Attualità
Roberto Caputo, cento anni dall’uccisione per mano fascista
La storia del “personaggio scomodo” giustiziato a Tricase nel 1923

a cura di Salvatore Coppola
L’uccisione di Roberto Caputo si inquadra nel contesto storico della contrapposizione tra i Fasci e le non molte sezioni di ex combattenti del Salento, che nei primi mesi del 1923, si dimostrarono contrarie alla loro forzata incorporazione all’interno delle sezioni fasciste (nonostante che, in campo nazionale, i rapporti tra i dirigenti dell’Associazione Nazionale Combattenti e quelli del Partito Nazionale Fascista fossero molto stretti).
Il contesto storico
A differenza di quanto era avvenuto in grossi centri a forte concentrazione contadina (Nardò, Taviano, Ugento), dove, fin dai primi mesi del 1921, le squadre fasciste erano state create dagli agrari per stroncare le lotte dei braccianti per la concessione delle terre incolte, a Tricase il Fascio fu costituito solo dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. La città non aveva vissuto le “turbolenze” del biennio rosso, non si erano registrate grandi manifestazioni di lotta né si era sviluppato il movimento di occupazione delle terre in quanto la maggioranza dei lavoratori agricoli erano piccoli e medi proprietari, in gran parte dediti alla coltivazione del tabacco; la tabacchicoltura, inoltre, favoriva l’occupazione della manodopera femminile negli opifici privati, oltre che nei magazzini del Consorzio. Altre opportunità di occupazione erano poi assicurate dalla presenza sul territorio dell’officina e del deposito delle Ferrovie Salentine, di uffici pubblici, attività commerciali ed artigianali. In tale contesto politico e sociale, dopo la marcia su Roma fu costituita, nei primi giorni di novembre 1922, la sezione fascista, di cui fu nominato segretario politico Vittorio Facchini. Poco dopo, però, a seguito di contrasti interni, fu eletto segretario il dr. Rodolfo Caputo, cugino del vicepresidente della Sezione Circondariale Combattenti Roberto Caputo, il quale fu accusato dai membri del precedente Direttorio di essere stato l’artefice del cambio al vertice del Fascio. L’operazione politica, però, fu di brevissima durata. Il commissario di zona del Partito Nazionale Fascista avvocato Oronzo Portaccio, infatti, convocò gli iscritti per procedere a nuove elezioni che portarono alla rielezione di Vittorio Facchini a segretario politico e alla nomina di un nuovo Direttorio (Giuseppe Cafiero, Giuseppe Cavalieri, Oreste Contegiacomo, Luigi Provenzano e Vincenzo Pesapane). La sezione contava meno di duecento iscritti, mentre quella degli ex combattenti ne contava settecento, la maggior parte dei quali non erano iscritti al Fascio. Costituita nel 1919, la Sezione Circondariale Combattenti, guidata da Oreste Contegiacomo (presidente) e Roberto Caputo (vicepresidente), oltre a esercitare le funzioni proprie di assistenza socioeconomica a favore dei soci, si impegnava per favorirne il collocamento al lavoro attraverso la costituzione di cooperative di consumo, di produzione e lavoro. Grazie all’impegno di Roberto Caputo, che godeva della stima dei dirigenti della Federazione Provinciale, la stessa fungeva da sezione guida per quelle del Circondario (si tenevano a Tricase, infatti, i convegni periodici e i congressi zonali a cui partecipavano dirigenti locali e provinciali). Roberto Caputo (impiegato presso le Ferrovie Salentine) era sinceramente convinto della necessità di preservarne l’autonomia. I dirigenti del Fascio cominciarono a muovere nei suoi confronti generiche accuse di “bolscevismo”, non solo o non tanto perché aveva nel passato manifestato simpatie per le idee socialiste, ma soprattutto perché, in occasione dello sciopero nazionale contro il fascismo del 31 luglio 1922, aveva sollecitato i ferrovieri a parteciparvi. Agli inizi del 1923 non esisteva in Tricase, di fatto, alcuna forma di opposizione al fascismo da parte delle organizzazioni politiche tradizionali (partiti e Leghe sindacali); solo la Sezione Circondariale Combattenti si schierava in molte occasioni apertamente e con coraggio contro le iniziative politiche del Fascio, che la accusava, per questo, di minare «la gloriosa ascensione del fascismo» a Tricase.
