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Approfondimenti

Il giorno più triste della storia di Tricase

La rivolta di 80 anni fa: ripercorriamo il 15 maggio 1935

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Ripercorriamo (con Ercole Morciano) la storia della rivolta di Tricase di 80 anni fa, approfondendone il racconto dopo l’intervista ad un testimone vivente, Rocco Longo, pubblicata sul nostro ultimo numero in distribuzione. 


Una sera a  metà di maggio: fuoco…fuoco…fuoco


È un mercoledì il 15 maggio 1935, il giorno più triste della nostra storia. Sono passate le otto e mezza di sera: davanti al municipio una folla vociante, un frastuono crescente. Parecchi sono lì da alcune ore; altri stanno rientrando dai campi e si fermano; molte sono le donne. Davanti al robusto portone dell’ex convento le scene più frementi: da una parte donne e uomini esasperati e in difesa del “ boccone di pane per loro e i loro figli” che vedono minacciato; dall’altra la forza pubblica, armata, che ha l’obbligo di impedire l’accesso e la devastazione della sede comunale, segno dell’autorità dello stato, e dello stato fascista, al massimo del consenso a pochi mesi dalla fondazione dell’effimero impero: uno stato che non può tollerare alcun segno di debolezza o di cedimento verso nessuno.


Ad un certo momento si odono degli spari e la folla comincia ad ondeggiare. Gli spari si susseguono ritmici, ad altezza d’uomo ricordano i testimoni, a intervalli brevi ma costanti: il loro suono lacerante si sente una volta, una seconda una terza…quella umanità indignata, lì radunata  per difendere il diritto al pane e al lavoro si sbanda, ammutolisce, si disperde. Al rumore indistinto si sostituiscono ora  i lamenti dei feriti, le  richieste d’aiuto dei caduti, i rantoli di chi muore.


Il tragico bilancio


Alla fine della giornata si contano cinque morti, tre donne e due uomini. I loro nomi, scolpiti sul marmo, saranno ricordati per sempre. Il più giovane, un ragazzo di 15 anni, è Pierino Panarese, di famiglia artigiana; la più anziana è Donata Scolozzi, contadina di 56 anni. Contadino è pure Pompeo Rizzo, di 37 anni. Cosima Panico e Maria Assunta Nesca, rispettivamente di 43 e 44 anni sono operaie tabacchine. I feriti sono 22, due donne e venti uomini: i più gravi sono Angelo Colangiulo e Rocco Colazzo, verrà loro amputata una gamba. Sono ricoverati all’ospedale di Maglie dopo le prime cure: Domenico Raffaele Fortiguerra, Antonio Parata, Filippo Legari, Giuseppe Nicola Casamassima, Torquato Bardoscia, Rocco Scolozzi, Alfonso Ghionna. Curati dai medici di Tricase: Salvatore Marra, Francesco Scarascia, Vito De Carlo, Giosué Mastria, Luigi D’Aversa, Maria Rosa Rizzo, Cosimo Longo, Giuseppe Cortese, Rocco Turco, Giuseppe De Marco, Vito Turco, Cesare Zocco e Maria Luisa Sciurti. Le ferite subite dai dimostranti, eccetto una sciabolata, sono  tutte dovute a proiettili. Nove i feriti tra le forze dell’ordine, medicati per escoriazioni ed ematomi  causati dal lancio di sassi.


