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Essere salentini. Per noi vuol dire…

Cosa vuol dire essere salentini oggi? Il dibattito continua. Gli interventi del presidente del Lecce Saverio Sticchi Damiani, del regista Edoardo Winspeare, dell’attore e regista teatrale Marco Romano e del chitarrista Salvatore Cafiero

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SAVERIO STICCHI DAMIANI, PRESIDENTE DEL LECCE


«Tifare Lecce il modo più intenso e profondo di esprimere la propria salentinità»


«In questi sette anni da presidente del Lecce ho potuto constatare di persona che cosa vuol dire essere salentini».


Non credo di sbagliarmi se dico che il modo più bello, più intenso, più profondo di essere salentini è tifare per il Lecce. Si vive un senso di appartenenza unico: essere tifosi giallorossi va oltre la cittadinanza, oltre il territorio: accomuna l’intero popolo salentino sparso per il mondo.


Tutti i tifosi che vivono nel nord Italia e nel resto d’Europa, che spesso incontro in occasione delle trasferte, in quel momento vivono appieno ed intensamente la loro salentinità.


Quella giornata nel settore ospiti, a supporto della loro squadra di calcio, al fianco dei loro compaesani, per loro rappresenta un “viaggio” a casa: un modo intenso, il più intenso possibile, di vivere la propria salentinità, pur non trovandosi nel Salento.


Ecco, questo mi ha fatto capire che la salentinità più piena, più profonda, si può vivere anche e soprattutto attraverso il sentimento di amore e di passione verso la squadra che rappresenta il proprio territorio.


Il mio modo di sentirmi salentino è stato ed è quello di essere presidente della squadra non per business, non per apparire o per altre finalità.


Vivo il mio ruolo come una sorta di rappresentante del territorio, del popolo salentino.


Dico sempre che la squadra non va in campo solo in quei 90 minuti della partita domenicale, sarebbe troppo poco. La squadra deve stare in campo tutti i giorni, mettendosi a disposizione del territorio, del sociale, delle iniziative di solidarietà.


Abbiamo il dovere di essere presenti negli ospedali, favorire iniziative sociali, andare da chi è ammalato ed è solo.


Non potete immaginare che compagno di vita sia il Lecce per la gente che è sola o ammalata.


Ho scoperto che tanti, grazie al Lecce, trovano un motivo per sorridere e distrarsi dalla solitudine e dalla sofferenza.


Proprio tutti questi fattori, il Lecce come elemento di salentinità, la solidarietà, la compagnia a chi è solo ed ammalato, mi hanno ulteriormente spinto e stimolato in questi anni a fare le cose seriamente.


Sono cosciente del ruolo sociale mio e di tutto il mondo giallorosso: non sono solo il presidente di una squadra di calcio, rappresento un simbolo che unisce e stimola forti sentimenti. Per questo mi sento moralmente obbligato a fare le cose per bene e farle nell’interesse della gente e dell’intero Salento».


Saverio Sticchi Damiani



EDOARDO WINSPEARE, REGISTA


«Salento terza isola d’Italia. Ci si sente accolti e coccolati»


Edoardo Winspeare sul set di Didì il nuovo film in lavorazione


«Il Salento è la mia Heimat (casa, piccola patria) come si dice in tedesco. Patria è l’Italia, meglio l’Europa, ma la mia Patria del cuore, è il Salento. È la terza isola d’Italia: è una penisola ma è come se fosse un’isola, perché staccata dal resto dello Stivale.


Soprattutto il Capo di Leuca è il luogo dove la gente ti saluta ancora con «buona vespra a signurìa».


In me non vi è una goccia di sangue salentino, né pugliese, ma mi sento salentino al 100%! Qui ci si sente accolti e coccolati. Forse non si guadagna bene; il territorio è imbruttito dallo scarso rispetto ambientale, c’è immondizia dappertutto; la Xylella ha massacrato i nostri olivi; e poi per quell’isolamento di cui parlavamo prima, ci si arriva con estrema difficoltà…


Nonostante tutto, c’è una dolcezza, una mancanza di aggressività, che noto e mi manca soprattutto quando sono fuori.