Personaggio scomodo
Essendo stata bocciata dalla maggioranza degli ex combattenti la proposta di fusione o di stretta collaborazione con il Fascio, il presidente Oreste Contegiacomo (che faceva parte del Direttorio fascista) rassegnò le dimissioni motivandole col fatto che, essendo egli un «ex combattente vero», non poteva continuare a presiedere una sezione della quale facevano parte soci che, nei mesi precedenti, avevano manifestato «idee alquanto sovversive e giudizi non rispondenti a verità». A parere del segretario politico del Fascio (che informò i vertici zonali del partito) egli si riferiva a Caputo, accusato di svolgere propaganda antifascista, come si era visto in occasione della celebrazione del XXIV Maggio, quando egli ed altri dirigenti della sezione avevamo tentato di dare alla cerimonia «un significato antifascista». Nel corso di una riunione congiunta dei vertici della Federazione Provinciale Combattenti (guidata da Leonardo Mandragora) e della Federazione provinciale del PNF tenuta a Lecce il 30 maggio 1923, gli avvocati Guido Franco da Gallipoli e Oronzo Portaccio da Taviano (rispettivamente segretario provinciale e commissario zonale del PNF) decisero di costituire una commissione paritetica che avrebbe esaminato lo stato dei rapporti tra combattenti e fascisti allo scopo di favorire la formazione di un «fronte unico» per una leale e fraterna collaborazione tra le due organizzazioni. A partire dal mese di luglio, con sempre maggiore insistenza, il segretario del Fascio chiese ai dirigenti provinciali e zonali del partito di utilizzare la propria autorità politica per convincere gli organi provinciali della Federazione Combattenti a rimuovere Caputo dalla carica di presidente; questi venne, in effetti, rimosso e sostituito, ufficialmente, con l’avvocato Francesco Piccolo, ma continuò a godere della stima dei dirigenti provinciali i quali non potevano né volevano impedirgli di partecipare all’attività della sezione, come chiedeva il Fascio. La grande stima e il grande affetto che nutrivano per lui gli iscritti resero pressoché inefficace la decisione di sospenderlo dalla carica di presidente, per cui, di fatto, Caputo continuò a svolgerne le funzioni, alimentando il rancore dei suoi avversari politici. Nelle lettere che, tra luglio e settembre 1923, il segretario politico del Fascio indirizzò al dirigente zonale e provinciale del PNF Oronzo Portaccio, ritorna, perentorio, il ciceroniano quousque tandem? Fino a quando i vertici provinciali del PNF sarebbero rimasti inerti di fronte alla pervicacia antifascista di Caputo? Fino a quando sarebbe stato tollerato che Caputo continuasse a ostacolare la piena affermazione del fascismo a Tricase? Fino a quando gruppi «non omologati al fascismo» avrebbero continuato a pretendere di preservare la propria autonomia politica? Si rendeva necessario – a parere dei dirigenti del Fascio – un deciso intervento per costringere alle dimissioni il Caputo, «un individuo che tiene un paese in subbuglio, un Fascio da dieci mesi in agitazione, un individuo che fa vergogna all’Associazione ex combattenti». Quali le “gravi” colpe del Caputo? «Tutti i nostri avversari fanno capo al Caputo, siano essi disertori o imboscati, ex combattenti o non, bianchi o rossi, poco importa ricevono da lui protezione perché nostri nemici», queste le accuse mosse nei suoi confronti. E, ancora: «continuando così, dinanzi all’opinione pubblica locale, scemerà anche il valore morale del Fascio, poiché fanno capire ad arte che noi non si reagisce perché più deboli e vili, e spesso debbo lottare perché i fascisti non manganellino coloro che insozzano con la loro iscrizione l’Associazione ex combattenti […] è col