L’antefatto


La causa prossima di un evento così luttuoso e lacerante per un paese come Tricase, i cui abitanti sono noti per la bontà della loro indole e per la civiltà dei loro comportamenti, è il  decreto del 30 aprile 1935 col quale il ministero delle corporazioni, per un maggiore controllo politico, scioglieva tutti i consigli di amministrazione dei consorzi agrari della provincia di Lecce – eccetto quello di Matino –  per fonderli nel consorzio agrario cooperativo provinciale di Terra d’Otranto. La notizia, tramite il prefetto di Lecce, è resa nota il 14 maggio 1935. Conosciuto a Tricase il contenuto del decreto, il malcontento si estende dai componenti del consiglio di amministrazione ai coltivatori di tabacco e alle tabacchine che, a torto o a ragione, vedono nel decreto ministeriale e nelle sue conseguenze un attacco alla già magra economia famigliare e a quel po’ di sicurezza che un lavoro, pur se stagionale, porta nelle loro case. Il nervosismo delle operaie del consorzio comincia a diffondersi  nonostante gli inviti alla calma del direttore Mario Ingletti.  Già  alle 7 di mattina   egli riesce a convincere le operarie ad entrare in fabbrica e non scioperare perché è vietato. A lui si uniscono, nell’invito alla calma l’ispettore del lavoro Ciro Facchini, l’avv. Vincenzino Resci,  sindaco del consiglio di amministrazione e il maresciallo dei carabinieri, Mossuto . Anche in altri tabacchifici di Tricase si diffonde la paura; si vede  la miseria  in agguato e divenire incerto anche quel poco di pane che si riesce ad avere col duro lavoro. La sfiducia verso le autorità locali cresce perché – ed ecco le cause della rivolta che potremmo dire remote – in pochi anni la cittadina aveva subito un declino con  riflessi negativi anche nel campo economico. Il trasferimento a Lecce dell’officina e deposito ferroviario che dava lavoro a 100 famiglie; lo smembramento del territorio della  pretura di Tricase  per far nascere quella di Alessano; il declassamento della tenenza dei reali carabinieri a semplice stazione; e ancor più  la drastica riduzione  della superficie comunale concessa dal monopolio per la coltivazione del tabacco da 300 ettari a 130; è facile capire perché la fusione del consorzio venisse temuta come un ulteriore decadimento del paese, causa di miseria e di fame.


Da pacifica manifestazione a rivolta


Nel pomeriggio i soci del consorzio si ritrovano nella sezione dei combattenti, in via S. Spirito, per la firma di una «supplica» da inviare a Mussolini e chiedergli di esentare dalla fusione il consorzio cooperativo di Tricase com’è stato fatto per quello di Matino. Le operaie intanto si radunano nei pressi della piazza per ascoltare «una conferenza » sulla situazione e dimostrare con la protesta il loro disagio. La manifestazione inizia pacificamente, ma gli animi sono esacerbati forse perché non si ha fiducia nelle locali autorità politiche e amministrative. Il podestà Edgardo Aymone, al fine di portare la calma, fa affiggere alle 18.30 un manifesto in cui riporta testualmente la lettera di rassicurazioni del prefetto, invita i cittadini a tornare tranquilli al lavoro e ad avere fiducia nel governo fascista. Il manifesto ottiene l’effetto contrario perché viene interpretato come «una presa in giro» o peggio come una  «minaccia». Le operaie si radunano vicino all’ingresso del municipio, dove già vi sono i soci del consorzio che hanno firmato la supplica  e tutti gridano  «viva il duce, viva il re, abbasso il podestà, vogliamo lavoro». La tensione aumenta e il podestà tenta di parlare ai dimostranti  per chiarire la sua posizione e informare sui passi fatti e da fare, ma la sua voce viene sopraffatta dagli urli. Tenta di parlare  l’avv. Domenico Caputo  dal sagrato della chiesa di S. Domenico: accolto da iniziali battimani,  il popolare don Mimmi, quando vuole convincere i dimostranti che non verranno trasferite le fabbriche e non perderanno il lavoro è  soverchiato dai fischi e costretto a ritirarsi. Fallisce anche il tentativo  di parlare alla folla dell’avv.  Alberto Ingletti,  dirigente sindacale dei lavoratori dell’industria sui quali ha un buon ascendente; affacciatosi sul balcone del circolo del littorio, sovrastante il bar di Giovannino Dell’Abate,  è costretto a rientrare quasi subito.