È tutto oggettivamente molto diverso dal resto della Puglia, a cominciare dall’idioma che è un siciliano dolce: addirittura più bello del siciliano.


Vi è qualcosa di retorico, come le definizioni che ci caratterizzano: “lu sule, lu mare, lu ientu”, o “simu tutti salentini”, “ballati la pizzica”…


Tutti elementi che fanno parte della rinascita salentina alla quale anche io credo di aver contribuito. Negli anni ’90 era importante l’identità del territorio, partendo dalla storia antica, dalle caratteristiche linguistiche, storico-culturali e gastronomiche. Una volta acquisite, bisognerebbe andare oltre l’autoproclamazione e cominciare a prenderci cura del territorio per meritare la propria salentinità, che vuol dire anche essere cittadini meritevoli di questa Terra.


Essere salentino per me è molto importante: l’identità di Patria è un concetto concentrico che parte dalla “mia” piccola Depressa per poi abbracciare una comunità sempre più ampia: il Salento, la Puglia, il Meridione, l’Italia, l’Europa e, infine, il mondo.


La nostra è anche una terra di grandissimi uomini, a partire dal padre della letteratura latina, quel Quinto Ennio (III secolo a.C.) che si definiva “Tria Corda”, tre cuori, per la sua conoscenza di ben tre lingue: il latino, il greco e l’osco. Se ci pensate bene la letteratura latina è nata qui: Pacuvio di Brindisi, Livio Andronico di Taranto e Quinto Ennio di Lecce.


Il Salento era il ponte naturale, geografico, culturale fra il mondo greco e quello latino. E poi i miei miti: Don Tonino Bello, Carmelo Bene ed Eugenio Barba. Con il loro non-conformismo, il non seguire il gregge, la loro originalità.

In questo si avverte la loro insularità. Perché, in fondo, il Salento è un’isola e, speriamo, possa anche essere felice».


Edoardo Winspeare


MARCO ANTONIO ROMANO, SCRITTORE, ATTORE E REGISTA TEATRALE


«È un caso se siamo nati qui, ma non è un caso se siamo rimasti»


«Sono in auto. Forse sono un salentino atipico, mi dico mentre guido e rifletto: cosa può significare per me essere salentini oggi?


Bell’interrogativo. Penso che, per assolvermi, scriverò che la condanna di ogni essere umano è, forse, quella di poter vedere il mondo dallo spazietto di vetro rotto che la finestra della vita gli concede: la soggettività.


I grandi uomini magari hanno campi visivi ampi, cosicché sanno cogliere la vita in più ampi orizzonti; invece quelli come me ripiegano guardando la realtà dallo sghimbescio del proprio strabismo che confonde i piani e da dietro un astigmatismo che sfuma i contorni alle cose. Dunque parlerò solo a titolo personale, armeggiando con questa mia soggettività sfocata e obliqua, senza scomodare l’Einsicht di Heidegger che tanto diede filo da torcere al me studente di Filosofia di qualche decennio fa.


Sono un salentino atipico se non sono particolarmente fanatico del mio Salento? Non lo so.


Se non lo sventolo come un vessillo davanti al turista o allo straniero, o quando sono io extra fines; se ci sono posti notissimi del Salento che non conosco, se non sono un appassionato nemmeno della squadra del Lecce?


Sono atipico se non ascolto la pizzica, e men che meno la ballo? Se non ho a casa un tamburello? Ma nun è ca su ieu? Ma non è che iti chiestu alla persona sbaiata? Mentre penso così, mi accorgo che sto pensando in dialetto.


E lì realizzo: ecco, la lingua! La strada dei miei pensieri è lastricata del mio dialetto salentino. E intanto che penso ho parcheggiato davanti al mare e mi si apre il cuore sul ponte del Ciolo.