cuore sanguinante che in qualità di fascista ed ex combattente vero vedo il disaccordo fra la nostra Sezione e quella degli ex combattenti, cosa che nell’interesse nostro e loro dovrebbe cessare. E’ mio parere che la Federazione Provinciale ex Combattenti voglia prendersi giuoco di noi tutti. Difatti quale canzonatura è quella della sospensione del Caputo, se questi non ha per un giorno cessato dallo sbrigare tutte le pratiche inerenti alla Sezione, ed è costantemente assieme all’avv. Piccoli a confabulare in modo così misterioso che pare congiurino?!?». Appare verosimile che la volontà politica di raggiungere al più presto l’obiettivo della completa fascistizzazione del paese portasse qualche dirigente ad usare nei confronti di chi veniva percepito come un tenace avversario politico espressioni e frasi del tipo «sembra assurdo che non si riesca a togliere di mezzo un individuo», che poi l’esaltazione passionale di qualche militante avrebbe potuto interpretare in un senso diverso e con esiti drammatici; si rendevano conto di ciò i dirigenti del Fascio? Di fronte a quanto sarebbe di lì a poco accaduto, porsi questa domanda non appare inutile per una corretta indagine storica. Se non si tiene conto di come il fascismo avesse, con la sua cultura dell’odio e della violenza, sconvolto gli animi di quanti vi avevano aderito, non si riuscirà a comprendere fino in fondo il senso degli avvenimenti che, pur circoscritti ad una piccola realtà come Tricase, possono essere utili per la comprensione della stessa storia nazionale. L’obiettivo dei dirigenti del Fascio era quello di mettere Caputo nella condizione di non poterne ostacolare i progetti, nessuno di loro probabilmente si rese conto che il tono violento delle loro pretese e la volontà, anch’essa violenta, di non consentirgli alcuna attività politica, avrebbero potuto creare le condizioni perché si giungesse ad esiti drammatici.
L’assassinio
Sulla base dei documenti giudiziari, è possibile sostenere che nessuno dei dirigenti fascisti avrebbe voluto che i forti contrasti politici esistenti portassero all’eliminazione fisica di Roberto Caputo da parte di Emanuele Adago (tra i fondatori del Fascio), il quale, nell’esaltazione parossistica di un presunto compito di «pacificazione» che il fascismo in quanto «Idea e Programma» gli assegnava, non esitò, la sera di quella tragica domenica 23 settembre, ad uccidere colui che veniva percepito come «l’Ostacolo sulla strada del trionfo e dell’affermazione della nuova Italia, sulla strada della conquista degli animi e delle coscienze dei Tricasini». Dalle indagini condotte dalla polizia giudiziaria, dalle testimonianze, dai memoriali indirizzati da Adago al Giudice Istruttore e al Presidente della Corte di Cassazione, emerge il movente politico dell’omicidio. Lo stesso Adago, dopo qualche timido tentativo di dimostrare che a spingerlo al delitto era stata una «provocazione» messa in atto da Roberto Caputo (provocazione esclusa, però, da tutte le testimonianze), in seguito sostenne sempre la tesi dell’insanabile contrasto politico come movente dell’omicidio. Nel Caffè del Tempio, alla presenza di numerosi avventori, Adago esplose un primo colpo che raggiunse Caputo alla spalla costringendolo a piegarsi su se stesso e, prima che gli esterrefatti presenti, «paralizzati dal terribile avvenimento», potessero fare qualcosa per bloccarlo, Adago, a bruciapelo, esplose due colpi che raggiunsero al torace Caputo, che stramazzò al suolo, invano soccorso da un gruppo di amici che non poterono fare altro che constatarne la morte. Caputo lasciava la vedova Erminia Turco e due bambini piccoli, Bonaventura e Aida; anche il suo assassino era padre di tre figli.