Nel frattempo giungono le forze dell’ordine per presidiare il municipio: anche da parte loro si fanno appelli alla calma ma viene paventato l’assalto al municipio  nel quale si trovano il podestà, il pretore Biagio Cotugno e il medico Giuseppe Cortese, segretario del fascio locale. La situazione peggiora sempre di più e alle grida di protesta si aggiunge il lancio di sassi verso il portone e le finestre del municipio, e si  mettono in atto tentativi di incendio e di abbattimento del portone. Ai militari viene dato dai superiori l’ordine d’innestare le baionette. A questo punto il podestà, il pretore e il segretario del fascio, temendo il peggio, escono dagli uffici comunali dal retro dell’ex convento, dalla parte dell’asilo infantile  attraverso il giardino.  L’iniziativa passa pertanto all’autorità militare; il protocollo dell’epoca per le forze dell’ordine – siamo in pieno regime fascista –  in casi del genere  prevede di sparare…e non sono previsti colpi in aria.


L’inchiesta


L’inchiesta  che segue  i dolorosi fatti del 15 maggio è lunga e caratterizzata da delazioni e lettere anonime che rendono pesante e sospettoso il clima di quei giorni.  Alle indagini e agli interrogatori seguono gli arresti.  Di notte bussano alle case e portano via i sospettati traducendoli nel carcere di Lecce. Gli inquirenti svolgono le indagini basandosi sul teorema del «complotto» e della «istigazione alla sommossa».  Alla fine dell’istruttoria 22 imputati sono prosciolti e 52 rinviati a giudizio.


Non è bello vivere a Tricase durante il periodo delle indagini. Il clima del sospetto crea una cappa di piombo che rende difficili i rapporti tra le persone. Anche in questa triste evenienza è la famiglia e la parentela più prossima che fanno da ammortizzatori sociali. Vi sono anche episodi di solidarietà umana e cristiana che servono a ricomporre lentamente un clima più sereno. Il vescovo di Ugento, Teodorico De Angelis, su richiesta dell’arciprete Stefanachi, si fa interprete di tanti drammi umani che deprimono la vita di tante famiglie della «laboriosa e tranquilla  popolazione  di Tricase», e chiede per iscritto ai giudici una pronta conclusione dell’istruttoria per il ritorno a casa degli innocenti. Mons. Giovanni Panico, da poco ordinato arcivescovo, prima di partire per l’Australia si reca personalmente nel carcere di Lecce per visitare i detenuti. Giuseppe Scarascia, alto funzionario presso il ministero dell’educazione, si interessa per assicurare le spese di difesa per carcerati poveri. Anche Giuseppe Cortese fa difendere dal suo avvocato alcuni paesani coimputati e non in grado di pagarsi le spese legali.


Il processo, la sentenza, il ritorno a casa


Il processo in corte d’assise a Lecce, davanti  alla quale compaiono i 52 imputati,  ha inizio il 5 marzo 1936 e si conclude il 2 aprile seguente. Il collegio difensivo è composto da ottimi avvocati:  Antonio Dell’Abate e Ciro  Miranda Dell’Abate che assumono il patrocinio gratuito di molti paesani, Michele De Pietro, Francesco Tamburini, Oronzo Massari e Giovanni Guacci. Durante le fasi dibattimentali gli avvocati in pratica “smontano” il teorema della “ istigazione alla sommossa” con prove e argomentazioni convincenti. Tre accusati  sono ritenuti non imputabili perché minorenni. I 6 imputati maggiori, accusati di aver organizzato la protesta e istigato alla sommossa, sono assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. 13 sono assolti per insufficienza di prove. Gli 11  imputati di oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale subiscono condanne tra 10 mesi e 1 anno di reclusione. La «radunata sediziosa» contestata a 27 imputati viene ridotta  a contravvenzione di polizia e punita con 1 mese di arresto. Una semplice multa per chi aveva lacerato il manifesto. In sintesi la corte, con la sentenza del 2 aprile, riconosce valide le tesi difensive e assolve con le formule di rito oppure commina pene miti rispetto alle gravi accuse di partenza.


