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Approfondimenti

Gli effetti del Covid sull’economia provinciale

Il Salento accusa il colpo più duro sul fronte economico. Quello che sta caratterizzando questa fase di emergenza Covid, è lo spettro della recessione e dal conseguente pericolo rappresentato dalla diffusione di maggiori diseguaglianze sociali.  Questo è il preoccupante scenario che emerge dal rapporto “L’economia della Puglia 2020” presentato  dalla Banca d’Italia. E in questo quadro le donne…

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Come è avvenuto in tutto il Paese e in particolare nel Mezzogiorno anche in Puglia il confinamento e la chiusura imposta dalla pandemia ha prodotto una significativa perdita di Prodotto interno lordo.


Infatti nella nostra regione il calo del Pil si è attestato intorno al quattro per cento rispetto al cinque per cento in meno registrato a livello nazionale. Un dato che fa il paio con l’arretramento anche degli indicatori del benessere, se è vero che la Puglia è la quarta regione italiana per numero di domande per il reddito di cittadinanza e una quota di famiglie in povertà relativa, ossia con una spesa equivalente inferiore alla metà di quella media nazionale che, nel 2018, era pari al 20% per cento, a fronte dell’11,8 dell’Italia.


L’emergenza Covid-19 «sta avendo significative ripercussioni sul mercato», si legge nel rapporto.


La quota di occupati nei settori sospesi da marzo a maggio è stata del 31%; a marzo il flusso di nuove assunzioni nel settore privato non agricolo si è ridotto di oltre un terzo.


Nei primi quattro mesi del 2020 le ore di Cig autorizzate sono, infatti, quintuplicate viene sottolineato nella relazione tecnica.


Anche la Svimez, che raramente indugia su stucchevoli “narrazioni”, nel confronto tra quest’anno e quello che verrà, prevede per la nostra regione una marcata recessione.


All’interno di questo fosca cornice notiamo che è Lecce la provincia ad accusare il colpo più duro sul fronte economico.


La crisi generata dalla pandemia ha provocato una sforbiciata nei post di lavoro di non poco conto.


Sono esattamente 2.646 i dipendenti persi nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto: di questi, più della metà, ossia 1.593, sono in provincia di Lecce.


È quanto emerge da uno studio sulle imprese attive, riferito al primo semestre di quest’anno, condotto dall’Osservatorio Economico di Aforisma School of Management.


«Nel Leccese», spiega Davide Stasi, responsabile dell’Osservatorio, «si è passati da 179.128 unità lavorative a 177.535. La perdita di questi posti di lavoro è dovuta, principalmente, al mancato rinnovo dei contratti a termine e per la forte stagionalità del settore turistico-ricettivo (-1.216 addetti), oltre alla crisi sul fronte dei servizi di informazione e comunicazione (-1.427)».



Anziani, servizi  e impegni di cura delle donne al tempo del Covid


Lo shock imposto dalla fase emergenziale ha provocato maggiori impegni di cura e assistenza ai figli e agli anziani in famiglia, dove la maggior parte del lavoro domestico è sempre stato svolto dalla donna


La situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo ha contribuito a mettere in luce alcune caratteristiche del welfare italiano, sostanzialmente centrato sulla famiglia come ammortizzatore sociale e caregiver primario ed imperniato sulla figura femminile. La pandemia ha infatti messo a dura prova molte famiglie, le cui figure più esposte sono state le donne, chiamate a riorganizzare i ritmi della quotidianità dividendosi tra lavoro, cura della casa, gestione delle attività scolastiche e dei momenti di gioco dei figli e spesso assistenza ai familiari più anziani.


Lo rileva Donna e cura in tempo di Covid-19, un’indagine di Ipsos per WeWorld, i cui risultati dimostrano che il 60% delle donne italiane ha dovuto gestire da sola famiglia, figli e persone anziane, spesso insieme al lavoro: un carico pesante, che ha portato 1 donna su 2 in Italia a dover abbandonare piani e progetti a causa del Covid. Gli ultimi dati Istat fotografano in modo impietoso, con la crudezza dei dati, il fenomeno: oltre il 70% del lavoro familiare è a carico della donna; solo il 50% delle donne ha un’occupazione a tempo pieno; la retribuzione del lavoro femminile nel nostro Paese è tra le più basse d’Europa. Insomma, le donne in Italia quando lavorano sono discriminate e in ogni caso il lavoro di cura (dei propri famigliari e della rete parentale allargata) grava ancora oggi sulle loro spalle.