I giornali locali
Sotto il titolo L’efferato delitto di Tricase il giornale La Provincia di Lecce del 30 settembre riportò la notizia dando un ampio risalto alla descrizione dei fatti, alla reazione della folla e al funerale che si era svolto il martedì successivo con una grande partecipazione di popolo. Nell’articolo si legge, inoltre, che il giorno successivo all’uccisione di Caputo («di sentimenti pacifici e patriottici era amato da tutto il paese che ammirava in lui il giovane laborioso, gioviale e disinteressato») una folla numerosa si era recata nella sede del Fascio, si era fatta consegnare la chiave e il gagliardetto, aveva preso i ritratti e le bandiere che vi si trovavano e aveva depositato il tutto nella Sezione Circondariale Combattenti, mentre i negozi e gli stabilimenti erano rimasti chiusi in segno di lutto.
Il funerale
Al funerale avevano partecipato una massa imponente di popolo e le delegazioni dell’Associazione Provinciale Combattenti, dell’Associazione provinciale e locale dei Ferrovieri, oltre alle autorità comunali. Sul giornale locale (Il Tallone d’Italia) la notizia dell’uccisione di Caputo (ricondotta ad un episodio di cronaca nera) venne presentata come l’esito drammatico di un diverbio e di una rissa «tra l’operaio tappezziere delle ferrovie salentine Roberto Caputo da Tricase e il meccanico Adago Emanuele nativo di Ginosa e residente a Tricase da più di trent’anni». Non seguiva alcun commento, tranne una breve considerazione finale («ci asteniamo dal raccogliere le diverse versioni del fatto che corrono nella bocca del pubblico per rispetto alle autorità inquirenti»).
Processo e (lieve) condanna
L’avvocato Antonio Dell’Abate, difensore di Adago, sostenne la tesi del «delitto politico avente fine nazionale»; tutte le circostanze al vaglio degli inquirenti, d’altronde, sembravano convergere in tale direzione. La sentenza, emessa il 13 maggio 1925, configurò il delitto come omicidio volontario; concessi i benefici della «provocazione lieve» (che comportava la riduzione di un terzo della pena prevista nel minimo di anni 18), e delle «attenuanti generiche» (che comportava la riduzione di un ulteriore sesto della pena inflitta), la Corte d’Assise condannò Emanuele Adago ad anni dieci di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e ad anni due di vigilanza speciale, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile (la vedova Erminia Turco, costituitasi anche in nome e per conto dei figli, rappresentata dall’avvocato Michele De Pietro). Poiché il delitto era stato determinato da «movente politico» gli venne concesso il beneficio del condono di anni tre. La Corte di Cassazione, con sentenza del 3/2/1926, confermò la decisione della Corte d’Assise di Lecce; con successiva ordinanza del 17/5/1926 la Cassazione concesse all’imputato l’ulteriore beneficio di quattro anni di condono ai sensi di un nuovo decreto di amnistia emanato dal governo. Di lì a poco, dopo avere scontato meno di tre anni di reclusione, Adago venne rimesso in libertà.
La Sezione Circondariale Combattenti, dopo i tragici avvenimenti che l’avevano colpita, mantenne, sia pure a fatica, la propria autonomia fino al 15 dicembre del 1925, quando fu obbligata a trasformarsi in una appendice del Fascio. Il presidente Mario Ingletti, in tale circostanza, fece inserire nel verbale di passaggio di consegna dai vecchi ai nuovi dirigenti imposti dal Fascio la seguente dichiarazione: «i Combattenti di Tricase, consci dell’attuale stato di cose in cui è conculcato ogni diritto, sono soppresse tutte le libertà, anche le più elementari ad ogni vivere civile, si astengono di elevare protesta per la violenza commessa ai danni della loro libera organizzazione, ma dichiarano di serbare nell’avvenire vivo ricordo dell’arbitrio consumato a loro danno. Dichiarano inoltre che essi riconosceranno sempre quali capi della loro organizzazione i compagni liberamente eletti e considereranno soltanto degli intrusi gli altri comunque imposti».