Il 2 aprile, la sera, verso le dieci e mezza, perché così era stata consigliato per evitare assembramenti non desiderati, tutti i tricasini processati tornano a casa liberi perché le pene erano state già scontate con la detenzione preventiva e finalmente il paese può tirare un sospiro di sollievo e si avvia a riacquistare la serenità. A dire il vero la tranquillità durerà poco perché di lì a 4 anni l’Italia entrerà in guerra  e anche Tricase avrà le sue vittime e vivrà le privazioni e i travagli che ogni guerra comporta.


La maggior parte delle notizie per il presente articolo sono state prese dall’ultimo libro dello studioso di storia locale, prof. Salvatore Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà. Anatomia di una sommossa (Tricase 15 maggio 1935), Giorgiani Editore 2015, pp. 287, illustrato, s.i.p. Se ne consiglia la lettura a quanti vogliono notizie più dettagliate sui fatti e su tutti i protagonisti che li hanno in qualsiasi modo vissuti. Il volume verrà presentato nell’ambito delle manifestazioni promosse per l’80° anniversario del tragico evento.


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Della Secondaria o dell’Inventiva

L’autonomia. Per una maggiore interazione tra l’istituto scolastico e la realtà in cui opera e per accentuare la disponibilità verso i bisogni degli utenti

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di Hervé Cavallera

C’era una volta per chi voleva continuare gli studi, dopo aver conseguito la licenza media, un ventaglio di opzioni ben chiaro: dal liceo classico all’istituto magistrale, dal liceo scientifico all’istituto tecnico (commerciale, agrario, per geometri e così via).

Una suddivisione che risaliva per lo più alla riforma Gentile del 1923 e che offriva una chiara prospettiva di cosa si sarebbe fatto in futuro.

Il conseguimento del diploma liceale avrebbe consentito l’accesso alle facoltà universitarie, accesso più limitato per le altre scuole che, però, offrivano un titolo di studio che garantiva la possibilità di un immediato inserimento nel mondo del lavoro.

La caratterizzazione delle specificità delle scuole secondarie superiori, su cui ritorneremo, consentiva una chiara scelta secondo le attitudini degli adolescenti e le possibilità delle famiglie alla luce del contesto in cui si viveva. Poi, durante il primo governo Prodi, si ebbe la legge n. 59/1997, (detta riforma Bassanini dal nome dell’allora ministro alla Funzione pubblica) che art. 21 riorganizzava il “Servizio istruzione” mediante l’autonomia intestata alle istituzioni scolastiche ed educative.

Tale autonomia doveva comunque garantire «i livelli unitari e nazionali di fruizione del diritto allo studio».

L’intento della legge era quello di diminuire la burocrazia e di conseguenza promuovere una più efficace azione educativa.

Se l’autonomia di cui sopra è didattica e amministrativa, con il DPR 275/1999 si aggiunge l’autonomia di ricerca e sperimentazione volendo favorire un pluralismo culturale adeguato ai diversi contesti e alle richieste delle famiglie e degli studenti.

Il Professor Hervé Cavallera

Si tratta della nascita del POF (Piano dell’Offerta Formativa) «elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione definiti dal consiglio di circolo o di istituto, tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto dei genitori e, per le scuole secondarie superiori, degli studenti» (art.3). È un passaggio importante in quanto afferma sostanzialmente un processo di decentramento in cui la scuola è posta al servizio dell’utenza (genitori e alunni). Con la legge 3 del 18 ottobre 2001 all’art. 117 pur attribuendo alle Regioni la possibilità di legiferare in ambito scolastico viene sempre ribadita l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Infine la legge 107, o della “Buona scuola”, del 2015 prevede una flessibilità negli insegnamenti, l’alternanza scuola-lavoro.

Inoltre si introduce il PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) che «esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa e organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della propria autonomia» e può essere rivisto annualmente.

Ai Piani formativi di ogni scuola si richiede la massima trasparenza e pubblicità.
Ciò che accade con l’affermazione dell’autonomia è di grande importanza almeno per due aspetti.