Una situazione che le costringe a un percorso “multitasking” che incide a fondo sul benessere della loro vita. Quando i demografi, i sociologi, gli psicologi  e gli esponenti sindacali  pongono  oggi con insistenza  il problema della conciliazione dei tempi di vita e di cura, fanno sostanzialmente riferimento agli “equilibrismi” che la donna è costretta a compiere per incastrare nella sua vita quotidiana il lavoro fuori casa, quindi il suo impegno professionale, con tutti gli impegni e le responsabilità legate alla cura domestica, alla cura dei figli e dei suoi famigliari.


Questo perché, ancora oggi, in maniera molto estesa, si ritiene che il lavoro di cura sia di “competenza” pressoché esclusiva del mondo femminile.

«Oltre ad un’innegabile arretratezza culturale che ancora caratterizza il nostro Paese e che risulta evidente nel persistere di tanti stereotipi e luoghi comuni sulla divisione dei ruoli e sulla gestione dei carichi famigliari, una delle cause principali di questa situazione è l’impianto fortemente familistico del sistema di welfare italiano», sottolinea a proposito la sociologa Chiara Saraceno, «che tuttora delega alle famiglie la responsabilità di cura sia degli adulti in condizione di dipendenza, sia dei bambini”.


Che sia per carenza di risorse o per incapacità di intercettare i bisogni della collettività, il welfare pubblico fatica a rispondere alle esigenze delle famiglie.


Un buon numero di famiglie non possono contare ancora oggi su una rete di servizi sociali che consenta ad entrambi i genitori di affrontare gli impegni professionali e quelli legati alle responsabilità famigliari con un minimo di serenità.


Il rischio è quello di un arretramento sociale.


I servizi per le famiglie e l’infanzia erano già pochi prima della pandemia, adesso probabilmente saranno anche meno.


Bisogna tener conto poi di un altro importante aspetto: i danni psicologici prodotti dalla pandemia.


La paura della situazione nuova, inattesa e potenzialmente dannosa per la salute, in una condizione di isolamento sociale, hanno inevitabilmente incrementato il malessere psicologico, predisponendo al rischio di cadute depressive.


Particolarmente esposte a questi effetti perversi  sono le  donne che si destreggiano,  tra l’impegno lavorativo, la scuola  dei figli a casa  e la cura delle  persone anziane. In questi mesi di pandemia è molto cresciuta la richiesta, anzitutto per iniziativa sindacale,  di potenziare l’assistenza al domicilio e ridurre i ricoveri in ospedale e nelle Residenze sanitarie assistenziali.


Ciò che va potenziato sono principalmente le prestazioni sociosanitarie per la tutela del non autosufficiente nelle funzioni della vita quotidiana: per la cura di sé (lavarsi, vestirsi, nutrirsi, usare il bagno, muoversi in casa e fuori) e per la cura dell’ambiente domestico (fare la spesa, cura della casa).


Tutele senza le quali è inutile anche una buona assistenza sanitaria al domicilio, come ben sa qualunque operatore sanitario. Ma questo tipo di interventi non può consistere solo in poche ore settimanali attualmente garantite dagli operatori sociosanitari: le persone non autosufficienti, per restare a casa, hanno bisogno di aiuti per gli atti della vita quotidiana tutti i giorni, e in numero adeguato.


Se ci accontentiamo di un welfare pubblico che al massimo garantisce poche ore alla settimana condanniamo di fatto al ricovero tutti i non autosufficienti che non hanno famiglie che possano integrare queste poche ore, o col loro lavoro di cura o con denaro per assumere badanti.


