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Cronaca

Morso da vipera, vivo per miracolo

Vipera velenosa: l’Aspis Hugyi è molto pericolosa e pare abitasse queste terre in epoche lontane. Tanti gli avvistamenti. Il drammatico racconto di Carlo Panarese salvo per miracolo

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Un nuovo pericolo striscia nelle zone costiere del Salento: avvistate da più parti, soprattutto sul litorale da Otranto fino a Tricase, diversi esemplari di Vipera Aspis Hugyi, anche di notevoli dimensioni. Il suo morso può essere letale e solo per la sua esperienza in materia di serpenti e la bravura dei medici dell’Ospedale Panico di Tricase, Carlo Panarese, 59enne imprenditore tricasino può oggi raccontare quanto gli è accaduto.


La sua passione insolita per i rettili e l’assoluta convinzione che non ci fossero in Puglia e nel Salento serpenti potenzialmente letali stavano per giocargli un brutto scherzo che gli è costato quasi la vita. Panarese se l’è vista davvero brutta: “Il 17 maggio un mio amico mi ha chiamato alle 4,15 del pomeriggio chiedendomi di recarmi in una campagna (sulla via che da Borgo Pescatori a Tricase Porto si dirige verso Andrano) per catturare quello che poteva sembrare un cervone”, ci ha spiegato Carlo, “un serpente innocuo, dalla pelle striata di color bruno-giallastro, noto per essere il più lungo d’Italia e protagonista dell’ecosistema meridionale, essenzialmente quello che noi conosciamo come Sacara. Raccomando sempre ai miei amici di chiamarmi quando vedono un serpente”, continua il terrariofilo, “vieto loro assolutamente di sopprimerli: di solito, a seguito della chiamata mi muovo verso il “luogo del delitto” e, dopo aver svolto le solite procedure di precauzione, catturo, ovviamente ancora in vita, il serpente in questione”. 


La Vipera Auspis Hugyi (un metro e 40 cm circa) vista e fotografata da un gruppo di ciclisti nei pressi di Porto Badisco


Carlo possiede, infatti, un rettilario in cui può prendersi cura di quest’insoliti animali domestici. “Sono arrivato nella campagna…”: sembrava l’inizio di un pomeriggio come gli altri per Carlo: una campagna, la chiamata di un suo amico e un altro serpente, tutto nella norma…


Macchè! È invece l’inizio di un incubo: “Un cane, dopo aver allertato i suoi padroni della presenza del rettile, è riuscito a mettere il serpente spalle al muro. Il proprietario, spaventato alla vista di un ofide di simili dimensioni, lo ha colpito con un bastone. Tutto ciò ha contribuito ad agitare il serpente che, chi più ne ha più ne metta, a causa del periodo post-letargo, aveva una particolare fame e che quindi ha morso con maggiore veemenza”.


I serpenti escono dal letargo per un periodo che va da fine maggio fino a settembre e, non appena si risvegliano sentono, una forte necessità di cibo. Inoltre, più mangiano, più mordono, più perdono veleno, a maggio quindi “la barra del veleno” di cui dispongono è al 100%. E insomma, il 17 maggio non è la migliore data per decidere di farsi mordere.

“Alla prima vista del serpente qualcosa già non mi era chiaro. Certo, la somiglianza era pazzesca, ma quello lì non era un cervone. Non avevo mai visto un serpente del genere ma di una cosa ero certo: in Puglia non vivono serpenti velenosi. Dopo averlo afferrato con le mani, ha girato la testa con una destrezza malefica e ad una velocità formidabile, quasi fosse snodabile”, racconta l’intenditore, come se, seduto su una poltrona di un cinema 3D, avesse nuovamente davanti agli occhi quella scena e commentasse ciò che compare sullo schermo.


