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Il giorno più triste della storia di Tricase

La rivolta di 80 anni fa: ripercorriamo il 15 maggio 1935

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Ripercorriamo (con Ercole Morciano) la storia della rivolta di Tricase di 80 anni fa, approfondendone il racconto dopo l’intervista ad un testimone vivente, Rocco Longo, pubblicata sul nostro ultimo numero in distribuzione. 


Una sera a  metà di maggio: fuoco…fuoco…fuoco


È un mercoledì il 15 maggio 1935, il giorno più triste della nostra storia. Sono passate le otto e mezza di sera: davanti al municipio una folla vociante, un frastuono crescente. Parecchi sono lì da alcune ore; altri stanno rientrando dai campi e si fermano; molte sono le donne. Davanti al robusto portone dell’ex convento le scene più frementi: da una parte donne e uomini esasperati e in difesa del “ boccone di pane per loro e i loro figli” che vedono minacciato; dall’altra la forza pubblica, armata, che ha l’obbligo di impedire l’accesso e la devastazione della sede comunale, segno dell’autorità dello stato, e dello stato fascista, al massimo del consenso a pochi mesi dalla fondazione dell’effimero impero: uno stato che non può tollerare alcun segno di debolezza o di cedimento verso nessuno.


Ad un certo momento si odono degli spari e la folla comincia ad ondeggiare. Gli spari si susseguono ritmici, ad altezza d’uomo ricordano i testimoni, a intervalli brevi ma costanti: il loro suono lacerante si sente una volta, una seconda una terza…quella umanità indignata, lì radunata  per difendere il diritto al pane e al lavoro si sbanda, ammutolisce, si disperde. Al rumore indistinto si sostituiscono ora  i lamenti dei feriti, le  richieste d’aiuto dei caduti, i rantoli di chi muore.


Il tragico bilancio


Alla fine della giornata si contano cinque morti, tre donne e due uomini. I loro nomi, scolpiti sul marmo, saranno ricordati per sempre. Il più giovane, un ragazzo di 15 anni, è Pierino Panarese, di famiglia artigiana; la più anziana è Donata Scolozzi, contadina di 56 anni. Contadino è pure Pompeo Rizzo, di 37 anni. Cosima Panico e Maria Assunta Nesca, rispettivamente di 43 e 44 anni sono operaie tabacchine. I feriti sono 22, due donne e venti uomini: i più gravi sono Angelo Colangiulo e Rocco Colazzo, verrà loro amputata una gamba. Sono ricoverati all’ospedale di Maglie dopo le prime cure: Domenico Raffaele Fortiguerra, Antonio Parata, Filippo Legari, Giuseppe Nicola Casamassima, Torquato Bardoscia, Rocco Scolozzi, Alfonso Ghionna. Curati dai medici di Tricase: Salvatore Marra, Francesco Scarascia, Vito De Carlo, Giosué Mastria, Luigi D’Aversa, Maria Rosa Rizzo, Cosimo Longo, Giuseppe Cortese, Rocco Turco, Giuseppe De Marco, Vito Turco, Cesare Zocco e Maria Luisa Sciurti. Le ferite subite dai dimostranti, eccetto una sciabolata, sono  tutte dovute a proiettili. Nove i feriti tra le forze dell’ordine, medicati per escoriazioni ed ematomi  causati dal lancio di sassi.


L’antefatto


La causa prossima di un evento così luttuoso e lacerante per un paese come Tricase, i cui abitanti sono noti per la bontà della loro indole e per la civiltà dei loro comportamenti, è il  decreto del 30 aprile 1935 col quale il ministero delle corporazioni, per un maggiore controllo politico, scioglieva tutti i consigli di amministrazione dei consorzi agrari della provincia di Lecce – eccetto quello di Matino –  per fonderli nel consorzio agrario cooperativo provinciale di Terra d’Otranto. La notizia, tramite il prefetto di Lecce, è resa nota il 14 maggio 1935. Conosciuto a Tricase il contenuto del decreto, il malcontento si estende dai componenti del consiglio di amministrazione ai coltivatori di tabacco e alle tabacchine che, a torto o a ragione, vedono nel decreto ministeriale e nelle sue conseguenze un attacco alla già magra economia famigliare e a quel po’ di sicurezza che un lavoro, pur se stagionale, porta nelle loro case. Il nervosismo delle operaie del consorzio comincia a diffondersi  nonostante gli inviti alla calma del direttore Mario Ingletti.  Già  alle 7 di mattina   egli riesce a convincere le operarie ad entrare in fabbrica e non scioperare perché è vietato. A lui si uniscono, nell’invito alla calma l’ispettore del lavoro Ciro Facchini, l’avv. Vincenzino Resci,  sindaco del consiglio di amministrazione e il maresciallo dei carabinieri, Mossuto . Anche in altri tabacchifici di Tricase si diffonde la paura; si vede  la miseria  in agguato e divenire incerto anche quel poco di pane che si riesce ad avere col duro lavoro. La sfiducia verso le autorità locali cresce perché – ed ecco le cause della rivolta che potremmo dire remote – in pochi anni la cittadina aveva subito un declino con  riflessi negativi anche nel campo economico. Il trasferimento a Lecce dell’officina e deposito ferroviario che dava lavoro a 100 famiglie; lo smembramento del territorio della  pretura di Tricase  per far nascere quella di Alessano; il declassamento della tenenza dei reali carabinieri a semplice stazione; e ancor più  la drastica riduzione  della superficie comunale concessa dal monopolio per la coltivazione del tabacco da 300 ettari a 130; è facile capire perché la fusione del consorzio venisse temuta come un ulteriore decadimento del paese, causa di miseria e di fame.