«Occorre un’assistenza domiciliare sociosanitaria fondata»,  sostiene Maurizio Motta dell’Istituto per la Ricerca Sociale, «su offerte differenziate da adattare alla specifica situazione del paziente e della famiglia: assegni di cura per assumere lavoratori di fiducia da parte della famiglia (ma con supporti per reperirli e amministrare il rapporto di lavoro, ove la famiglia non sia in grado), contributi alla famiglia che vuole assistere da sé, affidamento a volontari, buoni servizio per ricevere da fornitori accreditati assistenti familiari e pacchetti di altre prestazioni (pasti a domicilio, telesoccorso, ricoveri di sollievo, piccole manutenzioni, trasporti ed accompagnamenti), operatori pubblici (o di imprese affidatarie) al domicilio».


La principale indicazione è pertanto quella di migliorare e meglio articolare l’offerta di assistenza domiciliare se, come  previsto, nei prossimi anni  sono destinati ad aumentare gli anziani soli e isolati.


Anche  il demografo Gianpiero Dalla Zuanna ne avverte l’impellente necessità poiché «i pochi figli (o sempre più spesso l’unico figlio) chiederanno agli enti pubblici e al terzo settore di essere aiutati nell’assistenza socio-sanitaria del genitore, sempre più spesso di entrambi i genitori, quando insorgono seri  problemi di disabilità».


Riscontri analoghi si hanno in ambito sindacale. Piero Ragazzini, Segretario Generale Fnp Cisl, rimarca e constata con amarezza che «le nostre richieste per un welfare nuovo, in grado di far fronte alle sempre più numerose e non facili necessità di una vita che si allunga, portandosi con sé patologie croniche da curare con assiduità, non hanno avuto mai risposte, se non quelle che si limitavano a concessioni occasionali poco efficaci. Abbiamo diritto ad una sanità efficiente, all’altezza delle necessità di una società che cambia, che presenta difficoltà sempre crescenti, dove quasi ogni famiglia ha al proprio interno un anziano, un invalido o un disabile a cui prestare assistenza, conciliando il tutto con esigenze lavorative e familiari».


*: Studio del Prof. Gianfranco Esposito, sociologo e responsabile del Dipartimento Welfare della Cisl.


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Il fallimento della democrazia

Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…

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di Hervé Cavallera

Il prof. Hervé Cavallera

Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.

I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.

Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.

Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.

Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.

L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).

Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.

Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.

Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.

È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.

Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.

Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.

Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).

Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.

Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.

In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.

Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.

Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.

Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.

D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.

Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.

Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.

Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.

Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.

Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.

In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.

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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne

Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

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In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini. 

“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!

Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.

“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.

Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.

Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.

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Islam, l’altra metà della fede

Musulmani in Salento, Pochi luoghi di culto per una fede relegata ancora alle zone d’ombra ed all’autogestione. L’imam di Lecce: «Coltiviamo la convivialità delle differenze». E poi: «Chi sceglie di vivere in Salento sa che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria e separarsi per sempre dai propri cari, a causa dell’assenza di uno spazio cimiteriale islamico»

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di Lorenzo Zito

Non esiste un dato esatto in grado di dirci quanti siano i musulmani in provincia di Lecce; tuttavia, la comunità islamica salentina è in crescita.

L’ultimo censimento risale al 2014, ma resta non del tutto attendibile: all’epoca, furono conteggiati i cittadini provenienti da Paesi islamici e soggiornanti Salento.

Un dato non proprio ortodosso, visto che la provenienza di per sé non rappresenta un passaporto del credo. Sta di fatto che il numero, stabilito in 22mila fedeli, era già di per sé considerevole.

Ci ha parlato di questo dato Saifeddine Maaroufi, imam della comunità islamica di Lecce.

A lui ci siamo rivolti per analizzare la presenza e la vita musulmana in Salento.

Partendo da un punto di domanda: come mai se negli ultimi anni gli arrivi di stranieri sono aumentati (questo sì, lo raccontano i numeri) e molte famiglie musulmane si sono stabilizzate sul territorio, i luoghi di culto continuano ad essere pochi, insufficienti, piccoli e spesso improvvisati?

Facciamo prima un passo indietro, partendo dalla figura dell’imam di Lecce.

Signor Maaroufi, come è iniziata la sua storia in Salento?

