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Sanità, come paghi mangi

Il Servizio Sanitario Nazionale sta perdendo una delle caratteristiche distintive e il suo punto di forza: l’accesso universalistico. Di contro, l’incapacità della sanità pubblica di far fronte alla richiesta di prestazioni mediche ha favorito il proliferare di struture convenzionate o del tutto private. Interviste all’assessore regionale Rocco Palese, all’ex direttore dell’Asl Lecce Franco Sanapo (oggi medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina) ed a Suor Margherita Bramato, direttrice generale dell’ospedale “Cardinale G. Panico” di Tricase

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di Giuseppe Cerfeda


Complice anche l’innalzamento dell’aspettativa di vita, negli ultimi anni è aumentata a dismisura la richiesta di prestazioni sanitarie a fronte di una sempre maggiore difficoltà da parte della sanità pubblica di soddisfare la domanda. Conseguenza quasi fisiologica di tale quadro, il proliferare di cliniche, case di cura, centri medici, poliambulatori specialistici privati e/o convenzionati. Questo è accaduto

su tutto il territorio nazionale ed il Salento non fa eccezione.


Rocco Palese, assessore regionale alla Sanità


L’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese, conferma la paresi del servizio pubblico nazionale: «La parte pubblica è enormemente burocratizzata. Chi ha bisogno è costretto a prendere appuntamento con il medico di base; stabilito che ha bisogno di una visita specialistica, dovrà andare al Cup per la prenotazione; dopo la visita specialistica dovrà rifare la trafila per il referto… Mbah, uno si fa quattro conti: se per una radiografia, ad esempio, con 40 euro si riesce in un giorno a fare tutto, vale la pena perdere tempo dietro la sanità pubblica? Senza contare il problema delle liste d’attesa e quindi del tempo che il paziente dovrà aspettare prima di poter finalmente soddisfare i suoi bisogni».


«Come forse mai accaduto prima», ammette Palese, «il servizio sanitario pubblico sta attraversando una fase di profonda crisi rispetto alla sua caratteristica principale che è l’accesso universalistico alle prestazioni, che dovrebbero essere garantite dalla parte pubblica perché non tutti si possono permettere quella spesa per curarsi».


L’assessore regionale evidenzia poi un altro aspetto: «Pur essendo la nostra una provincia a bassa capacità fiscale, con poco reddito, anche da noi si sta diffondendo il fenomeno delle assicurazioni. Prendiamo ad esempio i dentisti: un congruo numero, almeno il 30% dei pazienti che si rivolgono a loro per curarsi, hanno l’assicurazione».


Secondo Palese, sono diverse le cause che stanno determinando l’aumento dell’offerta privata al netto del servizio pubblico: «Innanzitutto vi è stata un’impennata dopo il Covid che ha molto sensibilizzato sulla necessità di screening, controlli cardiologici, ecc. Poi ci sono ragioni di natura diversa che riguardano l’invecchiamento della popolazione che quindi abbisogna di più di cure mediche. Non solo, un ruolo importante lo riveste anche l’aumento dei pazienti cronici. Una volta la cronicità riguardava per la stragrande maggioranza persone con handicap, con malattie rare o diabetici. Oggi, anche grazie allo sviluppo delle cure oncologiche l’aspettativa di vita in media, è più alta. Così come ci sono più opportunità di sopravvivere ad un infarto o ad altre patologie. Grazie a Dio direi oggi si vive di più. Tradotto, però, ci sono più malati cronici che devono essere assistiti».


Ci stiamo, forse, americanizzando?


«Sembrerebbe di si e la cosa non mi piace affatto! Il nostro servizio sanitario è considerato tra i migliori del mondo proprio per il suo accesso universalistico. Siamo in un contesto di tempesta perfetta. Il Covid oltre ad aver mietuto vittime, ha terremotato il servizio sanitario pubblico e rimetterlo in piedi è particolarmente difficile perché non abbiamo risorse sufficienti, i medici sono pochissimi e la richiesta di prestazioni cresce a dismisura».


Secondo lei questo è l’inizio della fine della sanità pubblica?


«Guai! Io continuo a crederci. Siamo davanti ad una criticità enorme, la più grande dal 1978, quando è nato il servizio sanitario nazionale, ma dobbiamo reagire, vincere la sfida e riportare la sanità pubblica ai livelli pre-Covid, o superiori».


Anche prima del covid era manifesto il problema delle liste d’attesa che oggi paiono una montagna impossibile da scalare. In tutta Italia sono stati finanziati più di tre miliardi basteranno per arrivare in vetta?