Andrano
Essere Salentini, la parola ai Dirigenti scolastici
Questa volta per il tema cosa significa essere salentini oggi – Simu salentini – abbiamo sondato il mondo della scuola, e con essa chi la vive in prima persona, chi la forgia e si spende…

Vivere nel Salento da donna, da madre, da dirigente del mondo della scuola: essere nata dalle nostre latitudini e averci vissuto l’adolescenza, in un paesino dove il valore della famiglia e degli amici diventa un “per sempre”, dove le passeggiate negli uliveti de “Li Paduli” ti riempiono i polmoni d’aria sana, dove non si conoscono le montagne ma si gode del mare pulito, del sole che illumina le giornate, ti segnano la personalità.
Una terra, il Salento, incorniciata tra due mari, che nella storia è stata influenzata dalle più svariate culture e che ha fatto proprio il senso dell’accoglienza.
Il salentino che incrocia (o cerca) lo sguardo di una persona sconosciuta, “straniera”, o di un anziano, esprime con semplicità il senso del rispetto con il saluto.
Quel rispetto che trasforma quel “lei” in “signoria”. L’essere salentini è una virtù da tramandare come una delle tante tradizioni che ci contraddistinguono. Dalla nostra terra, però, spesso si deve partire e andare lontano.
Ho studiato nell’Università salentina che nulla ha da invidiare alle altre ma ho anche lavorato lontano da casa e so cosa vuol dire.
Conosco bene la durezza del distacco anche perché tanti anni fa mio padre, come tanti altri, fu costretto a lavorare per lunghi periodi in Svizzera per sostenere la famiglia. Più avanti hanno fatto le valigie anche mio fratello e mia sorella.
Di tempo ne è passato ma, purtroppo, da questo punto di vista, poco è cambiato.
Oggi la cosa più dura è dover accettare, per il loro bene, che anche i nostri figli, dopo gli studi, scelgano di andare altrove: per confrontarsi con i migliori nel loro settore e crescere professionalmente o solo per avere un’opportunità.
Ecco, il mio sogno è che, se non i nostri figli, almeno la generazione che verrà dopo possa avere l’opportunità di brillare di luce propria senza dover lasciare il Salento.
Come al solito molto passa dalla scuola che ha anche il compito di cambiare il tessuto sociale dalle fondamenta. Ma, ahimè, non basta.
I politici a tutti i livelli, gli amministratori, dovrebbero fare uno sforzo per avvicinarci al resto dell’Italia e, oggi è doveroso, al resto del mondo. Anche geograficamente. La rivoluzione del web ha avvicinato le distanze ma solo virtualmente.
Nella realtà noi per prendere un aereo dobbiamo arrivare a Brindisi o, più spesso, a Bari. E, se ci si affida ai trasporti pubblici, diventa un viaggio interminabile, quello che occorre per coprire quelle distanze siderali che ancora ci dividono dal resto del mondo.
Rina Mariano
Essere salentini per me – che lavoro con i giovani – significa, innanzitutto, far uscire i ragazzi da quell’idea di autoreferenzialità che soffocherebbe la loro naturale voglia di crescere.
La sfida, allora, è quella di coniugare l’identità delle origini con l’apertura ad altre realtà. Se il Salento non è l’ombelico del mondo, occorre rifuggire da due rischi opposti: da un lato, non apprezzare la nostra terra, la nostra storia, i nostri beni artistici e le nostre bellezze naturali, e, dall’altro, ritenere che il Salento sia la realtà migliore possibile e quindi che non necessitiamo di alcun possibile contributo che ci venga dalla contaminazione con altri mondi.