“Ho rischiato la pelle”


Mi ha morso la prima volta sul pollice sinistro”, come raccontano le sue cicatrici, “l’attimo in cui ho visto la bocca aprirsi mi è sembrato infinito”. Le immagini del film sono in pausa: “Mi ero già rassegnato. La bocca mostrava denti vampireschi e aguzzi di circa due centimetri, il labbro era leggermente sollevato proprio perché non riusciva a contenere denti di tali dimensioni. Con la mano sinistra gli tenevo la testa, con la destra gli bloccavo la coda. Ho dovuto mollare la presa con la mano destra per staccarlo dal dito sinistro. Intanto mi iniettava il suo veleno. Nel momento del morso ho sentito una forte scossa che, lentamente, in un istante infinito”, l’uomo rievoca immagini e sensazioni, “mi ha percorso il corpo”.


Ma non finisce qui: Dracula in miniatura ha sferrato il suo secondo colpo sull’indice destro. Vinto dall’empatia che prova verso quest’animale Carlo, nonostante tutto, non l’ha uccisa: “L’ho bloccata sotto al piede per avere le mani libere e provare a far fuoriuscire il veleno”. 


Forse abbiamo visto troppi film e gli chiediamo: “Succhiandolo via?”. Nel caso in cui, malauguratamente, vi trovaste a combattere contro il veleno di un serpente, sappiate che (purtroppo) la vita non è un film: “E che faccio? Metto il veleno anche in bocca?”, ironizza Carlo. Che poi spiega: “Bisogna essere esperti per riuscire ad espellere il veleno succhiandolo senza ingoiarlo e/o farlo rimanere in bocca, ma è alquanto inutile rischiare. Ho premuto sulla ferita per far uscire il sangue infettato”. 


Dopo aver catturato la bestia dai denti aguzzi in una bottiglia, Carlo, cosciente dell’emergenza, è scappato in macchina verso l’ospedale di Tricase. Non prima però di aver fatto una sosta intermedia da un suo amico con cui condivide la passione per i rettili. Puntando sull’assenza di serpenti velenosi in Puglia, non si è allarmato alla vista del serpente, finchè ad un certo punto Carlo, con il veleno ormai in circolo nel sangue, ha chiesto all’amico di accompagnarlo in ospedale.

Durante il tragitto cresceva esponenzialmente la sete, sintomo di un morso velenoso e allarme di un serio pericolo. A 21 minuti dal morso sono arrivato nel pronto soccorso, era colmo di pazienti in attesa. Ho sollevato la bottiglia con il serpente in cattività e, come con Mosè che apre le acque, la folla si è aperta (“forse per lo spavento alla vista del serpente o forse perché si è compreso subito come fossi in serio pericolo”) creandomi un varco”.


Dopo aver percorso il tappeto rosso, Carlo si è trovato nel lettino dell’ospedale tra gli sguardi spaventati di medici e grondante di sudore: “Avevo difficoltà a respirare e sentivo una fitta intollerabile sulla spina dorsale. Subito ossigeno e calmanti. Dopodiché, pochi ricordi. Ho rimesso ed ero paralizzato. Non riuscivo minimamente a muovere le gambe. Sono stato ricoverato nel reparto oncologia perchè quello di medicina era pieno: ogni mezz’ora arrivavano medici, ogni mezz’ora avevano un’espressione sempre più preoccupata. Alle 23 l’ultimo prelievo del sangue: le piastrine erano crollate. I medici, terrorizzati, si sono messi in contatto con il centro veleni di Foggia”. L’ospedale di Tricase non aveva esperienza si casi simili perché, come l’intervistato ci tiene a sottolineare ancora “da noi non vi erano serpenti velenosi e il morso della nostra “solita” vipera può essere curato con una semplice antitetanica”.


Nel frattempo, fuori dalla camera del reparto di oncologia, l’animale era ancora vivo nella bottiglia e l’ospedale si è preoccupato di interpellare l’ASL: “Il dottore Meraglia, dopo averla analizzata e catalogata, ha informato i medici che si occupavano del caso, che a loro volta hanno informato il centro veleni di Foggia che immediatamente ha preparato l’antidoto per poi spedirlo nella notte in elicottero”.


