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Miseria e nobiltà

Il ruolo dei nobili, in crisi già con l’avvento dell’età moderna, si è ridotto, per i più, alla mera gestione dei possedimenti senza generare crescita del territorio salentino…

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Come è noto, divenuta l’Italia una Repubblica, i titoli nobiliari non sono più riconosciuti dal 1948 in seguito all’articolo 3 e alla XIV disposizione finale della Costituzione, mentre una sentenza della Corte Costituzionale del 1967 ha confermato che essi non hanno alcuna rilevanza giuridica. E tuttavia la nobiltà ha determinato per secoli e secoli il corso della storia e ciò non può essere dimenticato, come forse può stupire che l’abolizione legale dei titoli nobiliari non abbia comportato forti rimostranze. Per renderci conto di questa accettazione per così dire passiva, basti pensare a ciò che la nobiltà ha rappresentato, per quello che appunto ci riguarda, nel Salento.


Il prof. Hervé Cavallera


Vero è che Il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana riporta circa quattromila famiglie nobili di cui due terzi con titoli nobiliari superiori (principe, duca, marchese, conte, visconte, barone). Nel Salento se ne contano intorno alle trecento variamente imparentate. Numerosissime le famiglie provenienti da diverse parti d’Italia e d’Europa. Ad esempio, dalla Germania provenivano i Castromediano, dalla Spagna i Lopez Y Royo, dall’Albania i Castriota, da Cipro, forse, i Gallone di Tricase.


Sono inoltre da ricordare, senza alcuna pretesa di essere esaustivi o di compiere una graduatoria di merito, gli Acquaviva d’Aragona, gli Arditi di Castelvetere, i Bacile di Castiglione, i Capece, i Cicala, i Foscarini, i Guarini, i Palmieri, i Personé, i della Ratta, i del Tufo, i Winspeare (per una illustrazione, peraltro non completa come precisa l’autore, si rimanda a Luigiantonio Montefusco, Salento nobilissimo, Lecce 2011).


Ora, a prescindere dalla storia delle singole casate e delle varie personalità che si sono particolarmente distinte, si può osservare che il momento rilevante della crescita politica (e di conseguenza territoriale) della nobiltà coincide con il feudalesimo. Con l’età moderna (a partire, cioè, dal XVI secolo) l’affermazione e la stabilizzazione degli Stati nazionali, con la centralità del sovrano, della reggia, della corte (Luigi XIV e Versailles sono chiaramente significativi) hanno di fatto trasformato la figura del feudatario. Ciò si è avuto in ogni parte d’Europa e per quanto riguarda la nostra Italia è esemplare il caso del Mezzogiorno, con il regno più esteso della Penisola. In esso la nobiltà tendeva a concentrarsi e a risiedere nella capitale (Napoli), perdendo di fatto il contatto con il proprio feudo e dedicandosi ad una vita dispendiosa, come del resto richiedevano il rango sociale e la vita di corte. Essendo la ricchezza della nobiltà basata sostanzialmente sullo sfruttamento della proprietà terriera, ciò ha fatto sì, semplificando in questa sede la narrazione, che la nobiltà affidasse la vita economica dei propri feudi a dei sovraintendenti, non sempre innovativi nella gestione, vivendo quindi di rendita, una rendita destinata col tempo ad esaurirsi.


Tutto questo ha generato la crisi dei potentati economici già a partire dalla fine del XVIII secolo. Solo i nobili che sono rimasti nelle proprie terre e/o che hanno saputo investire sono stati in grado di resistere al lento ma inesorabile declino. Si comprende pertanto come il titolo nobiliare, sempre prestigioso da un punto di vista sociale, non corrispondesse ad un effettivo potere e questo spiega come la caduta della monarchia abbia potuto travolgere senza forti resistenze delle titolarità alcune volte ormai meramente nominali.


In tale contesto va notato come le famiglie nobiliari che hanno maggiormente conservato il potere finanziario siano passate da una dimensione di sfruttamento agrario ad una dimensione imprenditoriale. Sempre rimanendo nel nostro Salento, si prenda ad esempio quanto fatto nello sviluppo dell’industria olearia dal barone Filippo Bacile di Castiglione (Spongano, 31 dicembre 1827 – Spongano, 14 settembre 1911) o dai duchi Guarini di Scorrano con le loro aziende vinicole.

Nel 1925 il marchese Luigi Arditi di Presicce fondava, col cavaliere Pietro Galati di Surano, una banca destinata al successo per decenni.