«È una falsità!», tuona Rocco Palese, «positivo l’investimento, ma non dicano che quei soldi servono per abbattere le liste d’attesa: 2,4 miliardi copriranno i costi del rinnovo dei contratti di tutto il personale; 500 milioni riguardano ’applicazione del nuovo tariffario delle prestazioni sanitarie a partire dal 1° gennaio 2024. Per le liste d’attesa restano circa 500 milioni, di cui poco più di trenta (32-34 milioni di euro) arriveranno in Puglia. Una goccia in mezzo al mare».


Franco Sanapo: «Necessaria radicale e coraggiosa riforma del sistema»


Franco Sanapo, medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina ed ex direttore sanitario dell’Asl Lecce


Sulla questione pubblico-privato nella sanità abbiamo interpellato Franco Sanapo già direttore sanitario dell’Asl Lecce e oggi medico della Direzione Sanitaria della Clinica San Francesco di Galatina che opera all’interno della Clinica dal 2011. La Clinica San Francesco è un ospedale Privato Accreditato (Convenzionato) con il Sistema Sanitario Nazionale. Ha due linee di attività: Ricovero per acuti (60 posti letto per Medicina, Chirurgia Generale, Ginecologia, Otorinolaringoiatria, Urologia e Oculistica), Attività Ambulatoriali (Radiologia, Laboratorio Analisi, Chirurgia Generale, Chirurgia Vascolare, Ostetricia e Ginecologia, Otorinolaringoiatria)


Mi può confermare la tendenza dei cittadini salentini a un ricorso massiccio alle prestazioni a pagamento e, quindi, a un proliferare di strutture private che rispondono a questa domanda di salute?


«Il fenomeno credo sia in linea con l’andamento generale nell’intera nazione. Confermo pertanto l’incremento della spesa sanitaria che i nostri cittadini sopportano di tasca propria non trovando risposte di salute nel sistema pubblico. Confermo anche il proliferare di strutture private, prevalentemente ambulatoriali, che erogano prestazioni sanitarie a pagamento».


Può fornire qualche stima, per inquadrare l’entità del fenomeno?


«Non sono in condizioni di fornire dati provinciali o regionali di quanto spendono di tasca propria i nostri cittadini per curarsi o quante sono le nuove strutture private sanitarie che in questi ultimi anni sono proliferate. Certamente hanno avuto una enorme impennata, basta guardare nei nostri comuni o in quelli vicini per rendersene conto. Il dato nazionale del 2022 indica un esborso da parte dei cittadini – che già finanziano la sanità pubblica e quella convenzionata con l’Irpef – di 41 miliardi e 503 milioni, per circa un quarto (25%) della spesa complessiva che supera i 170 miliardi. Posso tuttavia fornire il trend di crescita della spesa sanitaria a pagamento che rilevo dalla mia postazione lavorativa, che pure ha una attività convenzionata pagata dallo Stato. In un decennio (2012 -2022) le prestazioni ambulatoriali a pagamento hanno avuto un incremento molto rilevante. Non so se in altre strutture convenzionate si sia registrato lo stesso fenomeno, ho tuttavia il sentore che la Clinica sia in numerosa e ottima compagnia».


Perché i cittadini pagano una prestazione sanitaria invece di pretenderla e riceverla da una struttura sanitaria pubblica o convenzionata?


«Il meccanismo è semplice. Nelle strutture pubbliche le attività ambulatoriali e le radiologie sono prese d’assalto, gli addetti (specialisti e personale infermieristico o tecnico) sono pochi o mal organizzati, le attese sono lunghe, a volte superano i 12 mesi. Nel privato convenzionato la ASL assegna una somma annuale definita e invalicabile. Facciamo l’esempio di una struttura convenzionata per l’attività di endoscopia digestiva (gastroscopia o colonscopia) e ammettiamo che per quelle attività siano assegnati 120 mila euro, che significa, in dodicesimi, 10 mila euro al mese. Accade che intorno alla metà del mese, quello stanziamento è esaurito e non è possibile erogare la prestazione, con la conseguenza che slitta in avanti la data di prenotazione che ha già accumulato prenotazioni del mese precedente. L’effetto delle lunghe liste di attesa nel pubblico è la possibilità, per chi se lo può permettere, al ricorso alle prestazioni a pagamento in favore dei medici specialisti pubblici che erogano Attività Libero Professionali Intramoenia (ALPI) negli ospedali pubblici o negli ambulatori della ASL. L’effetto nel privato: o aspetti mesi e mesi se vuoi fare la visita o prestazione strumentale con la ricetta, oppure paghi e fai subito la prestazione. Da qui il proliferare di strutture di “privato puro”, vale a dire strutture che erogano prestazioni sanitarie solo a pagamento».