Da pacifica manifestazione a rivolta


Nel pomeriggio i soci del consorzio si ritrovano nella sezione dei combattenti, in via S. Spirito, per la firma di una «supplica» da inviare a Mussolini e chiedergli di esentare dalla fusione il consorzio cooperativo di Tricase com’è stato fatto per quello di Matino. Le operaie intanto si radunano nei pressi della piazza per ascoltare «una conferenza » sulla situazione e dimostrare con la protesta il loro disagio. La manifestazione inizia pacificamente, ma gli animi sono esacerbati forse perché non si ha fiducia nelle locali autorità politiche e amministrative. Il podestà Edgardo Aymone, al fine di portare la calma, fa affiggere alle 18.30 un manifesto in cui riporta testualmente la lettera di rassicurazioni del prefetto, invita i cittadini a tornare tranquilli al lavoro e ad avere fiducia nel governo fascista. Il manifesto ottiene l’effetto contrario perché viene interpretato come «una presa in giro» o peggio come una  «minaccia». Le operaie si radunano vicino all’ingresso del municipio, dove già vi sono i soci del consorzio che hanno firmato la supplica  e tutti gridano  «viva il duce, viva il re, abbasso il podestà, vogliamo lavoro». La tensione aumenta e il podestà tenta di parlare ai dimostranti  per chiarire la sua posizione e informare sui passi fatti e da fare, ma la sua voce viene sopraffatta dagli urli. Tenta di parlare  l’avv. Domenico Caputo  dal sagrato della chiesa di S. Domenico: accolto da iniziali battimani,  il popolare don Mimmi, quando vuole convincere i dimostranti che non verranno trasferite le fabbriche e non perderanno il lavoro è  soverchiato dai fischi e costretto a ritirarsi. Fallisce anche il tentativo  di parlare alla folla dell’avv.  Alberto Ingletti,  dirigente sindacale dei lavoratori dell’industria sui quali ha un buon ascendente; affacciatosi sul balcone del circolo del littorio, sovrastante il bar di Giovannino Dell’Abate,  è costretto a rientrare quasi subito.

Nel frattempo giungono le forze dell’ordine per presidiare il municipio: anche da parte loro si fanno appelli alla calma ma viene paventato l’assalto al municipio  nel quale si trovano il podestà, il pretore Biagio Cotugno e il medico Giuseppe Cortese, segretario del fascio locale. La situazione peggiora sempre di più e alle grida di protesta si aggiunge il lancio di sassi verso il portone e le finestre del municipio, e si  mettono in atto tentativi di incendio e di abbattimento del portone. Ai militari viene dato dai superiori l’ordine d’innestare le baionette. A questo punto il podestà, il pretore e il segretario del fascio, temendo il peggio, escono dagli uffici comunali dal retro dell’ex convento, dalla parte dell’asilo infantile  attraverso il giardino.  L’iniziativa passa pertanto all’autorità militare; il protocollo dell’epoca per le forze dell’ordine – siamo in pieno regime fascista –  in casi del genere  prevede di sparare…e non sono previsti colpi in aria.


L’inchiesta


L’inchiesta  che segue  i dolorosi fatti del 15 maggio è lunga e caratterizzata da delazioni e lettere anonime che rendono pesante e sospettoso il clima di quei giorni.  Alle indagini e agli interrogatori seguono gli arresti.  Di notte bussano alle case e portano via i sospettati traducendoli nel carcere di Lecce. Gli inquirenti svolgono le indagini basandosi sul teorema del «complotto» e della «istigazione alla sommossa».  Alla fine dell’istruttoria 22 imputati sono prosciolti e 52 rinviati a giudizio.