«Sono a Lecce da 13 anni, nonostante la mia permanenza sia iniziata quasi per caso. Sono tunisino, vengo da una formazione medica ed ho studiato anche scienze religiose. Durante gli studi, in Tunisia, lavoravo in un call center. Un giorno fui mandato in Italia per fare da formatore ai nuovi operatori che avrebbero lavorato nella nuova sede dislocata di Lecce. Mentre ero qui, in Tunisia scoppiò la Rivoluzione dei Gelsomini, che mi impedì di fare rientro a casa. Da allora mi stabilizzai a Lecce. In seguito, mi ha raggiunto anche la mia famiglia e poi, da un dialogo con la comunità islamica locale, complici i miei studi in scienze religiose, nel 2011 fui scelto come guida spirituale di Lecce».

Chi non conosce la figura dell’imam la immagina un po’ come un vescovo. È corretto?

«Spesso ho riscontrato anch’io come venga fatto questo accostamento, nel tentativo di provare a comprendere meglio questo ruolo. In realtà è qualcosa di diverso, perché nell’Islam non c’è un Clero con una sua struttura gerarchica. Per questo accade che nei Paesi arabi le moschee sono sotto la tutela dello Stato, ed anche il ruolo dell’imam passa da un controllo in un certo senso istituzionale.
Nei Paesi occidentali, come l’Italia, invece, dove tutto questo manca, la scelta dell’imam spetta alla comunità ed è molto legata alle sue conoscenze in ambito religioso. Nel mio caso, poi, pesò anche il fatto che fossi in grado di parlare più lingue, un elemento importante in un territorio che raggruppa fedeli di provenienza eterogenea. Tornando al paragone con la Chiesa va specificato che, nonostante io venga spesso sollecitato a rappresentare pubblicamente la comunità musulmana di tutta Lecce e provincia, non esiste una regola che preveda un ruolo di questo tipo o delle posizioni di subordinazione nei confronti della mia figura».

Qual è la geografia dei luoghi di culto islamici in provincia di Lecce?

«Le moschee presenti in provincia, fuori dalla città di Lecce, sono quattro. Tutte prevalentemente frequentate da fedeli di origine marocchina, infatti la loro esistenza è legata proprio alla presenza di grandi nuclei marocchini che popolano ormai da decenni questi territori. La più vecchia è a Corigliano d’Otranto. Una stanza molto piccola ma che resiste al passare del tempo: è stata aperta negli anni ’80. Un’altra è a Ruffano, dove da lungo tempo si sono stabilizzate tante famiglie di commercianti, anch’essi marocchini. Poi c’è Spongano, paese dove vivono tanti fedeli musulmani impiegati nel mondo dell’edilizia. Qui l’integrazione è passata dal mondo dello sport, attraverso un lungo percorso partito negli anni ‘90 con un’associazione il cui nome, in italiano, significa “I giovani”. Ed infine la moschea di Porto Cesareo, che in questo momento si è trasferita a Veglie. Quest’ultima ha una peculiarità: essendo legata alla natura turistica del luogo, in estate accoglie tanti fedeli che arrivano sul posto per lavorare come venditori ambulanti. A Lecce invece esistono due moschee. Una è nata da poco, sia per dare risposta alla grande richiesta di luoghi di preghiera (i musulmani in città sono circa 7mila) sia per servire una zona scoperta. L’altra è quella in cui mi sono insediato io nel 2011.
Al mio arrivo eravamo in una piccola sala, in uno spazio concesso dal Comune nella zona 167/B. Nel 2014, con un’apposita colletta, abbiamo raggiunto i fondi necessari ed acquistato una palazzina a due piani nel quartiere San Pio.
La nostra moschea oggi è qui: abbiamo scelto questa zona perché è il quartiere multietnico per eccellenza di Lecce e volevamo essere il più possibile vicini alla comunità musulmana.
Abbiamo una grande sala di preghiera, una sala per le donne, dedichiamo degli spazi ai corsi di lingua araba per bambini ed apriamo le porte anche a chi professa altre fedi, per favorire la conoscenza reciproca. Durante il Ramadan, ogni sera accogliamo circa 70 fedeli che vengono a rompere il digiuno in compagnia».