Il primo è il consentire una maggiore interazione tra l’istituto scolastico e la realtà in cui opera.

Il secondo è l’accentuare la disponibilità verso i bisogni degli “utenti” e quindi il favorire quella che oggi si potrebbe chiamare audience. Tutto questo presenta delle luci e delle ombre. Si tratta di una linea estremamente sottile che va adeguatamente sottolineata.

Si può dire che il vantaggio del sistema scolastico pre-Bassanini era dato dalla chiarezza dell’articolazione scolastica e dalla centralità dei contenuti propri di ogni scuola; il limite poteva essere nella asetticità dell’istituzione rispetto al contesto.

Il vantaggio della sistema scolastico post-Bassanini è nella attenzione al nuovo e al contesto; il limite nel rischio di rincorrere perennemente il nuovo (di là se sia buono o cattivo) e nel cedere al contesto a decremento della serietà degli studi.

Tutto questo ha significato davvero l’affermazione della scuola-azienda (non a caso si è passati dal “preside” al “dirigente” con possibilità di ampie offerte formative), ossia a scuole onnicomprensive che offrono diversi curricoli formativi in una concorrenza reciproca.

Ed ecco allora la nascita di classifiche scolastiche (sempre discutibili) che dovrebbero consentire all’utenza di valutare le scuole e al tempo stesso dovrebbero stimolare a far sempre meglio.

Si tratta di un processo di matrice chiaramente statunitense, connesso ad un mondo prevalentemente legato al privato e quindi alla concorrenza.

Il lato positivo è lo stimolo che ogni istituto scolastico riesca a dare il meglio di sé; il rischio è un processo di facilitazione nelle valutazioni e di semplificazione nelle trattazioni culturali per assicurarsi un maggior numero di studenti.

Qualità e quantità non sempre riescono a vivere felicemente insieme.

Non per nulla nel mondo anglosassone esistono collegi estremamente elitari e costosi e scuole di facile “percorso”; in quelle nazioni per essere assunti in un qualunque impiego non viene considerato il titolo di studio in sé, bensì la provenienza scolastica. In altri termini, per essere più chiari, se in Italia i titoli di studi delle nostre scuole sono equivalenti in tutto il territorio nazionale, non così negli USA.

Ne segue allora che il compito della scuola secondaria italiana oggi è estremamente complesso in quanto da un lato deve conservare la qualità che l’ha storicamente contraddistinta per la formazione di un sapere di alto livello e dall’altro deve misurarsi con una realtà molto fluida e differenziata, mentre la varietà dell’offerta rinvia all’utenza la responsabilità della scelta.

Quello che ogni istituto deve assicurare è la serietà didattica e contenutistica; di qui, come del resto è sempre stato, l’importanza del personale docente al quale collegialmente è altresì richiesto il sapersi confrontare con le continue novità di una realtà nella quale la tecnologia sembra varie volte diventare fine a sé stessa e non un mezzo per raggiungere obiettivi educativamente validi.

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I simboli più misteriosi della città di Lecce

Uno dei simboli della città pugliese è la Basilica di Santa Croce, la cui realizzazione si protrasse per diverso tempo

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Tra le città maggiormente affascinanti di tutta la Puglia troviamo sicuramente Lecce. Un agglomerato decisamente antico, che mantiene intatto ad oggi il suo fascino, grazie a una serie di luoghi misteriosi.

Grazie alla tecnologia, al giorno d’oggi, c’è la possibilità, per chi organizza una visita o una vacanza a Lecce, di andare alla scoperta di luoghi intrisi di simbolismo e, in alcuni casi, anche di leggende metropolitane.