Ecco perché, forse, sono rimasto e non sono mai andato via, dal Salento. Perché sono figlio di parole antiche che risuonano dentro di me e di un mare che c’era prima di quelle parole, da prima ancora di dirci salentini.


Allora, forse, essere salentini oggi è essere capaci di conservare luoghi come questi che ho davanti agli occhi e parole che li abitano. Perché è un caso se siamo nati qui, ma non è un caso se siamo rimasti, per diventare ciò che siamo: salentini.


È contendere al futuro globale, che spiana i dettagli e le identità, un passato pizzuto come gli scogli di mare, nnudacato come gli ulivi e le schiene dei vecchi.


È sapere restare, oppure sapere tornare, qui, nello scirocco d’Italia. Per non correre il rischio di essere, a breve, intelligenze artificiali. Senza radici, come ogni tecnologia.


E in fondo ogni tanto anche io chiedo “Cci ha fattu lu Lecce osci? Ha persu o ha vintu?”. E pure io mi incanto a guardare una mano che scrive col sangue su un tamburello il dolore di un ragno che balla.


Tiro il fiato, forse sono ancora un salentino: non abbastanza esaltato da credere che après nous le déluge, non così poco da dimenticare che come noi, che siamo l’abbraccio di due mari, esistiamo solo noi».


Marco Antonio Romano


SALVATORE CAFIERO, CHITARRISTA


«Abbiamo una marcia in più»


Salvatore Cafiero, di Miggiano, chitarrista di Raf e Grignani con
moltissime altre collaborazioni (Elodie, Tiromancino, Dolcenera, ecc.), due volte sul palco di Sanremo e attivo
in vari tour e in studio recording


«Essere Salentini? Per me tutto si racchiude nell’avere una marcia in più e vi spiego il perché.


Siamo nati e cresciuti in una terra dove regna la bellezza in tutte le sue forme, la bellezza del mare, del clima, della natura, del cibo. Ed anche la bellezza dei sentimenti tramandati, intrisi di passionalità e legami di sangue che vanno oltre il senso più poetico immaginabile.


Tutto questo nei pregi ma anche nei “difetti” di questa terra, difetti intesi come limiti.


Per esempio, e lo dico per esperienza diretta, la lontananza dai centri nevralgici delle “opportunità”.


Un aspetto che diventa nel tempo, attraverso il sacrificio, un punto di forza: ci si concentra ad accrescere il proprio talento, allenandolo fino a farlo diventare tagliente come una lama.


Perché sai che è l’unica arma che può farti arrivare lontano, superando il limite geografico. Il valore del sacrificio, dell’impegno, contribuisce a creare bellezza, a tutelare il bene prezioso della famiglia ed anche (e soprattutto) ad alimentare il desiderio di riscatto, non solo per sé stessi ma per tutta la propria terra, così lontana, spesso abbandonata dalla politica che conta e vessata, umiliata, dalla cultura del pregiudizio».


Salvatore Cafiero


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Frantoio fratelli Palma: “Oggi rivediamo la luce”

Quintino Palma, del frantoio Fratelli Palma di Cursi, è uno dei pochi olivicoltori ad esser riuscito a tenere in vita la propria azienda agricola passando per due espianti e per altrettanti reimpianti…

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TRA I POCHI SUPERSTITI

Quintino Palma, del frantoio Fratelli Palma di Cursi, è uno dei pochi olivicoltori ad esser riuscito a tenere in vita la propria azienda agricola passando per due espianti e per altrettanti reimpianti, l’ultimo dei quali in corso solo ora dopo le ormai famigerate lungaggini burocratiche.     Lui e suo fratello sono titolari di oltre cento ettari di terreni destinati all’olivicoltura.

Ripercorriamo l’iter che avete seguito dall’arrivo della Xylella ad oggi.