Secondo lei quali sono le cause di questo fenomeno in così rapida crescita?

«Le cause sono molte. A partire lo scarso finanziamento pubblico del Sistema Sanitario Nazionale. L’Italia destina poco più del 6,8% del PIL alla spesa sanitaria, al di sotto della media dei paese OCSE (nazioni con le economie più forti) e molto al di sotto della media europea. Se compariamo la spesa delle maggiori nazioni europee vediamo che Francia e Germania destinano alla sanità quasi l’11% del PIL, il Regno Unito circa il 10% e la Spagna il 9%. Ricordo che ogni punto di Prodotto Interno Lordo (PIL) significano miliardi su miliardi.

Il Sistema Sanitario Italiano, poi, è prevalentemente un sistema universalistico inserito nel mare magnum del Pubblico impiego che, come tale, ha sacche di inefficienze che affliggono tutta la pubblica amministrazione.

E ancora: l’inappropriatezza delle prestazioni. Non è un concetto astratto. Significa che se lo stato riconosce tutto a tutti (ti chiami John Elkann o Mario Rossi) gratis ognuno si sente in diritto di ricorrere al sistema a prescindere dalla reale necessità (appropriatezza), ingolfando il sistema già in crisi economica di suo. E, di conseguenza, il collasso dei Pronto Soccorso e le liste di attesa lunghissime per avere una prestazione. Nei sistemi sanitari differenti dal nostro, quelli finanziati non con la tassazione generale (IRPEF), ma con le Assicurazioni Sanitarie Sociali Obbligatorie – Germania, Svizzera, Francia, Olanda, Belgio e altre nazioni europee – l’efficienza del sistema è superiore e non si assiste a quanto rileviamo in Italia. Se non si mette mano alla riforma del nostro sistema, rendendolo più simile al modello europeo più virtuoso (modello tedesco), puoi mandare a governare la sanità anche il miglior manager del mondo, il fallimento è garantito. Il nostro sistema risponde a una governance di tipo politico (perché amministra i soldi di tutti). Il modello sanitario alla tedesca risponde a una governance di tipo economico. Notoriamente la politica cerca il consenso, le assicurazioni, seppure sociali obbligatorie, cercano l’efficienza e la sostenibilità».


Ci stiamo americanizzando?


«No, per fortuna! Perché siamo inseriti in una cultura europea che ha fatto del Walfare, contro le storture del liberismo selvaggio, il punto di forza e coesione sociale. Ma se non si mette mano alla modifica del sistema sanitario il rischio è elevato: chi può si cura, chi non può aspetta, con tutte le conseguenze in termini di aspettativa e qualità di vita».


L’attuale situazione delle difficoltà dei Pronto Soccorso, letteralmente presi d’assalto, delle lunghe liste di attesa per ricoveri programmati, per visite specialistiche e prestazioni strumentali è sanabile?


«Si attraverso due meccanismi. Il primo: impiegare più soldi (molti miliardi) ogni anno per assumere medici specialisti, personale sanitario e attrezzature, per aumentare i budget delle strutture convenzionate. A ammodernare l’edilizia sanitaria delle strutture pubbliche e fornirle di strumentazione moderna. Il secondo: mettere mano a una radicale e coraggiosa riforma dell’attuale sistema sanitario governato dalla politica e passare a quello europeo, più efficiente. Il primo meccanismo mi pare irrealizzabile perché o si aumentano le tasse (e nessuno lo vuole) o si aumenta il già mostruoso debito pubblico italiano. Il secondo sarebbe possibile se si abbandonano pregiudizi ideologici».


E la nostra Regione che amministra la Sanità con i trasferimenti economici?


«È vittima dei meccanismi che ho descritto prima, perché viene finanziata (male) dallo Stato. Pochi soldi per la sanità, disavanzo economico annuale e inefficienze sono sotto gli occhi di tutti. Con qualunque partito e con qualunque assessore».