Sono solo alcuni esempi di una parte dell’aristocrazia che già prima della fine della monarchia è riuscita a riciclarsi con successo. Naturalmente questo ha condotto ad una connessione di tali famiglie aristocratiche con l’alta borghesia del commercio e degli affari, configurando una diversa fisionomia del potere economico del territorio. L’aspetto meno toccato è stato quello propriamente industriale, nonostante che già nel 1868 il tricasino Giuseppe Pisanelli avesse sostenuto l’importanza di un arsenale a Taranto, non solo prevedendo in tal modo lo sviluppo industriale di quella città, ma intuendo come la collocazione geografica del territorio potesse consentire una politica industriale in funzione di scambi con altri Paesi del Mediterraneo.

In altri termini, da un punto di vista complessivo il ruolo dei nobili, in crisi già con l’avvento dell’età moderna, si è ridotto, per i più, alla mera gestione dei possedimenti senza generare effettivamente la crescita del territorio, crescita di cui si è invece nel tempo fatta garante, particolarmente nell’Italia centro-settentrionale, la classe borghese. Così l’impronta agraria (e quindi non industriale) di origine feudale è rimasta forte nel Salento (e in tutto il Mezzogiorno), limitando uno sviluppo socio-politico che avrebbe invece richiesto industrie e commercio oltremare, commercio quest’ultimo che, come si è già visto, sarebbe stato opportuno considerata la posizione geografica del Salento.


Di fatto per la provincia di Lecce, di là dal mondo delle libere professioni, dei funzionari statali e dell’accademia, la scelta economica è restata strettamente legata alla stretta valorizzazione del territorio (olivicultura, viticultura, lavorazione del tabacco e successivamente il turismo) con la formazione di una conseguente classe dirigente di amministratori più che di imprenditori di larghe vedute. Per tale aspetto, la transizione dalla monarchia alla repubblica non ha fatto altro che confermare uno status dirigenziale poco dinamico con una stagnazione economica ed una dipendenza della locale classe politica che si sono protratte nel tempo e i cui effetti sono tuttora visibili.


Hervé Cavallera


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Certezze ed incertezze del presente

Lo spettro della guerra, malavita, femminicidi, violenza dilagante nel mondo adolescenziale e giovanile. E il Salento? Terra di anziani residenti o fugaci vacanzieri…

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di Hervé Cavallera

di Hervé Cavallera

La Pasqua da poco trascorsa dovrebbe aver ricordato ai Cristiani che essa, per il tramite della passione, morte e resurrezione di Gesù, è l’invito al passaggio ad una vita migliore.

Le feste del Cristianesimo, infatti, possono essere considerate come una sollecitazione per un futuro che sia, per i singoli e per la collettività, più buono e sereno rispetto al passato.

Ma l’immagine del presente non è così.

In campo internazionale permangono almeno due conflitti e i rischi che i campi di battaglia si allarghino non sono da sottovalutare.

E non è un problema dappoco.

Poi, per quanto riguarda l’Italia (ma il fenomeno non è solo italiano) si può constatare un aumento della violenza.

E non ci si riferisce solo ai casi più eclatanti, ossia ai delitti legati al mondo della malavita e alla crisi delle relazioni sentimentali (basti ricordare i femminicidi).

Ci si riferisce particolarmente alla violenza diffusa nel mondo adolescenziale e giovanile con i tumulti nelle università volti ad impedire la libertà di parola a conferenzieri non graditi, alle dimostrazioni pacifiste che generano saccheggi e vandalismi di vario genere, alle conflittualità che serpeggiano in certe scuole in una contrapposizione tra docenti ed allievi, con la partecipazione talvolta dei genitori.

Si ha l’impressione di trovarci in un mondo in cui non si riesce più a controllare gli impulsi.

Così accade che le frustrazioni, che sicuramente la maggior parte di noi ha pure conosciuto nel corso della propria esistenza, non vengano superate rafforzando il carattere e abituando a saper affrontare le difficoltà, ma producano comportamenti aggressivi che si propagano con facilità.

Ciò significa che gli adulti, i genitori in particolar modo, devono ben essere attenti oggi più che mai alle dinamiche dell’età evolutiva dei giovani.

Per fortuna sembrerebbe un fenomeno che non riguarda in modo preoccupante il nostro Salento.

Non che manchino i fatti di cronaca nera, ma fenomeni di scontri di piazza da parte di minorenni sono assai pochi.

E qui allora emerge un’altra considerazione: quello dello spopolamento.

Le nascite sono da tempo in netto calo nella Penisola.

Secondo i dati dell’ISTAT in Italia nascono 6 bambini ogni mille abitanti.