Gli effetti del veleno dell’Auspis sul braccio di Panarese

Proprio la costruzione di questa salda catena umana ha salvato la vita a Carlo, che, immensamente grato, racconta: “Il centro di Foggia ha chiesto all’ospedale tricasino di rimanere costantemente in contatto per ricevere aggiornamenti. Io intanto, la sera, ero in rianimazione. L’assistenza è stata straordinaria e rigorosa. Voglio ringraziare il primario Tommaso De Bellis, i medici e tutto il personale dell’Ospedale, sono stati splendidi”.


I medici foggiani gli hanno consigliato di iniettare i vaccini molto lentamente per evitare lo shock anafilattico: “La seconda notte il mio corpo ha cominciato a gonfiarsi, arrossirsi e ad espellere veleno. Vi era la preoccupazione che il veleno fosse addirittura arrivato al cervello, fortunatamente mi è andata bene. Il trattamento medico, ancora una volta è stato impeccabile”. Gli esperti dopo gli accertamenti del caso hanno confermato che trattasi di Vipera Aspis Hugyi, tra le più grosse e sopratutto velenose. 


Si può confondere facilmente con un cervone per le caratteristiche estetiche: la vipera è, come il cervone di color bruno-giallastro opaco, e anch’essa può raggiungere dimensioni notevoli: “A differenza di tutti gli altri serpenti ai quali siamo abituati nel Salento”, spiega ancora Panarese, “attacca anche se non in stato di panico. Già nel momento del riposo si chiude “a ciambella”, arrotolata su se stessa mantenendo il collo alto e la testa in piedi pronta all’attacco. Non ha una buona vista ma, nel momento in cui percepisce il calore di un altro essere vivente con la sua lingua, è pronta a mordere. Attacca comunque. Ho visto con i miei stessi occhi vipere affondare i denti o tentare di farlo anche su rami o sassi. È la sua indole”.


Questa razza”, continua, “é altamente pericolosa, soprattutto per bambini ed adolescenti: il morso ad una persona con massa corporea intorno o sotto ai 50 chilogrammi può essere letale. Allo stesso modo la situazione può diventare irreversibile se il morso è su un polpaccio o su un braccio, laddove il veleno entra più facilmente in circolo. Sono stato fortunato per vari fattori: la massa corporea, la localizzazione delle ferite, il dosaggio lento del vaccino. Nonostante tutto ho rischiato la cancrena: fino all’ultimo momento ho temuto l’amputazione delle braccia. Con l’aiuto dell’antidoto sono sfuggito al pericolo anche se continuavo a pensare a come avrei vissuto i miei giorni senza pollice destro ed indice sinistro. Fortunatamente non è andata così”, aggiunge muovendo e guardandosi, con rinfrancante sollievo, le dita ancora attaccate alle mani.


Devo ciò al trattamento che mi è stato riservato in ospedale; mi sono sempre sentito in mani sicure”. Ancora sconvolto dall’accaduto fa poi un appello in riferimento alle Aspis presenti nel nostro territorio: “Spero nella Forestale, la Guardia Municipale e in tutti i cacciatori, tutti coloro che potrebbero non sopprimerle ma catturarle”. E conclude rivolgendosi a tutti i lettori che può raggiungere: “Fate la massima attenzione. Ve lo dico io, che il veleno l’ho sentito vivo dentro di me”.


Resta la domanda su come una specie di vipera che, pare (forse), aver abitato queste terre solo in epoche lontane, sia di nuovo in circolazione e, stando alle segnalazioni, anche con una presenza così massiccia.