Suor Margherita Bramato: «Pubblico e privato devono coesistere»


Suor Margherita Bramato, direttore generale Azienda ospedaliera “Cardinale Panico”


La premessa di Suor Margherita Bramato, direttrice generale dell’Azienda Ospedaliera “Cardinale G. Panico” di Tricase, è che «la presenza delle strutture private è una possibilità di libera scelta, per chi vuole e ne ha l’opportunità, di accedere a proprie spese alle prestazioni sanitarie. Riguardo alle strutture convenzionate, invece, ritengo siano necessarie. Sono per il sistema misto perché il pubblico, da solo, non potrà mai reggere. è importante, in una democrazia, l’apporto dei privati, soprattutto quelli no profit che condividono la mission dell’assistenza al paziente e quindi siano di supporto, di integrazione o, addirittura, all’interno delle reti. Il nostro, ad esempio, è un ospedale classificato ed è nelle reti. Quindi, dal punto di vista dei servizi, siamo equiparati al pubblico».


Si teme che si arrivi al punto in cui si potrà curare solo chi ne ha la possibilità economica.


«È una questione di organizzazione. Premesso che la rete dell’urgenza-emergenza segue una sua via di priorità, è chiaro che se manca il personale, che è un dato di fatto oggettivo, il sistema va in tilt. Ci vorrebbe un’organizzazione ferrea e la giusta vigilanza sull’adeguatezza delle prescrizioni, perché la programmazione e l’organizzazione reggano».


Non è anche una questione di risorse?


«Certamente. Perché, come dicevo, soffriamo di carenza di personale, oltre ad essere spesso prigionieri anche di una serie infinite di normative che limitano la disponibilità. Quello che è successo di recente con i medici del pronto soccorso barese, puniti (la sanzione è stata poi annullata, NdA) per aver lavorato troppo durante il covid grida vendetta. C’è una discrasia anche all’interno dell’organizzazione governativa: da una parte si chiede di fare il massimo, dall’altra sorgono questioni particolari come quelle vissute da quei medici. Credo che nella vita occorra trovare il giusto equilibrio. Anche per la questione delle liste d’attesa: il problema è a monte, bisogna lavorare cioè sull’appropriatezza delle prescrizioni e distinguere l’emergenza da tutto ciò che può aspettare. Ad ogni modo, il pubblico da solo non ce la può fare ed è necessaria l’integrazione del privato no profit e di quello convenzionato. L’ideale sarebbe un’integrazione reale, senza paura che uno possa prevalere sull’altro, ciascuno al proprio posto in rete con le risorse che ha e tutti al servizio del paziente. In questo modo avremmo un servizio sanitario nazionale efficiente, armonioso e utile alla popolazione. Ribadisco, però, ci vuole a monte una vigilanza sull’adeguatezza delle prescrizioni, altrimenti non si risolverà mai il problema delle liste d’attesa».


Secondo lei esiste il rischio di un’americanizzazione della nostra sanità?


«Il sistema potrebbe non portare a questo se ben gestito, ben equilibrato e ben vigilato».


Oggi il sistema è ben gestito?


«Secondo me non sempre. Si lavora in emergenza e si cerca di tamponare. Occorrerebbe preventivamente avere una certa organizzazione, personale a disposizione… invece nel servizio sanitario nazionale ci rincorriamo sempre. Anche noi, che facciamo parte della rete, purtroppo siamo costretti a lavorare un po’ così, facendo sempre i conti con la carenza finanziaria».


Quindi i fondi non sono sufficienti…


«Assolutamente! Da 12 anni abbiamo il tetto bloccato. In queste condizioni avremmo dovuto chiudere l’ospedale già da un pezzo! Resistiamo, facendo i salti mortali, solo per rispetto al territorio, ai suoi abitanti e alla mission lasciateci in eredità dal Cardinale Panico. Si dovrebbe anche considerare che negli ultimi 15 anni la sanità ha fatto passi avanti enormi con l’utilizzo della tecnologia, dalle protesi di ultima generazione alla robotica, all’intelligenza artificiale. Tutte cose costose. È anche per questo, oltre ai rincari di cui tutti siamo a conoscenza, che i fondi non possono essere gli stessi di 15 anni fa».


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Certezze ed incertezze del presente

Lo spettro della guerra, malavita, femminicidi, violenza dilagante nel mondo adolescenziale e giovanile. E il Salento? Terra di anziani residenti o fugaci vacanzieri…

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di Hervé Cavallera

di Hervé Cavallera

La Pasqua da poco trascorsa dovrebbe aver ricordato ai Cristiani che essa, per il tramite della passione, morte e resurrezione di Gesù, è l’invito al passaggio ad una vita migliore.

Le feste del Cristianesimo, infatti, possono essere considerate come una sollecitazione per un futuro che sia, per i singoli e per la collettività, più buono e sereno rispetto al passato.

Ma l’immagine del presente non è così.

In campo internazionale permangono almeno due conflitti e i rischi che i campi di battaglia si allarghino non sono da sottovalutare.

E non è un problema dappoco.