Nel Salento al calo demografico si aggiunge poi il fatto che molti giovani compiono gli studi universitari in altre regioni d’Italia e non tornano più nel paese nativo.

Certo, vi sono anche coloro che tornano e con coraggio, come si è scritto su questo giornale, ma sono pochi.

Il Salento diventa la terra di anziani residenti o di fugaci vacanzieri.

E allora l’invito alla gioia che proviene dal suono delle campane pasquali si spegne in una triste rassegna.

Conflitti sempre più minacciosi tanto da spingere qualcuno a sostenere il ritorno alla leva obbligatoria, sviluppo della criminalità organizzata, violenze e tragedie domestiche, violenza giovanile, fragilità nell’affrontare le difficoltà connesse al quotidiano, spopolamento, stagnazione produttiva…

Occorre precisare che non si nega che esistano casi positivi, anzi di eccellenza nella imprenditoria, nei giovani, nella vita coniugale e così via, ma l’ombra del negativo è sempre più visibile e preoccupante.

LA COMUNICAZIONE DELL’EFFIMERO

Vi è poi la sensazione di una crescita dell’individua- lismo accentuato dai social, dalla facilità di esprimere pareri su tutto e su tutti.

Al tempo stesso la comunicazione digitale isola fisicamente l’utente pur avendo egli un contatto online con centinaia se non migliaia di persone.

È la comunicazione dell’effimero, mentre si continua a rimanere soli.

Come diceva l’antico filosofo, l’uomo è un animale sociale; ha bisogno di vivere concretamente, fisicamente col prossimo, non di limitarsi a parole diffuse con mezzi artificiali.

Ed è questo l’aspetto che è il lascito ideale delle recenti celebrazioni pasquali: quello di tornare ad essere una comunità.

Una comunità di persone che si incontrano e dialogano ed elaborano progetti che permettano una crescita economica e spirituale.

Tutto questo richiede buona volontà e competenza, richiede il mettere da parte l’attrazione per il proprio tornaconto, per il proprio particulare come diceva Guicciardini.

È un compito che devono tornare ad assumere quelle istituzioni ad esso preposte quali la famiglia e la scuola.

In un momento storico in cui i legami familiari diventano sempre più fluidi, bisogna che la scuola diventi davvero un centro di formazione di responsabilità oltre che di conoscenze e competenze.

Un futuro migliore è affidato da sempre ad una buona educazione e di ciò dobbiamo tornare a prendere consapevolezza.

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Il fallimento della democrazia

Astensionismo: nelle regionali del 2023 raggiunse il 60% in Lombardia e Lazio; nel 2014 in Emilia-Romagna votò solo il 37,7%. Nel 2020 l’affluenza alle regionali pugliesi è stata del 56,43%…

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di Hervé Cavallera

Il prof. Hervé Cavallera

Il 25 febbraio si è votato per la Regione in Sardegna.

I candidati alla Presidenza della Regione erano 4 e le liste presenti 25.

Ora, quello che particolarmente colpisce, a prescindere da vinti e vincitori e dalle stesse modalità di votazione (voto disgiunto, ad esempio), è l’affluenza degli elettori.

Poco al di sopra del 52%, quindi ancor meno dell’affluenza avuta nelle precedenti elezioni regionali.

Né si tratta di un fenomeno meramente sardo.

L’affluenza elettorale è effettivamente bassa e, come si suole dire, l’astensionismo è in assoluto il maggior partito in Italia (ma la situazione non è dissimile anche in altri Paesi europei).

Nelle regionali del 2023 l’astensionismo raggiunse il 60% in Lombardia e nel Lazio e nel 2014 in Emilia-Romagna per l’elezione del presidente della Regione votò solo il 37,7% degli elettori.

Nel 2020 l’affluenza alle regionali in Puglia è stata del 56,43%. Ciò non può lasciare indifferenti in quanto, se democrazia significa partecipazione, il “successo” dell’astensionismo significa fallimento della democrazia.

Esiste ormai nella realtà uno scollamento tra cittadini e politica.

È un dato inequivocabile che non può essere risolto con la diffusione del cosiddetto “civismo” ossia con la nascita di movimenti localistici.

Invero nel 1946 l’Assemblea Costituente introdusse il principio della obbligatorietà del voto che però all’art. 48 della Costituzione italiana risulta solo un dovere civico.

Nel 1957, col D. P. R. n.361, si rendeva obbligatorio il voto nelle elezioni politiche, dichiarando che occorreva fare un elenco degli astenuti.

Il tutto poi venne meno nel 1993 (D. L. 20 dicembre 1993, n . 534).