Non è bello vivere a Tricase durante il periodo delle indagini. Il clima del sospetto crea una cappa di piombo che rende difficili i rapporti tra le persone. Anche in questa triste evenienza è la famiglia e la parentela più prossima che fanno da ammortizzatori sociali. Vi sono anche episodi di solidarietà umana e cristiana che servono a ricomporre lentamente un clima più sereno. Il vescovo di Ugento, Teodorico De Angelis, su richiesta dell’arciprete Stefanachi, si fa interprete di tanti drammi umani che deprimono la vita di tante famiglie della «laboriosa e tranquilla  popolazione  di Tricase», e chiede per iscritto ai giudici una pronta conclusione dell’istruttoria per il ritorno a casa degli innocenti. Mons. Giovanni Panico, da poco ordinato arcivescovo, prima di partire per l’Australia si reca personalmente nel carcere di Lecce per visitare i detenuti. Giuseppe Scarascia, alto funzionario presso il ministero dell’educazione, si interessa per assicurare le spese di difesa per carcerati poveri. Anche Giuseppe Cortese fa difendere dal suo avvocato alcuni paesani coimputati e non in grado di pagarsi le spese legali.


Il processo, la sentenza, il ritorno a casa


Il processo in corte d’assise a Lecce, davanti  alla quale compaiono i 52 imputati,  ha inizio il 5 marzo 1936 e si conclude il 2 aprile seguente. Il collegio difensivo è composto da ottimi avvocati:  Antonio Dell’Abate e Ciro  Miranda Dell’Abate che assumono il patrocinio gratuito di molti paesani, Michele De Pietro, Francesco Tamburini, Oronzo Massari e Giovanni Guacci. Durante le fasi dibattimentali gli avvocati in pratica “smontano” il teorema della “ istigazione alla sommossa” con prove e argomentazioni convincenti. Tre accusati  sono ritenuti non imputabili perché minorenni. I 6 imputati maggiori, accusati di aver organizzato la protesta e istigato alla sommossa, sono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. 13 sono assolti per insufficienza di prove. Gli 11  imputati di oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale subiscono condanne tra 10 mesi e 1 anno di reclusione. La «radunata sediziosa» contestata a 27 imputati viene ridotta  a contravvenzione di polizia e punita con 1 mese di arresto. Una semplice multa per chi aveva lacerato il manifesto. In sintesi la corte, con la sentenza del 2 aprile, riconosce valide le tesi difensive e assolve con le formule di rito oppure commina pene miti rispetto alle gravi accuse di partenza.


Il 2 aprile, la sera, verso le dieci e mezza, perché così era stata consigliato per evitare assembramenti non desiderati, tutti i tricasini processati tornano a casa liberi perché le pene erano state già scontate con la detenzione preventiva e finalmente il paese può tirare un sospiro di sollievo e si avvia a riacquistare la serenità. A dire il vero la tranquillità durerà poco perché di lì a 4 anni l’Italia entrerà in guerra  e anche Tricase avrà le sue vittime e vivrà le privazioni e i travagli che ogni guerra comporta.


La maggior parte delle notizie per il presente articolo sono state prese dall’ultimo libro dello studioso di storia locale, prof. Salvatore Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase 15 maggio 1935), Giorgiani Editore 2015, pp. 287, illustrato, s.i.p. Se ne consiglia la lettura a quanti vogliono notizie più dettagliate sui fatti e su tutti i protagonisti che li hanno in qualsiasi modo vissuti. Il volume verrà presentato nell’ambito delle manifestazioni promosse per l’80° anniversario del tragico evento.


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Certezze ed incertezze del presente

Lo spettro della guerra, malavita, femminicidi, violenza dilagante nel mondo adolescenziale e giovanile. E il Salento? Terra di anziani residenti o fugaci vacanzieri…

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di Hervé Cavallera

di Hervé Cavallera

La Pasqua da poco trascorsa dovrebbe aver ricordato ai Cristiani che essa, per il tramite della passione, morte e resurrezione di Gesù, è l’invito al passaggio ad una vita migliore.

Le feste del Cristianesimo, infatti, possono essere considerate come una sollecitazione per un futuro che sia, per i singoli e per la collettività, più buono e sereno rispetto al passato.

Ma l’immagine del presente non è così.

In campo internazionale permangono almeno due conflitti e i rischi che i campi di battaglia si allarghino non sono da sottovalutare.