Come mai ci sono così poche moschee sul territorio?

«La presenza di una moschea è legata alla spontanea iniziativa dei cittadini di fede musulmana. Il contesto non sempre aiuta a compiere questo passo, soprattutto dal punto di vista burocratico. La nostra religione non è riconosciuta ufficialmente dallo stato, nonostante in Italia vi siano oltre 2 milioni di musulmani (quasi la metà italiani). Questo ha delle conseguenze pratiche che vanno, ad esempio, dal non potersi assentare dal lavoro per celebrare i giorni di festa islamici, perché non riconosciuti, al dover utilizzare canali non convenzionali per praticare le attività di culto. Accade allora che, proprio per quanto detto, le moschee sul territorio nascono dall’impegno di associazioni fondate musulmani che però, su carta, sono costrette ad avere finalità diverse da quelle reali, agendo in una sorta di zona grigia».

Le istituzioni locali aiutano? Le amministrazioni vengono incontro alla comunità islamica?

«Non sempre, o non abbastanza. Prevale l’ottica utilitaristica. Troppe volte si sente dire “quanti sono i musulmani che votano nella nostra città?”.
Senza il voto, non si ha peso civile nelle scelte e viene meno l’ascolto delle istituzioni. Anche molte amministrazioni che condividono quelle idee che vengono incontro ai bisogni della comunità islamica finiscono per non far nulla, per paura di esporsi a critiche. Per fortuna, l’apertura mentale dei salentini compensa, mantenendo questa una terra d’accoglienza».

Come vivono in Salento i cittadini stranieri musulmani?

«La “convivialità delle differenze” professata da Don Tonino Bello ha fatto breccia nel cuore dei salentini, che da decenni accolgono i fratelli musulmani che arrivano da ogni dove.
Ricordo gli anni in cui gli attentati terroristici nelle grandi città europee avevano seminato panico e islamofobia: anche allora i salentini ci sono stati vicini, perché hanno imparato a conoscere le persone. Il fatto stesso che non esistano quartieri ghetto nel nostro territorio è segno e strumento di convivialità.
Lo straniero qui è il vicino di casa o il commerciante del mercato cui ci si rivolge ogni settimana. Non è un caso se tante famiglie straniere hanno messo radici in Salento, fermando qui quel viaggio migratorio che molte volte prosegue verso il nord Europa o, ancora, spegnendo il sogno del rientro in patria».

Lontano da casa, arrivati qui in Italia, come cambia il rapporto con la fede? Si affievolisce o aumenta?

«Molto spesso cresce. È come se fosse un tratto identitario che, a maggior ragione lontano dalla propria terra, i fedeli vogliono preservare. Vedo tanti giovani avvicinarsi molto di più alla fede dopo esser arrivati in Italia. Questo è uno degli elementi che, qui in Salento, ha reso la
nostra una comunità religiosa salda».

E il rapporto con la Chiesa cattolica?

«È ottimo, c’è un bel dialogo. La Chiesa è impegnata anche nelle attività di prima accoglienza, e questo è un elemento che genera un proficuo contatto sin dall’arrivo del migrante».

Cosa manca, cosa cambieresti sul lato pratico e su quello umano?

«Su quello umano coltiverei ancora l’ascolto per incentivare ulteriormente la vicinanza tra le comunità.
Su quello pratico ci sarebbe molto da fare. Partirei sicuramente dalla possibilità di avere uno spazio cimiteriale islamico. A Lecce e provincia non ve ne sono. Il più vicino è nel Barese. È una grande mancanza che si porta dietro un grande dolore per le famiglie musulmane. Chi sceglie di vivere in Salento lo fa nella consapevolezza che, quando non ci sarà più, la sua salma dovrà tornare in patria. Questo, oltre a comportare delle spese elevate e delle procedure non semplici, significa doversi separare per sempre dalla propria famiglia che ha messo radici in questa splendida terra».

L’Islam e il Salento, l’analisi del prof. Hervé Cavallera, clicca qui

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