Poi, per quanto riguarda l’Italia (ma il fenomeno non è solo italiano) si può constatare un aumento della violenza.

E non ci si riferisce solo ai casi più eclatanti, ossia ai delitti legati al mondo della malavita e alla crisi delle relazioni sentimentali (basti ricordare i femminicidi).

Ci si riferisce particolarmente alla violenza diffusa nel mondo adolescenziale e giovanile con i tumulti nelle università volti ad impedire la libertà di parola a conferenzieri non graditi, alle dimostrazioni pacifiste che generano saccheggi e vandalismi di vario genere, alle conflittualità che serpeggiano in certe scuole in una contrapposizione tra docenti ed allievi, con la partecipazione talvolta dei genitori.

Si ha l’impressione di trovarci in un mondo in cui non si riesce più a controllare gli impulsi.

Così accade che le frustrazioni, che sicuramente la maggior parte di noi ha pure conosciuto nel corso della propria esistenza, non vengano superate rafforzando il carattere e abituando a saper affrontare le difficoltà, ma producano comportamenti aggressivi che si propagano con facilità.

Ciò significa che gli adulti, i genitori in particolar modo, devono ben essere attenti oggi più che mai alle dinamiche dell’età evolutiva dei giovani.

Per fortuna sembrerebbe un fenomeno che non riguarda in modo preoccupante il nostro Salento.

Non che manchino i fatti di cronaca nera, ma fenomeni di scontri di piazza da parte di minorenni sono assai pochi.

E qui allora emerge un’altra considerazione: quello dello spopolamento.

Le nascite sono da tempo in netto calo nella Penisola.

Secondo i dati dell’ISTAT in Italia nascono 6 bambini ogni mille abitanti.

Nel Salento al calo demografico si aggiunge poi il fatto che molti giovani compiono gli studi universitari in altre regioni d’Italia e non tornano più nel paese nativo.

Certo, vi sono anche coloro che tornano e con coraggio, come si è scritto su questo giornale, ma sono pochi.

Il Salento diventa la terra di anziani residenti o di fugaci vacanzieri.

E allora l’invito alla gioia che proviene dal suono delle campane pasquali si spegne in una triste rassegna.

Conflitti sempre più minacciosi tanto da spingere qualcuno a sostenere il ritorno alla leva obbligatoria, sviluppo della criminalità organizzata, violenze e tragedie domestiche, violenza giovanile, fragilità nell’affrontare le difficoltà connesse al quotidiano, spopolamento, stagnazione produttiva…

Occorre precisare che non si nega che esistano casi positivi, anzi di eccellenza nella imprenditoria, nei giovani, nella vita coniugale e così via, ma l’ombra del negativo è sempre più visibile e preoccupante.

LA COMUNICAZIONE DELL’EFFIMERO

Vi è poi la sensazione di una crescita dell’individua- lismo accentuato dai social, dalla facilità di esprimere pareri su tutto e su tutti.

Al tempo stesso la comunicazione digitale isola fisicamente l’utente pur avendo egli un contatto online con centinaia se non migliaia di persone.

È la comunicazione dell’effimero, mentre si continua a rimanere soli.

Come diceva l’antico filosofo, l’uomo è un animale sociale; ha bisogno di vivere concretamente, fisicamente col prossimo, non di limitarsi a parole diffuse con mezzi artificiali.

Ed è questo l’aspetto che è il lascito ideale delle recenti celebrazioni pasquali: quello di tornare ad essere una comunità.

Una comunità di persone che si incontrano e dialogano ed elaborano progetti che permettano una crescita economica e spirituale.

Tutto questo richiede buona volontà e competenza, richiede il mettere da parte l’attrazione per il proprio tornaconto, per il proprio particulare come diceva Guicciardini.

È un compito che devono tornare ad assumere quelle istituzioni ad esso preposte quali la famiglia e la scuola.

In un momento storico in cui i legami familiari diventano sempre più fluidi, bisogna che la scuola diventi davvero un centro di formazione di responsabilità oltre che di conoscenze e competenze.

Un futuro migliore è affidato da sempre ad una buona educazione e di ciò dobbiamo tornare a prendere consapevolezza.

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Il fallimento della democrazia

Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…

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di Hervé Cavallera

Il prof. Hervé Cavallera

Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.

I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.

Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.

Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.

Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.

L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).

Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.

Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.

Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.

È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.

Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.

Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.

Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).

Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.

Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.

In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.

Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.

Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.

Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.

D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.

Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.

Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.

Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.

Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.

Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.

In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.

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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne

Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

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In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini. 

“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!

Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.

“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.

Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.

Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.

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