E non è un problema dappoco.

Poi, per quanto riguarda l’Italia (ma il fenomeno non è solo italiano) si può constatare un aumento della violenza.

E non ci si riferisce solo ai casi più eclatanti, ossia ai delitti legati al mondo della malavita e alla crisi delle relazioni sentimentali (basti ricordare i femminicidi).

Ci si riferisce particolarmente alla violenza diffusa nel mondo adolescenziale e giovanile con i tumulti nelle università volti ad impedire la libertà di parola a conferenzieri non graditi, alle dimostrazioni pacifiste che generano saccheggi e vandalismi di vario genere, alle conflittualità che serpeggiano in certe scuole in una contrapposizione tra docenti ed allievi, con la partecipazione talvolta dei genitori.

Si ha l’impressione di trovarci in un mondo in cui non si riesce più a controllare gli impulsi.

Così accade che le frustrazioni, che sicuramente la maggior parte di noi ha pure conosciuto nel corso della propria esistenza, non vengano superate rafforzando il carattere e abituando a saper affrontare le difficoltà, ma producano comportamenti aggressivi che si propagano con facilità.

Ciò significa che gli adulti, i genitori in particolar modo, devono ben essere attenti oggi più che mai alle dinamiche dell’età evolutiva dei giovani.

Per fortuna sembrerebbe un fenomeno che non riguarda in modo preoccupante il nostro Salento.

Non che manchino i fatti di cronaca nera, ma fenomeni di scontri di piazza da parte di minorenni sono assai pochi.

E qui allora emerge un’altra considerazione: quello dello spopolamento.

Le nascite sono da tempo in netto calo nella Penisola.

Secondo i dati dell’ISTAT in Italia nascono 6 bambini ogni mille abitanti.

Nel Salento al calo demografico si aggiunge poi il fatto che molti giovani compiono gli studi universitari in altre regioni d’Italia e non tornano più nel paese nativo.

Certo, vi sono anche coloro che tornano e con coraggio, come si è scritto su questo giornale, ma sono pochi.

Il Salento diventa la terra di anziani residenti o di fugaci vacanzieri.

E allora l’invito alla gioia che proviene dal suono delle campane pasquali si spegne in una triste rassegna.

Conflitti sempre più minacciosi tanto da spingere qualcuno a sostenere il ritorno alla leva obbligatoria, sviluppo della criminalità organizzata, violenze e tragedie domestiche, violenza giovanile, fragilità nell’affrontare le difficoltà connesse al quotidiano, spopolamento, stagnazione produttiva…

Occorre precisare che non si nega che esistano casi positivi, anzi di eccellenza nella imprenditoria, nei giovani, nella vita coniugale e così via, ma l’ombra del negativo è sempre più visibile e preoccupante.

LA COMUNICAZIONE DELL’EFFIMERO

Vi è poi la sensazione di una crescita dell’individua- lismo accentuato dai social, dalla facilità di esprimere pareri su tutto e su tutti.

Al tempo stesso la comunicazione digitale isola fisicamente l’utente pur avendo egli un contatto online con centinaia se non migliaia di persone.

È la comunicazione dell’effimero, mentre si continua a rimanere soli.

Come diceva l’antico filosofo, l’uomo è un animale sociale; ha bisogno di vivere concretamente, fisicamente col prossimo, non di limitarsi a parole diffuse con mezzi artificiali.

Ed è questo l’aspetto che è il lascito ideale delle recenti celebrazioni pasquali: quello di tornare ad essere una comunità.

Una comunità di persone che si incontrano e dialogano ed elaborano progetti che permettano una crescita economica e spirituale.

Tutto questo richiede buona volontà e competenza, richiede il mettere da parte l’attrazione per il proprio tornaconto, per il proprio particulare come diceva Guicciardini.

È un compito che devono tornare ad assumere quelle istituzioni ad esso preposte quali la famiglia e la scuola.

In un momento storico in cui i legami familiari diventano sempre più fluidi, bisogna che la scuola diventi davvero un centro di formazione di responsabilità oltre che di conoscenze e competenze.

Un futuro migliore è affidato da sempre ad una buona educazione e di ciò dobbiamo tornare a prendere consapevolezza.

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Il fallimento della democrazia

Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…

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di Hervé Cavallera

Il prof. Hervé Cavallera

Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.

I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.

Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.

Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.

Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.

L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).

Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.

Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.

Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.

È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.

Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.

Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.

Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).

Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.

Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.

In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.

Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.

Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.

Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.

D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.

Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.

Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.

Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.

Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.

Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.

In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.

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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne

Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

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In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini. 

“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!

Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.

“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.

Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.

Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.

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