Il che è anche corretto poiché il concetto di liberta implica anche l’astensione. E tuttavia quando l’astensione raggiunge livelli elevatissimi sì da quasi superare il numero dei votanti, è chiaro che è in atto una crisi della sensibilità politica dei cittadini.

Si tratta di un processo che in Italia si può far risalire alla cosiddetta fine della prima Repubblica (1994) ossia con la fine dei partiti che esistevano nella Penisola dal 1946.

In realtà, il fenomeno rientra nel collo delle grandi ideologie e, di conseguenza, in una semplificazione della vita politica tra due schieramenti, etichettati come moderati o conservatori da una parte e progressisti dall’altra.

Non per nulla negli Stati Uniti d’America dove esistono praticamente solo due partiti, il repubblicano e il democratico, l’astensionismo tocca spesso punte del 70% a cui peraltro ci si è abituati.

Di qui un altro aspetto che va considerato: il ruolo decisivo del candidato alla presidenza.

Sostanzialmente si vota la persona più che le idee.

D’altronde tutti possiamo constatare che nei nostri Comuni sono pressoché inesistenti le tradizionali sezioni dei partiti, ove una volta i tesserati potevano discutere vari temi politici.

Di qui un ulteriore paradosso. Si ritiene che in una società democratica chi “comanda” o, per essere più corretti, chi ha la gestione della cosa pubblica sia la maggioranza.

Nei fatti, invece, proprio grazie all’astensionismo, la gestione del potere è comunque affidata ad una minoranza, mentre la maggioranza dei cittadini assiste con apatia, rassegnazione o altro, a quello che la minoranza decide.

Negli anni ’80 del secolo scorso il sottoscritto scrisse un libro sull’importanza dell’educazione politica, intesa non come educazione partitica, ma come educazione alla partecipazione responsabile alla vita pubblica.

Al presente, di fronte a fenomeni come l’astensionismo, la cancel culture, l’improvvisazione demagogica che talvolta si fa sentire per il tramite dei social, una riflessione articolata, ponderata e di largo respiro sulla necessità di una rifondazione della vita civile, in modo che non sia soggetta alle pulsioni del momento, sarebbe opportuna.

Naturalmente tutto riesce difficile ed è inutile evocare il ricordo della vecchia Educazione civica, anche se dal settembre del 2020 l’Educazione civica è considerata una disciplina trasversale che riguarda tutti i gradi scolastici.

In una società ove predomina il relativismo individualistico, mancano i grandi valori che danno davvero lo slancio vitale all’impegno civile che investa la collettività e tutto si risolve nel gioco degli interessi di piccoli gruppi o dei singoli.

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Galatina, il Liceo Vallone si mobilita “fa rumore” per le Donne

Sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

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In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale dei Diritti della donna, il Liceo A. Vallone, di Galatina, sceglie di “far rumore” al fine di sensibilizzare i giovani, e la cittadinanza tutta, sul significato intrinseco di questa ricorrenza.

Previsto in mattinata, alle ore 11.45, un corteo che partirà dalla sede centrale del Liceo, in viale don Tonino Bello, e si muoverà verso Piazza San Pietro dove si terrà un flash mob di riflessione chiuso con la lettura di Knocking on Heaven’s door, profondo monologo in voce maschile tratto da Ferite a morte, di Serena Dandini. 

“L’ignominia continua da Giulia…1,2,3…12 vittime” è il messaggio che gli studenti e le studentesse del Liceo porteranno in corteo, ribadendo che “Nessun delitto ha una giustificazione”!

Tutti gli studenti e le studentesse del Liceo, accompagnati dal personale scolastico, attraverseranno le strade principali della città (viale don Tonino Bello – via Ugo Lisi – C.so porta Luce – Piazza San Pietro) con l’obiettivo di fare un silenzioso rumore sull’inefficacia di questa ricorrenza, dipanando un drappo rosso lungo 30 metri, simbolo del dolore e delle violenze che le donne ancora subiscono, visto il perdurante divario di genere.

“Non si ha nulla da celebrare se non vi è uguaglianza. Non si celebra la Donna se non La si rispetta” Queste le parole della Dirigente Scolastica, prof.ssa Angela Venneri, che ha fortemente promosso e sostenuto l’iniziativa, in un’ottica di sensibilizzazione e condivisione d’intenti.

Non un’occasione per festeggiare, dunque, ma solo per riflettere e tenere alta l’attenzione, con l’auspicio che l’educazione culturale possa riaffermare un ineludibile principio di civiltà.

Da qui l’augurio conclusivo dei nostri studenti e studentesse a tutte le donne con i dolcissimi versi della poesia di Alda Merini, Sorridi donna.

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