Per questo ho sempre proposto agli studenti percorsi di apertura e di scambio (vedi progetti Erasmus) così da conoscere altre realtà ma anche far conoscere ad altri ragazzi, anche provenienti dall’estero, il nostro territorio.
Alcuni valori, tipicamente salentini, come quello della apertura alla solidarietà sono quanto mai preziosi per i nostri tempi; in questo, la tenuta delle famiglie e la ricchezza di umanità che viene dai nostri piccoli centri urbani (a dimensione di persona) costituiscono autentici tesori, oltre a quelli del mare e della entroterra, che devono essere innanzitutto conosciuti e quindi esportati.
Ma guai se i nostri ragazzi pensassero di potersi chiudere! Del resto il Salento, terra tra due mari e proiettata nel Mediterraneo, ha la vocazione allo scambio. In questo scambio e su questo scambio può costruirsi il futuro anche per i nostri giovani.
Se dovessero decidere di andare, per qualche tempo fuori o per motivi di studio o per motivi di lavoro, devono mantenere forte il legame con la loro terra e, nella logica dello scambio, esportare i loro sani valori e la loro voglia di realizzarsi per poi acquisire esperienze e riportarle qui da noi.
Quanti ragazzi usciti dai nostri Istituti si sono affermati in Italia e all’estero. Dobbiamo ora creare le condizioni per un loro ritorno e per favorire l’inserimento sin da subito qui da noi.
Le occasioni non mancano e la fantasia e la determinazione, tipiche di noi salentini, costituiscono preziosi ingredienti che possono aiutare i nostri ragazzi in questo percorso. Salento non ombelico del mondo, ma neppure un passo indietro rispetto al mondo.
Chiara Vantaggiato

Anna Lena Manca
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Ivano De Luca, Dirigente scolastico ad Andrano
Sono un dirigente scolastico nel cuore del Salento, un catalizzatore di cambiamento in un contesto che ha bisogno di evolversi. La mia missione è cercare di rompere le barriere del campanilismo e della didattica consolidata, aprendo la strada a un’educazione inclusiva e innovativa che rifletta le sfide del nostro tempo.
Inizio dalla consapevolezza delle barriere architettoniche e mentali che limitano la nostra crescita. Non solo parlo di muri fisici, ma di confini che restringono la mente. Voglio che la scuola salentina sia aperta a tutti, un luogo dove ogni studente trovi ispirazione, indipendentemente dalle radici geografiche anche con progetti basati su una didattica innovativa. In un mondo che cambia rapidamente, non possiamo permetterci di restare ancorati a metodi di insegnamento obsoleti.
Laboratori e approcci creativi sono le chiavi per preparare i nostri studenti alle sfide del futuro, rendendo la scuola un luogo dinamico e stimolante. Un’altra sfida è convincere la comunità sull’importanza di una scuola sempre aperta, anche quando il richiamo del mare nei mesi caldi sembra irresistibile, perché la scuola è un rifugio sicuro e formativo, che sfida l’idea che l’apprendimento debba fermarsi durante l’estate abbandonando i giovani alla nullafacenza, quando loro stessi dovrebbero essere i fautori della rinascita della nostra terra.
E infatti nel perseguire l’avanguardia, non dimentico le «radici ca tenimu». Il nostro patrimonio naturale e culturale è una risorsa inesauribile. Incentivare la passione verso l’agricoltura è la mia risposta. Non solo per trasmettere abilità pratiche, ma per alimentare il desiderio di investire nel nostro territorio.
Immagino una nuova generazione di imprenditori che puntano sulle tradizioni dei nonni, contribuendo così al possibile ripopolamento del territorio salentino.
La realtà è che la scuola in Salento deve diventare un’anteprima di opportunità, un trampolino di lancio per i nostri ragazzi verso il successo in metropoli e oltre. Analizzando attentamente le opportunità lavorative locali, possiamo offrire una prospettiva socio-economica che dia una svolta alla vita dei nostri giovani.