«In scia alle due misure varate dalla Regione Puglia a supporto degli uliveti colpiti dal batterio, abbiamo eseguito due fasi di espianto cui hanno fatto seguito i reimpianti di alcune varietà di ulivo Xylella resistenti. Con il primo intervento, il “Bando Sottomisura 5.2” per le imprese agricole danneggiate da calamità naturali, abbiamo espiantato un totale di circa 50 ettari di ulivi: 25 sui miei terreni ed altri 25 su quelli di mio fratello.
Con la seconda legge, la misura “Reimpianto olivi zona infetta” di cui all’art. 6 del “Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia”, abbiamo espiantato alti 60 ettari circa».

Come sono andati i reimpianti? Che varietà avete utilizzato?

«Con il primo intervento, abbiamo messo a dimora delle piante di Favolosa. Si tratta di coltivazioni super intensive: la raccolta viene effettuata con dei macchinari, che per altro hanno grandi dimensioni, e quindi necessitano anche di ampi spazi per poter lavorare. I frutti li abbiamo visti in quest’ultimo anno e, fortunatamente, abbiamo avuto un riscontro positivo: l’olio di favolosa che abbiamo iniziato a produrre da queste piante un anno fa è di ottima qualità, ed ha anche un buonissimo sapore. Tra i nostri clienti, infatti, sta riscuotendo un grande successo.
I reimpianti legati al secondo intervento sono invece ancora in corso.

In questo caso stiamo piantando due altre varietà: la Lecciana, che è una pianta frutto dell’incrocio tra il Leccino e l’Arbosana (originaria del Penedès, una regione della Spagna), ed il Leccio del Corvo. Ho deciso di variegare anche per avere una produzione eterogenea: cambiando pianta cambiano gusto e sapore. In questo modo potremo soddisfare maggiormente le richieste dei nostri clienti».

Dopo oltre 15 anni dall’arrivo del batterio, si sta finalmente delineando un orizzonte nel settore?

«Purtroppo, no. La gestione delle misure della Regione ha messo in difficoltà gran parte degli agricoltori. Soprattutto coloro che non hanno avuto possibilità di accorparsi, riunendosi ad esempio in cooperative, ed hanno presentato domanda come singoli. Hanno dovuto far fronte ad attese lunghe anche anni. Questo perché sono state fatte delle scelte politiche farraginose, distaccate dalla realtà, se non addirittura dettate da altri interessi. La gestione delle domande per la seconda misura di cui abbiamo parlato, ad esempio, è stata affidata ad ARIF (l’Agenzia Regionale per le Attività Irrigue e Forestali).

Questo ha fatto perdere tempo prezioso appresso alla burocrazia, con le pratiche che una volta elaborate dovevano tornare in Regione per la definitiva approvazione e, a mio parere, ha risentito anche alla della scarsa competenza in materia dell’ente».

Ha conosciuto olivicoltori che hanno gettato la spugna, anche dopo aver presentato domanda di finanziamento?

«Nel mio stesso frantoio ho incontrato tanta gente che ha visto la sua pratica arenarsi, e che non ha potuto far fronte a ciò che ne consegue, abbandonando le sue coltivazioni. Tante risposte alle domande di espianto arrivate 5 o 6 anni dopo.

Nel frattempo, sono subentrati lo sconforto, in molto casi anche l’anzianità, e si è persa anche ogni possibilità di passaggio del testimone alle nuove generazioni. I figli, mentre gli ulivi secchi attendevano risposta in campagna, hanno giocoforza intrapreso altre strade.

Questi sono terreni che non verranno più coltivati. Non è solo un danno al settore ed un danno economico per tutto il territorio, ma è anche un gravissimo danno paesaggistico per il Salento».

Lorenzo Zito

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Xylella, Cazzato agricoltore di Salve: “Sono fiducioso”

«In una campagna in località Schiafazzi “regnava” un albero di olivo che, secondo molti aveva più di 800 anni ed era talmente grande che, spesso, ci venivano gli sposini per fare una foto”…

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OLIO NUOVO IN CAMPAGNA

Cesare Cazzato di Salve, ingegnere e imprenditore agricolo per scelta, seguendo quella che è la sua passione di sempre per la campagna e tutto quello che ne consegue.