D’altro canto, è vero che la tecnologia, al giorno d’oggi, ha rivoluzionato qualsiasi ambito della nostra quotidianità. A partire dal mondo dell’intrattenimento, con i portali che permettono di giocare online, a partire alle slots con un classico come Gates of Olympus, fino ad arrivare al settore dei viaggi, con l’App dedicata alle mappe come Maps.me, passando per la sanità, i rapporti sociali e così via. Se volete organizzare un itinerario del tutto particolare per visitare Lecce, la cosa migliore da fare è quella di seguire una serie di interessanti consigli.

La Basilica di Santa Croce

Uno dei simboli della città pugliese è la Basilica di Santa Croce, la cui realizzazione si protrasse per diverso tempo. Infatti, i primi lavori partirono nel 1549 e, dopo qualche anno di sospensione, vennero ripresi nel 1606 grazie a Francesco Antonio Zimbalo.

A terminare i lavori ci pensò il nipote di quest’ultimo, ovvero Giuseppe Zimbalo. D’altro canto, però, è giusto ribadire come la progettazione di questa maestosa chiesa fu opera di Gabriele Riccardi. Secondo quanto viene narrato dalla leggenda, pare proprio che il Riccardi abbia preso ispirazione, per questo progetto, dallo spettacolare Tempio di Gerusalemme.

In effetti, esattamente come il Tempio di Gerusalemme, anche la Basilica di Santa Croce si caratterizza per mantenere delle proporzioni estremamente precise, senza sbavature. La lunghezza interna è pari al doppio dell’altezza e ci sono un gran numero sia di raffigurazioni che di incisioni che riportano alla mente proprio il Tempio di Gerusalemme.

Sulla facciata della Basilica c’è la possibilità di ammirare squadre e compassi: insomma, si tratta di una costruzione che merita di essere visitata prestando la massima attenzione ai dettagli, soprattutto per via di un’architettura che lascia spazio spesso e volentieri a una coltre di mistero.

Un fiume misterioso denominato Idume

Tra le leggende più diffuse a Lecce troviamo sicuramente quella che si riferisce al fiume Idume. Si tratta, per chi non lo sapesse, di un corso d’acqua che si sviluppa sottoterra e che andrebbe ad attraversare un po’ tutta la città del Salento. Anzi, alcuni dicono che si potrebbe vedere dai sotterranei di svariati palazzi della città.

A quanto pare, la leggenda narra che un po’ tutti i pozzi più antichi di Lecce andrebbero ad attingere la loro acqua esattamente da tale torrente. Non solo, visto che pare proprio che nelle notti di luna piena, da tali pozzi si potrebbero ascoltare delle risate, piuttosto che dei pianti di bambini. Alcuni parlano di spiriti in pena e altri sostengono che si tratti di esseri magici uniti dall’elemento acqua.

Un tesoro storico appartenente a Sigismondo

Nei tempi antichi, Lecce rappresentava una città particolarmente importante, come è stato scoperto in più di un’occasione da scavi e altre operazioni archeologiche. In effetti, al di sotto della piazzetta, piuttosto elegante e graziosa, Sigismondo Castromediano, vicino alla chiesa di Santa Croce, diversi scavi recenti hanno riportato alla luce delle testimonianze archeologiche risalenti all’età del Ferro e all’epoca messapica.

I turisti, al giorno d’oggi, hanno l’opportunità di ammirare tutti questi reperti storici. Nel bel mezzo della piazzetta, tantissimi anni fa, venne deposta la statua di Sigismondo Castromediano, dietro commissione del Sindaco di Lecce, Giuseppe Pellegrino, che nel 1898 conferì apposito incarico allo scultore Antonio Bortone.

Secondo i leccesi, tale statua sta a indicare proprio il sottosuolo della piazza, probabilmente come sistema per segnalare la presenza del prezioso frantoio che è stato poi effettivamente ritrovato grazie agli scavi.

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A Ortelle è tempo di fiera con il maiale Or.Vi.

Giovedì si apre la fiera regionale di San Vito: il programma completo

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La Fiera Regionale di San Vito, organizzata dal Comune di Ortelle, si svolge tradizionalmente nella settimana corrispondente alla quarta domenica del mese; è una manifestazione la cui origine si perde nella notte dei tempi, il fulcro della vita della piccola comunità ortellese sotto gli aspetti sociale, culturale ed economico.