La Scuola nel Salento deve plasmare un futuro in cui l’educazione “salentina” sia competitiva, inclusiva e radicata nelle nostre tradizioni. La scuola deve essere il faro che illumina il cammino dei giovani, preparandoli a un viaggio che li porterà non solo nelle metropoli, ma anche a valorizzare e contribuire al rinascimento del Salento, un luogo che merita di essere riscoperto tutto l’anno.
Ivano De Luca
Attualità
Dopo The Voice Kids, Mattia di Calimera spopola sul web e i social
Mattia affetto da una malattia rara alla gambe, ha trascorso molto tempo della sua giovane vita all’ospedale Gaslini di Genova dove ora canta e trasmette per Radio per i bambini ricoverati…

Mattia emozione a The Voice Kids e spopola sul Web.
Il tredicenne di Calimera sta riscontrando un’enorme successo dopo la sua esibizione nel programma trasmesso su Rai 1, ieri sera, condotto da Antonella Clerici.
Mattia affetto da una malattia rara alla gambe, ha trascorso molto tempo della sua giovane vita all’ospedale Gaslini di Genova dove ora canta e trasmette per Radio per i bambini ricoverati.
Mattia è stato accompagnato alla terza puntata delle blind dalla sua famiglia e dal suo vocal coach Tony Frassanito. Non ha avuto la gioia di essere scelto da Gigi D’Alessio e Loredana Bertè che erano gli unici
alla ricerca di un concorrente visto che Clementino e Arisa avevano completato già la loro squadra.
Non fortunato ad essersi esibito alla fine delle selezioni, è un fan di Albano ed ha cantato “E’ la mia vita”, in modo impeccabile. Dopo l’esibizione il pubblico gli ha regalato una standing ovation e ha duettato con Gigi D’alessio con la canzone “U surdat’ innamuratu”.
il link dell’esibizione:
https://www.raiplay.it/video/2023/12/the-voice-kids-2-mattia-canta-la-mia-vita-08122023-274e97e1-9f96-4c3f-ba27-dee9bb3a8d88.html
Alezio
Casarano: oggi l’intitolazione di una piazzetta a don Antonio Minerba
«È stata una persona sempre disponibile verso il prossimo, in special modo verso i giovani e i più deboli», sottolinea il primo cittadino, «una testimonianza concreta del suo pieno sacerdozio, anche al di là della sua parrocchia».

Nonostante siano trascorsi soltanto tre anni dalla scomparsa dell’amato sacerdote don Antonio Minerba, l’amministrazione comunale di Casarano si è prodigata ad ottenere una deroga alle disposizioni di legge in materia di intitolazione di toponimi a personaggi deceduti.
«Sin dal primo momento di quel luttuoso evento del 22 ottobre 2020», ricorda il sindaco Ottavio De Nuzzo, «abbiamo sempre avuto in animo di porre in essere un’iniziativa mirata a far ricordare perennemente ai casaranesi la stupenda figura di don Antonio senza necessariamente attendere i dieci anni prescritti».
«È stata una persona sempre disponibile verso il prossimo, in special modo verso i giovani e i più deboli», sottolinea il primo cittadino, «una testimonianza concreta del suo pieno sacerdozio, anche al di là della sua parrocchia».
Infine l’annuncio: «La Prefettura di Lecce ha concesso la richiesta autorizzazione per l’intitolazione al nostro sacerdote di un sito cittadino, pertanto, sono lieto di invitare tutti alla cerimonia di intitolazione a suo nome».
Cerimonia che avrà luogo in via Corsica, in quella che diventerà “piazzetta don Antonio Minerba”, sabato 9 dicembre, a partire dalle ore 10.
Don Antonio fu ritrovato senza vita il 22 ottobre 2020, nella sua abitazione in via Garibaldi ad Alezio.
La scoperta nella tarda mattinata, mentre i genitori lo attendevano per pranzo ad Aradeo, suo paese d’origine.
Il sacerdote, in seguito ad un malore, un infarto, è caduto sbattendo il capo.
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