La sua azienda è una di quelle che ha tenuto botta alla devastazione causata dalla Xylella e, su oltre 50 ettari, continua a produrre olio e altri frutti della terra.

Eppure, anche i suoi alberi, tanti, di Ogliarola Salentina e Cellina di Nardò, hanno subìto le conseguenze del batterio assassino.

«Ripresomi dalla botta», si racconta, «ho ricominciato a lavorare grazie ad alcuni alberi che avevo piantato quando è nato mio figlio, nel 1984. Erano alberi di Leccino e, in quella circostanza, colleghi e amici mi prendevano un po’ in giro, perché non avevo puntato sulle solite nostre specie. Oggi posso dire che è grazie a quella decisione se non compro olio da altri».

Così, con l’avvento della Xylella, «mi sono attrezzato, prima con l’eradicazione e poi dissodando il terreno, con un costo anche elevato, perché le radici erano molto profonde, visto che quegli alberi erano lì da tanti anni. Dopo ho ripiantato, puntando su una varietà che si chiama FS 17, nota come “Favolosa”.

L’ho potuto fare anche perché ho la fortuna di possedere un pozzo artesiano e, quindi, ho disponibilità di acqua. La “Favolosa” ha costanza nella fruttificazione e vasi linfatici più grossi che le consentono di non subire le conseguenze del batterio della Xylella che, invece, ha ammazzato le altre specie un po’ come fa la trombosi col corpo umano, cioè creando dei glomeruli all’interno dei vasi linfatici che ne interrompono le funzioni vitali.

Il Leccino e la Favolosa non sono immuni alla Xylella, semplicemente hanno vasi linfatici più larghi, con un diametro maggiore, per cui, anche se i batteri nidificano, continuano comunque a vivere e fruttificare senza conseguenze».

Cazzato racconta del suo monumento alla memoria: «In una campagna in località Schiafazzi “regnava” un albero di olivo che, secondo molti aveva più di 800 anni ed era talmente grande che, spesso, ci venivano gli sposini per fare una foto nel suo tronco. Anch’io conservo delle foto con tutti gli operai dentro e vicino quel miracolo della natura.

Bene, quell’albero, o quel che ne resta dopo la Xylella, l’ho voluto conservare, non me la son sentita di eradicarlo. Resterà lì come una statua, un monumento alla memoria».

Anche se l’attività col passare degli anni gode del supporto delle macchine, Cazzato ha ancora dei dipendenti e si dice felice di godere della «collaborazione di molti giovani dediti alla campagna che mi fa piacere incoraggiare».

Aspetto fondamentale su cui si dovrà puntare, quello della diversificazione: «In uno dei miei terreni, tra Presicce e Lido Marini, che ho dissodato, in questo mese pianterò fichi. Si tratta di “Fiche Maranciane” (« praticamente, non hanno bisogno di acqua, sono resistentissime e danno frutti di grande pregio»), e del Fico Dottato (« il migliore d’Italia, quello bianco e con i semi, molto piccoli. Il suo frutto è particolarmente apprezzato»)».

Che futuro in campagna?
«Diversificando avremo ancora un futuro. Sono convinto che tra una decina d’anni il Salento sarà più verde di prima. L’unica eredità positiva che ci lascia la Xylella è la qualità dell’olio.
In passato tutti noi abbiamo piantato alberi molto vicini e per tanti motivi producevamo olio rampante. Dopo quanto accaduto, finalmente, siamo costretti a produrre olio di altissima qualità senza lasciare che le olive cadano a terra. Sono fiducioso.
Anche perché il Salento è un’isola tra i venti. Il vento è l’impollinatore dell’olivo che è una pianta anemofila, cioè ama il vento».