Sono due gli elementi principali che caratterizzano storicamente l’evento: la vendita della carne di suino proveniente dagli allevamenti locali e la fiera mercato della domenica mattina, con oltre 200 commercianti ambulanti provenienti anche dalle regioni limitrofe.

Negli anni, la Fiera si è adeguata ai tempi, ottenendo il riconoscimento di “Fiera Regionale” e ampliando la sua offerta, che oggi vede la Mostra Mercato (XXIV edizione) e la rassegna Agro-Art (XVIII edizione), specifiche aree destinate alle aziende, rispettivamente, commerciali e agroalimentari per la promozione dei loro prodotti e servizi. I quattro giorni, però, si distinguono per un programma molto eterogeneo, nel quale trovano spazio musica, arte, cultura e attualità, con convegni e momenti di confronto.

Notevole importanza è stata data allo sviluppo del progetto di tracciabilità del maiale “Or.Vi.” (acronimo di Ortelle e Vignacastrisi), che prevede tecniche di allevamento tradizionali seguite in ogni fase dalla nascita fino alla degustazione in fiera.

Cultura, tradizione, qualità, innovazione, idee per uno sviluppo sostenibile sono i concetti su cui, nel corso degli anni, si è sviluppata la Fiera, con l’obiettivo di farne sempre più un evento di importanza regionale.

Festa e Fiera – Il programma

Giovedì 20 ottobre dopo al Santa Messa delle 18 presso la Cappella di San Vito, l’apertura degli stand per la ventiquattresima Mostra Mercato e la diciottesima rassegna Agro-Art (gli stessi orari che verranno rispettati anche negli altri giorni della Fiera di San Vito, eccetto domenica 23). Alle 19, in piazza del Gusto l’inaugurazione della Fiera con il saluto del sindaco Edoardo De Luca e gli interventi di: Stefano Minerva, Presidente della Provincia di Lecce; Loredana Capone, Presidente del Consiglio Regionale; Ettore Caroppo vice presidente di Anci Puglia. Dalle 20, Musica per le vie della Fiera a cura dell’associazione “Amici della musica”.

Venerdì 21, alle 19, presso l’Open Space “Luigi Martano”, il convegno “Made in Puglia: un marchio da valorizzare ed esportare”, valori, tradizioni, prodotti locali e maestria in una sola parola il “Made in Puglia”. Come fare per valorizzare l’immenso patrimonio di una terra conosciuta per le sue bellezze, per le sue tipicità e come aiutare le nostre imprese artigiane ad esportare i loro prodotti?

Interverranno: Alessandro Delli Noci, Assessore allo Sviluppo Economico della Regione Puglia; Mario Vadrucci Presidente della Camera Commercio di Lecce.

Alle 20,30, nell’area concerti, sul palco I Trainieri.

Sabato 22, alle 17,30, trasporto della statua di San Vito in Chiesa Madre e Santa Messa. A seguire la processione con la statua del Santo dalla Chiesa Madre alla Cappella di San Vito. Nell’area concerti, dalle 21, Consuelo Alfieri e Ensemble di Musica Popolare.

Nella mattina di domenica 23, alle 7 Santa Messa nella Cappella di San Vito e apertura Fiera mercato; apertura stand della Mostra Mercato e Rassegna Agro-Art; alle 8,15 Santa Messa in Chiesa Madre.

Nel pomeriggio Santa Messa nella Cappella di San Vito alle 18. Chiusura con la musica popolare di Antonio Amato (ore 21) nell’area concerti.

Torna il Concorso fotografico Fiera Di San Vito “Luigi Martano”: i partecipanti dovranno consegnare due file, con le foto scattate durante la Fiera, entro le ore 13 di domenica 23 ottobre presso l’Open Space “L. Martano”. La premiazione si terrà alle 18,30 (primo premio 200 euro).

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