I consigli dell’esperto


Panarese consiglia di evitare le aree con erba lunga, specialmente in costa (la vipera Aspis Hugyi frequenta soprattutto la litoranea), dove potrebbero addirittura mimetizzarsi con lo scoglio: “Avere in casa un cane potrebbe avvertire la sua presenza. Meglio ancora un gatto che riuscirebbe anche ad ucciderlo. Ai contadini, o chiunque sia solito frequentare campagne, dico di indossare gambali e guanti e ai proprietari della campagne di potare periodicamente l’erba”. Nel malaugurato caso di un morso “scappare in ospedale, non perdere nemmeno un secondo”.


Dove?


La vipera si sposta “laddove trova cibo, per poi stanziarsi nel luogo trovato e muoversi massimo nel raggio di un chilometro. Nello stesso posto si riproducono”.

Di cosa si nutrono? Di topi e uccellini. “Quando devono mangiare, i serpenti vanno ovunque”.


Quante sono?


Sono arrivate molteplici segnalazioni di diversa provenienza: da quella che ha morso Panarese a Tricase Porto ad una di un metro e 40 cm avvistata da un gruppo di ciclisti nei pressi di Porto Badisco; altre ancora dalla zona di Santa Cesarea, soprattutto all’interno o vicino le pinete. A quanto pare, il pericolo ormai incombe e si diffonde irrefrenato. “Le vipere, quando non sono in letargo, da maggio a settembre, producono dalle 8 alle 12 uova a covata e si riproducono velocemente”.


Come riconoscerle?


Come detto l’aspetto è molto simile a quello delle classiche “Sacare” salentine: lunghe mediamente 60–65 centimetri (ma da noi ne sono già state viste di molto più grosse) con la testa più o meno distinta dal collo, apice del muso leggermente rivolto all’insù, con protuberanze dovute alle dimensioni dei denti, occhi di dimensione media con la pupilla verticale ellittica, coda nettamente distinta dal corpo.


Alliste

Un ettaro di discarica abusiva

Carabinieri forestali a tutela del vincolo paesaggistico. Ad Alliste sequestrata vasta area quadri utilizzata come discarica di rifiuti anche pericolosi. Denunciato il proprietario

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I Carabinieri Forestali del Nucleo di Gallipoli sono intervenuti ad accertare una situazione di gestione di rifiuti, su una vasta area in zona tutelata per il paesaggio, ai sensi del Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (categoria “Immobili ed aree di notevole interesse pubblico” del cosiddetto “Codice Urbani”), risultata del tutto illecita.

L’ episodio riguarda un terreno in località Perni in agro di Alliste, della superficie di quasi un ettaro (9mila metri quadri), per due terzi ricoperto da rifiuti di ogni tipo, in parte livellati e spianati.

I materiali abbandonati al suolo erano composti prevalentemente da scarti di demolizioni edili, compresi infissi in legno, ferro e plastica, pannelli in cartongesso, nonché rifiuti pericolosi come contenitori con residui di vernici, solventi, silicone.

Al margine di questo piazzale di rifiuti erano stati realizzati un locale in lamiera della superficie di 30 metri quadri, ad uso deposito, e un altro in pietra a secco, con antistante pavimentazione in piastrelle e tufo granulare.

A parte la gestione illecita dei rifiuti, le suddette opere sono risultate abusive, mancando qualsiasi titolo autorizzativo.

Per di più, come detto, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, e caratterizzata da vegetazione spontanea a macchia mediterranea.

Ad evitare il protrarsi degli abusi, i Carabinieri Forestali hanno sottoposto a sequestro preventivo l’ intera area, e denunciato alla Procura della Repubblica di Lecce il proprietario, un 70enne del posto.

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Cronaca

Condannato per omicidio e latitante: era in un B&B, in riva al mare

Arrestato a Torre Lapillo Carmine Mazzotta l’uomo che nel 1999, a capo di un commando di 4 persone, fu l’esecutore materiale dell’assassinio del 21enne Gabriele Manca

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Si nascondeva nella camera di un B&B a Torre Lapillo, Carmine Mazzotta, latitante dall’8 marzo di quest’anno dopo la sua condanna a trent’anni di carcere per omicidio, confermata il giorno prima dalla Cassazione.