Quindi è già  tempo di voltare pagina e smettere di piangersi addosso per la Xylella?
«Ho piantato mille alberi di Favolosa che già fruttifica. L’olio lo vendo, i numeri non sono ancora quelli del pre-Xylella ma si può andare avanti.
A suo tempo ho avuto la lungimiranza di non disfarmi dell’attrezzatura, come hanno fatto altri, ed ho conservato scuotitore, trattori e quant’altro, perché ero convinto che il Salento sarebbe ritornato verde».

Infine, Cazzato svela: «I nuovi alberi li piantiamo a due metri e mezzo di distanza l’uno dall’altro, perché esiste una macchina, una specie di vendemmiatrice, che passa per filare, scuote e raccoglie le olive e le trasferisce nel rimorchio che corre accanto come se fosse grano. Questo sarà il nostro futuro».

Giuseppe Cerfeda

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Xylella, un altro studio appena pubblicato

Lo studio del prof. Bruno propone il protocollo NuovOlivo® come strategia per consentire la coesistenza tra Xylella e la produzione di olive e olio extravergine di oliva della Cellina di Nardò e dell’Ogliarola Salentina

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ALTRO STUDIO, NUOVOLIVO®
prof. Giovanni Luigi Bruno

Uno studio, pubblicato di recente, del prof. Giovanni Luigi Bruno (il secondo), ricercatore del Dipartimento di Scienze del suolo, della pianta e degli alimenti dell’Università di Bari, sulla “Coesistenza tra Xylella fastidiosa Subsp. pauca e piante di olivo sensibili nella penisola salentina” (vedi a pagina 24), ci ha spinto ad approfondire ancora una volta da queste colonne quello che è stato un cambiamento epocale per il Salento, con la morte di quegli ulivi che per millenni hanno caratterizzato il nostro territorio e che per decenni sono stati al centro dell’economia della sua gente.

La sindrome del disseccamento rapido dell’olivo associata a Xylella fastidiosa è una delle malattie più distruttive degli olivi, in particolare sulle cultivar Cellina di Nardò e Ogliarola Salentina.

Lo studio del prof. Bruno propone il protocollo NuovOlivo® come strategia per consentire la coesistenza tra Xylella e la produzione di olive e olio extravergine di oliva della Cellina di Nardò e dell’Ogliarola Salentina: «Trentadue oliveti privati colpiti da OQDS e coltivati seguendo le tecniche agronomiche in uso nella zona sono stati esaminati durante le stagioni olivicole 2019-2023.

Sono state considerate le cultivar Cellina di Nardò, Ogliarola Salentina, Coratina, Ascolana Tenera, Nociara, Leccino e Bella di Cerignola. All’inizio dell’applicazione del protocollo, le piante sensibili mostravano una gravità dei sintomi OQDS del 40-80% e non producevano olive o olio, mentre le cultivar resistenti(?)/tolleranti mostravano una produzione di olive inferiore a 1-2 kg/pianta.

Dopo la rimozione dei rami secchi a gennaio-febbraio, le piante sono state irrorate due volte all’anno (preferibilmente a marzo e ottobre) con NuovOlivo®, una miscela di estratti botanici in acqua esterificati con oli vegetali in presenza di idrossido di sodio e attivati al momento dell’uso con bicarbonato di sodio. In tutti gli oliveti è stato distribuito un concime a lento rilascio e le erbe infestanti controllate mediante falciatura o triturazione.

Gli olivi trattati hanno prodotto nuova vegetazione, ricostruito la chioma, ridotto i sintomi di OQDS e prodotto infiorescenze e drupe. La produzione di olive è stata da 6,67 a 51,36 kg per pianta, con una resa media del 13,19% in olio extravergine di oliva (acidità libera 0,01–0,2%)».

Secondo il ricercatore, «anche il paesaggio e l’economia pugliese, basati sulla presenza e la produzione di olivi, potrebbero essere salvaguardati».

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