluppo della vita quotidiana connesso ai frutti della tecnologia e ad un numero considerevole di lavoratori che vive producendo (e utilizzando) tali frutti. È, per ricordare un’immagine classica, il serpente che si mangia la coda: siamo asserviti a ciò che produciamo e di cui non sappiamo fare a meno, nonostante la consapevolezza che rischiamo di autodistruggerci.

COSA POSSIAMO FARE

Quello che al momento possiamo fare è prendere consapevolezza di tale situazione e richiedere la produzione di materiali sostenibili e di lunga durata. Non è un andare controcorrente, perché è in gioco la qualità e la possibilità stessa della vita. È realistico che non si possa bloccare o modificare tutto da un momento all’altro, ma l’intelligenza umana deve indirizzare con serenità e decisione verso tale cammino e il compito della classe dirigente dell’immediato futuro è farsi carico di tutto questo, mentre la diffusione di tale messaggio deve essere fatta propria, senza nessun impeto che sarebbe controproducente ed inutile, da tutti coloro che sono addetti alla promozione della cultura.

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Attualità

«La mafia salentina è sempre viva»

Intervista a Francesco Mandoi, ex magistrato salentino già Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia: «Vi spiego tutto»

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di Sefora Cucci

Né eroe né guerriero. Ricordi e sfide di un magistrato” (Besa editrice).  Questo il titolo del libro di Francesco Mandoi, ex magistrato salentino che è stato Sostituto Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo presso la Direzione Nazionale Antimafia, in libreria dal 25 aprile.

Da allora, il suo autore è coinvolto in un tour di presentazione e divulgazione che sta facendo il giro dell’intera Puglia, toccando moltissimi paesi, ad esempio Molfetta, Castellaneta, Cutrofiano, Manduria, Lecce, Novoli, Nardò, Trepuzzi e Ugento.

Una vita spesa al servizio dello Stato. «Il destino ha voluto che potessi fare il mestiere che amavo e grazie al mio lavoro posso dire di aver raggiunto, come sosteneva Primo Levi, “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”», dichiara il dott. Mandoi, che abbiamo intervistato.

Lei rifiuta l’etichetta di magistrato antimafia. Perchè?

«Non amo quella definizione perché la magistratura, nella sua essenza, non è mai stata né pro né contro qualcosa. La giustizia non dovrebbe essere partigiana e un magistrato non è e non deve essere un militante. Aggiungere l’aggettivo “antimafia” rischia di creare una grande confusione, perché il più delle volte viene utilizzato quasi per fini retorici, politici o mediatici. Sembra quasi indicare implicitamente che esista una categoria di magistrati “speciali” che svolgono un lavoro più nobile o significativo rispetto ad altri. Chi combatte la mafia non lo fa per vanità, ma per dovere. Etichettare qualcuno come “antimafia” non solo isola quel magistrato dal contesto più ampio della giustizia, ma sminuisce il valore del lavoro degli altri. Sono sempre più convinto che la lotta alla mafia non ha bisogno di eroi solitari, ma di una società consapevole e unita».

Dalla recente relazione DIA relativa al 2024 emerge che i clan storici del Salento continuano ad esercitare il controllo sul territorio. Quali armi allora?

«Ho letto con sincera preoccupazione i dati emersi i quali, non fanno altro che raffermare la mia idea che la SCU non è mai finita nel nostro territorio. Anzi, molto più correttamente dovremmo parlare di mafia salentina perché nel corso del tempo ha assunto vari nomi; perché sa, la mafia è camaleontica ed è in grado di adattarsi a qualunque scenario, mantenendo sempre gli stessi obiettivi. Alle attività tipiche (estorsione, spaccio, riciclaggio, ecc.) se ne aggiunge un’altra, altrettanto preoccupante: quella relativa al controllo delle attività turistiche».

Cosa possiamo fare?

«Denunciare e sensibilizzare. Questi non sono due verbi vuoti ma si caricano del significato che diamo loro: mettere la pulce nell’orecchio delle forze dell’ordine è possibile, purché ci sia fiducia nelle istituzioni. Dobbiamo stimolare alla collaborazione. Cosa serve? Uomini, mezzi, collaborazione, credibilità nello Stato e soprattutto recuperare la fiducia nei confronti delle Istituzioni che in questo momento storico va via via perdendosi. Occorre recuperare quella fiducia perché si sta diffondendo una cultura del ‘chi me lo fa fare?’ che è l’anticamera della cultura dell’omertà».

Le recenti riforme sulla giustizia e i disegni di legge qualificano una situazione in cui, da più parti, è stato lanciato un allarme al pericolo di lesione dello stato di diritto. Lei cosa ne pensa?

«Il pericolo è estremamente reale. Sono molto preoccupato. Il rapporto tra cittadino e Stato si deve basare sulla fiducia. Se questa viene a poco a poco minata, quanta credibilità rimane? Il rischio è di mettere in crisi lo stato di diritto perché la gente non crede. É scettica. E scetticismo si riscontra verso i recenti atti, pensiamo al decreto sicurezza, ormai legge. Al di là di possibili profili di illegittimità costituzionale, mi sembra fatto solo per ragioni demagogiche. E se si è scelta questa strada, significa che l’80% della legge serve solo a livello demagogico».

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