A stanarlo sono stati i carabinieri del Nucleo investigativo del Comando Provinciale, che dopo la sua fuga non hanno mai abbandonato l’idea di trovarlo ancora in zona.

Si è chiusa così la latitanza del pregiudicato 51enne, sparito dalla circolazione dal 7 marzo di quest’anno, poche ore dopo la sentenza definitiva della Cassazione che aveva confermato la condanna a 30 anni di carcere, inflittagli dalla Corte d’Assise d’Appello di Taranto il 30 maggio scorso poiché riconosciuto colpevole di omicidio in concorso, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi.

L’omicidio in questione fu commesso il 17 marzo 1999 quando fu assassinato il 21enne Gabriele Manca, coinvolto in contrasti legati allo spaccio di droga e poi ucciso in una zona di campagna compresa tra Lizzanello e la frazione di Merine, a pochi chilometri da Lecce.

Il cadavere del giovane venne ritrovato il 5 aprile successivo, giorno di Pasquetta.

Manca, secondo il quadro ricostruito dai Carabinieri del ROS diciotto anni dopo il delitto, fu ucciso a colpi di pistola sparatigli alle spalle con una Tokarev semi-automatica calibro 7,62, mentre tentava la fuga da un commando di quattro persone che aveva organizzato una vera e propria esecuzione.

Nel commando anche Carmine Mazzotta, ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio, ossia colui che ha premuto il grilletto, tirato in ballo anche da due collaboratori di giustizia.

Dopo la condanna in primo grado a trent’anni con il rito abbreviato e conferma della pena in appello, i giudici della Cassazione avevano annullato con rinvio la condanna per Mazzotta, ragion per cui era stato instaurato un nuovo processo d’appello a Taranto.

In seguito alla decisione definitiva della condanna a trent’anni arrivata il 7 marzo 2025, l’uomo si era reso uccel di bosco ma, alla fine, è stato rintracciato dai Carabinieri del Nucleo Investigativo, all’esito di un’articolata indagine coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia.

Dopo prolungati appostamenti, servizi di osservazione e ricognizioni, i militari dell’Arma hanno individuato il presunto nascondiglio del latitante presso un B&B di Torre Lapillo, poco distante dalla spiaggia.

Sono rimasti appostati giorno e notte per essere sicuri che fra gli ospiti della struttura ci fosse proprio il 51enne da catturare.

Prima di entrare in azione, due carabinieri hanno prenotato una stanza spacciandosi per una coppia di turisti arrivati in Salento per il “ponte” festivo.

Una volta individuata la camera occupata dal latitante, hanno avvisato le altre pattuglie che hanno circondato la struttura ricettiva e fatto irruzione, cogliendolo di sorpresa.

Il 51enne, che naturalmente aveva trovato rifugio nel b&b senza fornire veri nome e cognome, al momento dell’arresto era da solo e non ha opposto resistenza, mostrandosi sorpreso per l’arrivo degli investigatori.

Ha raccontato che, per non farsi scoprire, aveva evitato qualsiasi rapporto con l’esterno, approfittando della vicinanza al mare per fare qualche passeggiata e concedendosi solo qualche sporadico spostamento nei dintorni per fare la spesa.

L’uomo aveva con sé vari telefoni e diverse utenze telefoniche, oltre a capi di abbigliamento estivi e invernali.

Non è escluso, pertanto, non stesse pensando di spostarsi altrove per prolungare la sua latitanza.

Il 51enne è stato quindi portato in carcere a Lecce, dove dovrà scontare la pena definitiva.

Nel frattempo, con gli elementi acquisti durante le ricerche, sono in corso ulteriori indagini da parte dei carabinieri, mirate a ricostruire il periodo di latitanza e a scoprire le persone che lo hanno protetto e aiutato dal giorno della sua fuga.

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Il Comando Provinciale dei Carabinieri

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Cronaca

Lecce da applausi. Lezione all’Italia pallonara

Sulle linee guida dettate dal presidente Saverio Sticchi Damiani giallorossi campioni di comportamento e stile. Anche nella difficoltà estrema, tra il devastante dolore per l’improvvisa e tragica scomparsa del fisioterapista Graziano Fiorita e l’imbarazzo di dover andare a giocare una partita con la morte nel cuore…

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Il lunedì è costume molto italiano discutere delle partite del fine settimana, celebrare la vittoria della propria squadra, sfottere chi tifa per una squadra diversa dalla tua o prendersela con l’arbitro di turno.

Oggi ci accodiamo anche noi, ma l’argomento seppur sempre calcistico, è molto diverso.

Vogliamo rendere onore al Lecce del presidente Saverio Sticchi Damiani.

Il presidente, un Signore, che sicuramente ha poco a che vedere con certi personaggi che gravitano (e comandano) nel mondo del calcio, ha sempre detto che il suo Lecce deve essere portabandiera dell’intero Salento anche nel comportamento e nello stile.

Ed è stato di parola!

Anche nella difficoltà estrema, tra il lutto che devasta per l’improvvisa e tragica scomparsa del fisioterapista Graziano Fiorita e l’imbarazzo di dover andare a giocare una partita con la morte nel cuore.

Morte non certo sportiva, perché anche salvezza e retrocessione sono termini che, davanti alla vita umana, perdono di significato.

Pur nelle difficoltà di cui sopra, il presidente, la società e la squadra hanno messo in piedi un capolavoro.

E non ci riferiamo certo al pareggio di Bergamo, che pure rimane un risultato straordinario.

Ci riferiamo alla protesta civile messa in atto senza violare le regole, senza sceneggiate ed isterie.

Il Lecce ieri sera ha indossato una maglia bianca senza loghi e con la scritta “Nessun valore. Nessun colore“.

Decisione preannunciata da un comunicato stampa della società che dovrebbe far riflettere tanta gente: «Ad una grave ingiustizia non si risponde violando platealmente le regole, come se per onorare Graziano si debba intraprendere una gara, tra noi e la Lega, a chi fa peggio. Giocheremo la partita “dei valori calpestati”», annunciava il Lecce, «ma lo faremo indossando una anonima casacca bianca, che non ci rappresenta, senza colori, stemmi e loghi. Torneremo a vestire la nostra maglia quando Graziano ritornerà a casa e sarà omaggiato, come merita, dalla sua gente».

I ragazzi in campo hanno mostrato orgoglio e umanità, così come anche il pubblico presente, gli ultrà bergamaschi, hanno applaudito a lungo i giallorossi all’arrivo allo stadio, durante la partita e alla fine.

Non hanno esposto striscioni e, per usare un termine in voga in questo periodo, hanno tifato in modo sobrio, per rispetto della vita umana e di chi tutto avrebbe voluto fare tranne che giocare una partita di pallone.

Ieri il calcio doveva fermarsi, doveva chinare la testa, farsi piccolo davanti alla vita vera.

Non si gioca sopra le lacrime, non si corre sopra il cuore spezzato di una squadra che aveva solo voglia di piangere.

Invece, la Lega ha deciso: si è giocato.

Come se il dolore si potesse mettere da parte.

Come se un uomo fosse solo un numero da sostituire.

Ne possono bastare un minuto di silenzio o una fascia nera al braccio.

La gente comune, le tifoserie, gli appassionati di calcio di tutta Italia si sono schierati senza esitazioni al fianco dei giallorossi e contro chi non conosce più il significato di rispetto, di umanità.

La Lega ha mostrato di avere interesse solo per sponsor e televisioni.

Ha perso l’ultimo briciolo di dignità ed ha tradito chi ama il calcio con il cuore.

Attenzione, però!

Anche un amore incondizionato, come quello di noi italiani per il calcio, potrebbe improvvisamente finire.

Giuseppe Cerfeda

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